Recensione di: Michela D’Alessandro – 03/04/2011
Nella presente raccolta di saggi Giovanni Tuzet discute, attraverso un approccio analitico di tipo pragmatista, la natura incerta del ragionamento giudiziale e dell’applicazione del diritto, sostenendo allo stesso tempo la possibilità di misurare la loro correttezza attraverso standard inferenziali. Come sottolinea l’Autore, il ragionamento giudiziale ci appare oggi confuso, incerto, ampiamente discrezionale e, pertanto, innegabilmente distante dal modello illuminista del sillogismo. Ciò nonostante una riduzione di questo iato sarebbe possibile attraverso l’individuazione di criteri atti a disciplinare l’esercizio del ragionamento, essendo questa l’unica via ritenuta praticabile per poter comunque giustificare l’abduzione e la scelta discrezionale.
Nella prima parte, dedicata al ragionamento giudiziale, viene esaminata l’inferenza, «una condotta mentale, una pratica che può essere migliorata o peggiorata secondo la volontà, gli interessi e il senso morale di chi la conduce (p. 10)», e in particolare quella abduttiva, cioè incerta e ipotetica perché esercitata in condizioni di informazione incompleta. Tuzet specifica quattro diversi usi giuridici dell’abduzione: l’inferenza da fatti a norme, l’inferenza da norme a principi, l’inferenza da fatti a fatti e l’inferenza da caratteri a concetti. Sebbene l’abduzione costituisca la prima parte del processo logico che porta al giudizio, quest’ultimo presenta anche una componente deduttiva.
In accordo con il metodo scientifico di Peirce, l’Autore sottolinea che quaestio facti e quaestio juris possono essere interpretate come fasi processuali in cui vale l’articolazione di abduzione, deduzione e induzione. Secondo questo modello, infatti, i fatti rilevanti e le norme ad essi relative sono determinati da un’abduzione che viene prima sviluppata deduttivamente e, successivamente, testata induttivamente (cfr. pp. 25-26). L’equilibrio interno alla triplice articolazione inferenziale rispetterebbe comunque la tradizionale distinzione tra fase fattuale e fase normativa ma, diversamente da altri modelli, avrebbe il merito di garantire conclusioni più affidabili.
Pur nel suo essere incerta, l’inferenza abduttiva può essere messa alla prova grazie a test, criteri e inferenze più stringenti che ne attestino la validità. Questo tipo di esame viene affrontato per il ragionamento probatorio, nella qualificazione giuridica dei fatti, nell’individuazione dei principi e nel ragionamento analogico. Tre sono le tesi fondamentali a monte della ricognizione dell’abduzione nel ragionamento probatorio: «l’accertamento della verità è il fine principale dell’abduzione, anche nelle sue forme giuridiche; […] il concetto di prova implica il concetto di verità; […] il concetto di prova implica inoltre il concetto di inferenza (p. 42)» in esso implicato in quanto «non può esserci prova che non sia prova del vero (p. 49)».
Uno dei problemi del ragionamento giudiziario consiste nel qualificare giuridicamente i fatti. Il modello ermeneutico ha evidenziato che è il caso concreto a guidare l’individuazione delle norme, le quali selezionano ciò che è rilevante tra gli aspetti fattuali. Invero, l’Autore ammette che una distinzione più analitica è possibile attraverso l’uso di abduzioni classificatorie, ovvero di «ipotesi basate su concetti e rappresentabili tramite una logica dei predicati (p. 53)». I comportamenti osservati non sono sufficienti per inferire una regola che, tuttavia, può essere conosciuta a partire dalle inferenze articolate. Accanto a questa problematica di ordine cognitivo, Tuzet pone anche due questioni normative: quale regola bisogna seguire in circostanze generali e quale in circostanze particolari? Nel primo caso «si deve cercare di abdurre la regola da seguire e si deve cercare di testare l’ipotesi, considerando pure il fatto che sapere quale regola è stata seguita offre spesso degli indizi preziosi sulla regola da seguire (p. 68)». Nel secondo caso non può, invece, valere la stessa metodologia perché, piuttosto che affidarsi alla responsabilità della comunità interpretante (community view), deve valere il principio della responsabilità personale. Il giudizio individuale non deve, però, essere inteso come totalmente “privato” o “intuizionista” poiché la deliberazione ha pur sempre una natura “pubblica” e ciò in virtù del fatto che, per dirla con Mead, il Sé nasce sempre dal confronto con l’altro da sé (cfr. pp. 67-68).
Circa l’abduzione dei principi e la loro applicazione si pone il seguente quesito: se i principi presentano tra loro una certa incoerenza, si può parlare di conflitto o incongruenza? Conflitto e congruenza sono tra loro inversamente proporzionali; tuttavia, anche se è impossibile quantificare le relazioni tra questi elementi, occorre tener presente che «la congruenza non è un test decisivo della giustificatezza dell’abduzione di un principio, ma un test atto a rafforzare o indebolire le ipotesi […] che dovrebbe far escludere le ipotesi poco congruenti senza d’altro canto richiedere una congruenza massima ai fini della loro giustificatezza (p. 89)».
Un ulteriore problema teorico e pratico concerne i criteri di valutazione delle conclusioni analogiche del giudizio. Come per l’abduzione, l’analogia, intesa come inferenza complessa, basilare e creativa utilizzata nel ragionamento ordinario e pratico, non produce conclusioni certe, che devono comunque essere testate perché, a detta dell’Autore, ciò «non costituisce inferenzialmente uno scacco […] piuttosto un principio di responsabilità inferenziale (p. 105)».
La seconda parte del volume è dedicata alle norme giuridiche e al giudizio. Dopo aver distinto norme morali e norme giuridiche, Tuzet si focalizza su un requisito di queste ultime: la novità. Egli distingue la novità delle norme generali (legislative) da quella delle norme individuali (giudiziali), sostenendo che sia sul piano ontologico, sia sul piano concettuale la prima forma di novità si configura come assoluta, mentre la seconda come relativa. Questa distinzione ha conseguenze in termini di responsabilità di scelta perché presuppone che, dinnanzi a norme nuove e non inferibili, la responsabilità dell’autorità normativa dipenda proprio dalla novità delle norme, e non viceversa (cfr. pp. 109-132).
Altro requisito delle norme giuridiche sono le relazioni pragmatiche in cui sono coinvolte; relazioni che richiamano il problema dell’indeterminatezza del diritto, ovvero la difficoltà di discernere in modo preciso i casi che rientrano nella denotazione di un concetto giuridico da quelli che non vi rientrano. Tale indeterminatezza trova, qui, risposta sul piano pragmatico della comunicazione e dell’interazione tra soggetti e in quello semantico del principio di significazione (cfr. pp. 131-158).
L’applicazione delle norme giuridiche non si riduce all’essere un’operazione meccanica perché, dal momento che il diritto, la giustizia e i cittadini non sono delle macchine, richiede una sensibilità morale e un’agire responsabile che sappia dar conto delle conseguenze (cfr. 159-177).
Ciò è testimoniato dalla dimensione pubblica e processuale del giudizio, di cui Tuzet enuncia tre tesi: la tesi ontologica, che riguarda il contenuto di un atto di giudizio; la tesi aletica, che considera il giudizio come attribuzione di un valore di verità ad una proposizione; la tesi genetica, che rende conto della dimensione temporale e riflessiva del giudizio, concepito come processo il cui risultato è l’attribuzione di un valore di verità (cfr. pp. 179-195).
La terza parte del volume affronta il tema della conoscenza e della varietà dell’esperienza giuridica, colta nella sua dimensione proposizionale, valoriale, pratica e interpretata in senso ampio come conoscenza del, nel e dal diritto (cfr. pp. 199-222).
Tuzet, inoltre, non manca di interrogarsi sulla legittimità di una filosofia cognitiva del diritto, il cui compito sarebbe quello di indagare i processi mentali per mezzo dei quali i giuristi organizzano le informazioni ed elaborano il diritto. A tal fine egli distingue quattro ambiti d’indagine, pur nella convinzione che essi non esauriscono lo spettro dei possibili campi di ricerca: la cognizione del processo, delle norme, per la produzione e la revisione di norme e, infine, per la costruzione di artefatti mentali. Secondo l’Autore, questo nuovo approccio cognitivo permetterebbe una migliore comprensione dei processi cognitivi che presiedono al giudizio e, dunque, non solo della dimensione pubblica della giustificazione, ma anche della sfera privata e psicologica del decisore (cfr. pp. 223-236).
Il volume si chiude con un approfondimento della nozione di esperienza giuridica, pragmaticamente recepita nella sua varietà e ricchezza, nonché nei suoi quattro sensi fondamentali: singolare, pratico, ermeneutico ed empirico. Attraverso una chiarificazione delle componenti pratiche e conoscitive dell’esperienza e dei vantaggi operativi cui porterebbe la sua adozione, Tuzet scorge la possibilità di riconsiderare il sillogismo come un modello prescrittivo della decisione giudiziale. Rispondendo alla critica di Holmes al sillogismo come modello descrittivo dell’attività giudiziale o legislativa, egli argomenta che, oltre ad appiattire il sillogismo ad un modello meramente descrittivo, il punto in questione non è tanto stabilire se i giudici debbano limitarsi a premesse “già preconfezionate”, ma se possano attingere a premesse tratte dalla morale o da altre discipline. Così facendo, però, si finirebbe col sostituire le premesse giuridiche con premesse di altra natura (cfr. pp. 237-249).
Sullo sfondo di questa interessante ricognizione del ruolo dell’incertezza nelle decisioni giudiziali emerge la proposta dell’Autore di rendere più giusta possibile la «dolorosa» pratica del dover decidere, un compito a cui tutti dovrebbero contribuire in vista del bene comune.
Indice
Introduzione
Parte prima: Sul ragionamento giudiziale
Abduzione: quattro usi giuridici
Le prove dell’abduzione
Come inferire la regola da seguire
L’abduzione dei principi
L’analogia come inferenza complessa
Parte seconda: Sulle norme e il giudizio
Norme e novità
Pragmatica dell’indeterminato
Il diritto non è una macchina
Tre tesi sul giudizio
Parte terza: Sulla conoscenza giuridica
La conoscenza giuridica
Una filosofia cognitiva del diritto?
Le varietà dell’esperienza
L'autore
Giovanni Tuzet è dottore di ricerca in Filosofia del diritto presso l’università di Torino e in Filosofia della conoscenza e ontologia presso l’Università di Paris XII. Oltre a numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali, ha pubblicato il libro La prima inferenza. L’abduzione di C. S. Peirce fra scienza e diritto (Giappichelli 2006) e ha curato i volumi I pragmatisti italiani. Tra alleati e nemici (Albo Versorio 2007, con G. Maddalena) e The Rules of Inference. Inferentialism in Law and Philosophy (Egea 2009, con D. Canale). Ha trascorso periodi di ricerca nelle università di Losanna, Navarra, Yale, Oxford. Insegna Filosofia del diritto presso l’Università Bocconi di Milano.
Links
Pagina dell’Università Bocconi di Milano
http://didattica.unibocconi.it/docenti/cv.php?rif=49852&cognome=TUZET&nome=GIOVANNI
4 commenti:
La pubblicazione recensita ha valore per la giurisdizione e per la normatività interna a stessa giurisdizione. Entro questo cerchio, che non è 'circolo vizioso', le conclusioni di Giovanni Tuzet sono senza dubbio valide ed anche le difese del valore pratico della logica del sillogismo, senza dubbio necessarie perché vi sono detrattori che la negano per favorire ciechi arbitri politici o fatalisti abbandoni antipolitici.
In merito alle decisioni legislative stesse non è possibile invece restare entro medesimo cànone filosofico che G. Tuzet aveva adottato in merito ai 'ragionamenti giudiziali'.
La abduzione, termine latineggiante che opportunamente contiene significati inerenti storia del diritto, è comunque quale attuazione un addurre, che si usa con dedurre e indurre e che entro giurisdizione stessa ha ruolo primario, ma che nel formarsi della giurisdizione non ha ruolo primario. L'utilizzabilità del cànone medesimo adottato da Tuzet ne resta avvantaggiata da altro cànone filosofico entro cui deduzione ha ruolo primario e che vale entro generalità costituzionali stesse, premesse maggiori anche rispetto a quelle di terzo cànone filosofico, già assai noto, che ha funzione entro procedurabilità di regole stesse. Questo terzo cànone fu assai meditato da Habermas, che giustamente filosoficamente notava necessario dovere di attinenza delle norme ai fatti e non viceversa; invece quel che filosoficamente ha notato Cluzet sulla normatività è la necessarità di coerenza interna tra leggi con norme e norme con regole e norme con se stesse, secondo la pratica esterna ad esse, fondata non sulla considerazione dei fatti perché non si tratta di procedure bensì sulla considerazione delle volontà perché si tratta di normative.
Di tutto ciò, passati molti anni e molte cose accadute, bisogna riconoscere con pignoleria i limiti ma continuando a riconoscerne i meriti e aggiungere l'àmbito costituzionale per analoga meditazione filosofica. In tal àmbito, costituzionale, non si tratta di indurre in base ai fatti né di addurre in base alle regole ma di dedurre in base ai bisogni.
Considerando tutti e tre gli elementi meditati, di tali indurre, addurre, dedurre, che si pongono quali concentriche e gerarchiche sfere di potere, dalla supremazia costituzionale alla intermediazione normativa alla fattibilità giuridica, non è possibile incorrere in erranze di sopravvalutazioni o sottovalutazioni. Senza inserire il quadro superiore della formazione legislativa in ottemperanza alla costituzione dello Stato allora l'addurre in base alle regole resta non cautelato, col rischio di produzioni di false norme, poiché astrattamente giuridicamente ineccepibili ma concretamente giuridicamente non fattibili e dunque per Costituzione stessa da cui discende statualità politica da: e v i t a r e.
Questo evitare significa potere costituzionale in atto che impedisce legiferazioni false e che modera la legiferazione impedendone eccessi che sarebbero ai danni di cittadinanza ed ancor di più contro l'abitare stesso nel Paese.
A tali condizioni dunque la filosofia non può giovare alla politica solamente con giusta difesa del sillogismo e con giusta applicazione della prassi, è necessario promuovere filosoficamente giusto riconoscimento di forme.
MAURO PASTORE
Della persistente validità della impostazione di G. Tuzet ma della necessità di aggiungere altra impostazione che possa tutelare libertà di forme, ne è caso esemplare quel che sta accadendo con la discussione postuma per riforma di codice stradale votata ma posta in giacenza e quindi ripresa in esame.
Si discute anche sui pattini e parrebbe agli ingenui immancabile diritto od assoluto non diritto discuterne in Senato, ma se discussione accade per provvedimento in giacenza ciò non è lo stesso che non vi fosse stata giacenza; allora la discussione ha una possibile onestà al suo fondo ma avrebbe anche possibili disonestà di fondo.
Cosa avrebbe da dire il filosofo, perché può dirne anche a fatti già iniziati?
Ne dico io, da filosofo che valuta forme, senza pretendere ad un dire efficace unica efficacia:
~
Non sarebbe possibile per una lepre superare una tartaruga se, nello spazio fatto di infiniti punti da un punto ad altro punto, lo spostamento fosse soltanto movimento e non anche moto.
~ ~
Non è possibile al legislatore valutare un codice di norme per l'uso semplice delle ruote, quale è quello dei pattini, a motore o non a motore che fossero, essendo questi mezzi per minima parte del corpo e della mente ma avendo per referenti diretti utenti ed utilizzatori, né dare obblighi di norme all'uso libero e per l'utilizzo pieno delle ruote, quale è possibile soltanto con motocicli e motociclette, essendo questi mezzi intrinsecamente per intero corpo e completamente per la mente e direttamente dipendendo da utenti ed utilizzatori.
~ ~ ~
Quanto più il legislatore tarda a dismettere reali propositi per tali casi, tanto più ne è offeso il diritto individuale ed anche collettivo di ciascuna persona ad agire in libertà e ad attuare capacità, di spostarsi liberamente e di avvalersi direttamente di tecniche e tecnologie.
Perché dirlo a fatti già iniziati? Perché il rispetto delle forme prescinde dal sapere o non sapere, perché tal rispetto non impedisce la libertà di valutazione e perché il problema non è costituito da fatti ancora riconducibili a logica politica statale. La giacenza tutela i diritti ma consente dibattito libero ma l'interrogativo, di cui domanda poi anche il filosofo, riguarda stesso dibattere in politica ed in Stato, e non per interrogazione arbitraria e non con domandare soggettivo, perché si tratta di rispettare forme costituzionali ed altre forme, nella fattispecie forme di spostamento: uno comunque rudimentale cioè su pattini, un altro comunque evolutissimo, cioè su motocicli e motociclette (il non competente non li confonda coi ciclomotori).
Perché l'esempio conporta alla filosofia competenze aggiunte? Perché si tratta di contemperare non esigenze soggettive bensì o g g e t t i v e.
MAURO PASTORE
In messaggio precedente 'conporta' sta per: comporta.
Invierò testo intero con dizione corretta.
MAURO PASTORE
Della persistente validità della impostazione di G. Tuzet ma della necessità di aggiungere altra impostazione che possa tutelare libertà di forme, ne è caso esemplare quel che sta accadendo con la discussione postuma per riforma di codice stradale votata ma posta in giacenza e quindi ripresa in esame.
Si discute anche sui pattini e parrebbe agli ingenui immancabile diritto od assoluto non diritto discuterne in Senato, ma se discussione accade per provvedimento in giacenza ciò non è lo stesso che non vi fosse stata giacenza; allora la discussione ha una possibile onestà al suo fondo ma avrebbe anche possibili disonestà di fondo.
Cosa avrebbe da dire il filosofo, perché può dirne anche a fatti già iniziati?
Ne dico io, da filosofo che valuta forme, senza pretendere ad un dire efficace unica efficacia:
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Non sarebbe possibile per una lepre superare una tartaruga se, nello spazio fatto di infiniti punti da un punto ad altro punto, lo spostamento fosse soltanto movimento e non anche moto.
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Non è possibile al legislatore valutare un codice di norme per l'uso semplice delle ruote, quale è quello dei pattini, a motore o non a motore che fossero, essendo questi mezzi per minima parte del corpo e della mente ma avendo per referenti diretti utenti ed utilizzatori, né dare obblighi di norme all'uso libero e per l'utilizzo pieno delle ruote, quale è possibile soltanto con motocicli e motociclette, essendo questi mezzi intrinsecamente per intero corpo e completamente per la mente e direttamente dipendendo da utenti ed utilizzatori.
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Quanto più il legislatore tarda a dismettere reali propositi per tali casi, tanto più ne è offeso il diritto individuale ed anche collettivo di ciascuna persona ad agire in libertà e ad attuare capacità, di spostarsi liberamente e di avvalersi direttamente di tecniche e tecnologie.
Perché dirlo a fatti già iniziati? Perché il rispetto delle forme prescinde dal sapere o non sapere, perché tal rispetto non impedisce la libertà di valutazione e perché il problema non è costituito da fatti ancora riconducibili a logica politica statale. La giacenza tutela i diritti ma consente dibattito libero ma l'interrogativo, di cui domanda poi anche il filosofo, riguarda stesso dibattere in politica ed in Stato, e non per interrogazione arbitraria e non con domandare soggettivo, perché si tratta di rispettare forme costituzionali ed altre forme, nella fattispecie forme di spostamento: uno comunque rudimentale cioè su pattini, un altro comunque evolutissimo, cioè su motocicli e motociclette (il non competente non li confonda coi ciclomotori).
Perché l'esempio comporta alla filosofia competenze aggiunte? Perché si tratta di contemperare non esigenze soggettive bensì o g g e t t i v e.
MAURO PASTORE
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