Il volume si presenta come un’approfondita analisi di due libri di Umberto Galimberti (La casa di psiche e L’ospite inquietante), che dimostra come siano stati ottenuti per lo più accostando tra loro brani di testo provenienti da opere precedenti dello stesso autore, eventualmente con alcune leggere modifiche. L’indagine è strutturata così: per ciascun tema trattato da Galimberti, Bucci affronta il testo in primo luogo con una lettura che definisce «ingenua», che cerca semplicemente di comprenderne il significato.
Essa si rivela fin troppo ingenua, perché a volte sembra non riconoscere certe espressioni idiomatiche della filosofia. Per esempio: quando parla di «tecnica», Galimberti probabilmente non sta pensando all’insieme di saperi che consente di costruire elettrodomestici, bensì a un’idea proposta da M. Heidegger e ripresa da E. Severino (a cui Galimberti deve molto). Dopo la lettura ingenua Bucci propone una lettura «informata», che mostra – a volte mediante chiare tabelle – come i passaggi del libro sotto esame siano praticamente identici a porzioni di precedenti testi dello stesso Galimberti. Tutto ciò senza che essi vengano mai indicati come citazioni, cioè come se si trattasse di idee originali. Le due letture sono complementari, nel senso che la lettura ingenua individua i numerosi problemi logici e semantici presenti nei discorsi di Galimberti, mentre la lettura informata cerca una spiegazione per simili difficoltà, individuandola nell’accostamento pressoché arbitrario di brani «riciclati», che provengono da contesti di discorso spesso estranei da quello del quale il libro sta trattando. Di conseguenza accade che allo stesso pensatore vengano attribuite concezioni diverse e incompatibili, oppure che la medesima tesi venga associata ad autori differenti, le cui dottrine sono prive di connessioni. I due libri già ricordati sono considerati da Bucci come i più emblematici casi di un metodo di composizione che Galimberti porta avanti con sempre maggior costanza da una trentina di anni (l’introduzione riporta nel dettaglio le «percentuali di riuso» che si possono individuare all’interno di tutte le sue opere). Di particolare interesse a questo proposito è la prima delle appendici, che presenta, anche con l’aiuto di diagrammi, gli spostamenti delle varie porzioni di testo da un’opera di Galimberti a un’altra.
Essa si rivela fin troppo ingenua, perché a volte sembra non riconoscere certe espressioni idiomatiche della filosofia. Per esempio: quando parla di «tecnica», Galimberti probabilmente non sta pensando all’insieme di saperi che consente di costruire elettrodomestici, bensì a un’idea proposta da M. Heidegger e ripresa da E. Severino (a cui Galimberti deve molto). Dopo la lettura ingenua Bucci propone una lettura «informata», che mostra – a volte mediante chiare tabelle – come i passaggi del libro sotto esame siano praticamente identici a porzioni di precedenti testi dello stesso Galimberti. Tutto ciò senza che essi vengano mai indicati come citazioni, cioè come se si trattasse di idee originali. Le due letture sono complementari, nel senso che la lettura ingenua individua i numerosi problemi logici e semantici presenti nei discorsi di Galimberti, mentre la lettura informata cerca una spiegazione per simili difficoltà, individuandola nell’accostamento pressoché arbitrario di brani «riciclati», che provengono da contesti di discorso spesso estranei da quello del quale il libro sta trattando. Di conseguenza accade che allo stesso pensatore vengano attribuite concezioni diverse e incompatibili, oppure che la medesima tesi venga associata ad autori differenti, le cui dottrine sono prive di connessioni. I due libri già ricordati sono considerati da Bucci come i più emblematici casi di un metodo di composizione che Galimberti porta avanti con sempre maggior costanza da una trentina di anni (l’introduzione riporta nel dettaglio le «percentuali di riuso» che si possono individuare all’interno di tutte le sue opere). Di particolare interesse a questo proposito è la prima delle appendici, che presenta, anche con l’aiuto di diagrammi, gli spostamenti delle varie porzioni di testo da un’opera di Galimberti a un’altra.
Pregi dell’opera. Si tratta di un testo molto istruttivo, per gli interrogativi che fa sorgere sul funzionamento dell’editoria, dell’università, e dell’establishment culturale italiani (cfr. su questo ultimo punto sopratutto l’appendice D). Simili argomenti, tuttavia, sono tematiche giornalistiche piuttosto che filosofiche. Per questi aspetti il valore del libro è indiscutibile, e anzi si deve apprezzare l’autore per aver presentato le sue scoperte tutto sommato con ironia, piuttosto che con lo sdegno che spesso vediamo accompagnare i documenti di denuncia. Ai fini della presente rivista, però, si devono a mio avviso considerare esclusivamente i pregi filosofici del volume. Questi mi sembra siano riconducibili alla riflessione, che la lettura di questo libro può suggerire, su quali siano i criteri di valutazione per uno scritto di filosofia. Bucci muove sostanzialmente tre tipi di critiche alle opere di Galimberti: (a) contengono ragionamenti insensati; (b) non svolgono il tema presentato nel titolo e/o nell’introduzione; (c) sono composti quasi interamente estrapolando brani di altre opere e mettendoli assieme in un ordine difficilmente comprensibile. Per quanto riguarda i primi due punti ci si potrebbe per esempio chiedere se, applicandoli con rigore a diversi testi «classici» della disciplina, non si finisca per essere costretti a rifiutarne troppi. Diverse volte, infatti, pare che i filosofi si servano di affermazioni paradossali per i loro scopi, e numerosi libri sono giudicati ottimi lavori filosofici pur senza avere un preciso filo conduttore. La critica meno discutibile sembra senz’altro la terza. Immaginiamo che si scopra che per esempio la Fenomenologia dello Spirito fu composta riciclando materiali precedenti e copiando da altri autori senza menzionarli (alcuni quotidiani nazionali hanno messo in luce anche questo aspetto degli scritti di Galimberti). Probabilmente il prestigio di tale opera presso gli addetti ai lavori diminuirebbe sensibilmente. Il punto è che coerenza, compattezza, e originalità sono tre condizioni ormai universalmente accettate per decidere della bontà di una «produzione scientifica». Sono diventate, senza dubbio per motivi ben validi, «le regole del gioco», per così dire. Come tali, ormai si dà per scontato che vadano applicate a tutti i tipi di prodotto intellettuale. Eppure, la filosofia ha una storia ben più antica di quei criteri, e sopratutto tra i suoi compiti tradizionali c’è proprio quello di ripensare i presupposti più indubitabili.
Difetti dell’opera. Prima della esauriente documentazione del «riciclo» galimbertiano dei propri testi, si trova nel volume una inopportuna e poco approfondita accusa nei confronti di una corrente filosofica, il post-modernismo, specialmente nei suoi rappresentanti italiani. L’autore ritiene che «I tratti salienti del pensiero di Umberto Galimberti sono infatti riconducibili [...] alle tesi di fondo condivise [...] da tutti quei pensatori che [...] si definiscono post-moderni […], possiamo cogliere il nucleo centrale del pensiero post-moderno (o “debole”) nel rifiuto della razionalità “illuministica” e nella sua (presunta) pretesa di fornire spiegazioni totalizzanti; nella critica della scienza e della tecnica, prodotti di tale razionalità, considerate pericolose espressioni di volontà di dominio sull’uomo e sulla natura; nella negazione dell’oggettività e dell’universalità della conoscenza (in primis quella scientifica), e anzi dell’oggettività in generale; nel conseguente relativismo, sia in campo conoscitivo (non esistono fatti, ma solo interpretazioni), sia in campo assiologico (non esistono valori assoluti [...])» (pp. 24-25). Tale corrente filosofica, poi, «ha in comune con la religione [...] l’insondabilità dell’oggetto, l’astrusità dei contenuti e l’arbitrarietà del linguaggio [...]» (p. 27), ed è facile accorgersi che «carenza di rigore logico (e di senso) caratterizza in realtà [...] buona parte dei discorsi degli officianti del post-modernismo» (ibidem). Pertanto, «nel fornirci le prove documentali della vacuità di molta parte del suo dire (e ridire), Umberto Galimberti [...] contribuisce a demistificare anche quel “pensiero debole” di cui egli è, in Italia, uno dei più noti esponenti» (ibidem). È una critica inopportuna perché rischia di far passare l’intero volume, il cui valore sta nella dettagliata ricostruzione delle nascoste fonti galimbertiane, per una provocazione «ideologica», come se fosse stato scritto con l’intento «filo-illuminista» di screditare i pensatori «irrazionalisti». Si tratta inoltre di una polemica superficiale, prima di tutto perché attacca un’intera corrente filosofica per mezzo di un argomento ad hominem (che le critiche a Galimberti valgano per ogni rappresentante del pensiero debole è tutto da dimostrare), e in secondo luogo perché non è condotta in maniera adeguata: è encomiabile il lettore che segnala agli altri lettori un caso di impostura, ma a giudicare se il post-modernismo sia autentica filosofia o mistificazione intellettuale dovrebbero essere gli addetti ai lavori, con gli strumenti della loro disciplina.
Indice
Prefazione di Luca Mastrantonio
Introduzione
LA CASA DI PSICHE – Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica
Parte prima – Perché Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica?
1. Il libro non-libro
2. Il tema non ha senso
3. Il tema non viene svolto
4. La pratica filosofica non c’è
5. La spiegazione dei misteri
Parte seconda – Da Freud ad Aristotele
6. Nietzsche e Freud
6.1 Un’obiezione postuma
6.2 Una strana assenza: dov’è Nietzsche?
6.3 Che cos’è la teoria lacaniana?
6.4 Un’altra strana assenza: dov’è Freud?
7. Jung e Freud
7.1 Jung filosofo
7.2 Cos’è la psicologia analitica di Jung?
7.3 Jung e Freud nell’età della tecnica
8. Il simbolo e il suo linguaggio
8.1 Trasgredire la scienza e pro-vocare il simbolo
8.2 Il simbolo in Jung
8.3 Oroscopo e psicologia
9. Dalla psicologia scientifica alla psicologia artistica
9.1 la psicologia come scienza umana
9.2 La psicologia come scienza rigorosa
9.3 La psicologia come arte
9.4 Arte e follia
9.5 Jaspers e la psicoanalisi
10. Dilthey e Jaspers
10.1 La psicologia in Dilthey e in Jaspers
10.2 La filosofia di Jaspers
11. Pratica filosofica o filosofia pratica?
11.1 Il dolore e la meraviglia
11.2 Cristianesimo, grecità e tragicità dell’esistenza
11.3 Cristianesimo, grecità e tecnica
11.4 La grecità
11.5 La colpa della Germania nazista
11.6 La phrònesis aristotelica nell’età della tecnica
L’OSPITE INQUIETANTE – Il nichilismo e i giovani
1. Il non-libro perfetto
2. La causa del disagio giovanile: il nichilismo
3. La vera causa del disagio giovanile: il futuro-minaccia
4. La causa di fondo del disagio giovanile: il disinteresse della scuola e/o dei
genitori
genitori
5. I giovani d’oggi? Tutti psicopatici
6. I giovani d’oggi? Mancano di forza d’animo
7. I giovani d’oggi? Tutti spudorati
8. I drogati? Tutti nichilisti
9. Nichilismo e suicidio
10. Nichilismo e brigate rosse
11. Nichilismo e indifferenti degli anni Novanta
12. Nichilismo e occupazione delle case
13. Nichilismo e ultras
14. Perché Il nichilismo e i giovani?
15. Gli improbabili rimedi al disagio giovanile
APPENDICE A – Gli inquieti percorsi delle parole: dimensioni e caratteristiche del riuso galimbertiano
1. I libri
2. Gli articoli e le risposte
3. I saggi introduttivi
APPENDICE B – Riuso e abuso delle parole: un florilegio
APPENDICE C – E le parole continuano a vagare: l’ultimo libro di Galimberti
APPENDICE D – Scalfari e Galimberti: un paradosso emblematico
Opere citate
Indice dei nomi
4 commenti:
Sono l’autore del libro recensito e desidero avvalermi del “diritto di replica” per evidenziare il vizio di fondo della recensione: è lo scritto di un filosofo che valuta il lavoro di un “profano” su un altro filosofo, lavoro percepito - con ogni evidenza - come un indebito sconfinamento, un’impropria invasione di campo. Lavoro che, quindi, è sì “istruttivo”, e perfino di “indubitabile valore”, ma solo sul piano della denuncia (del modus operandi galimbertiano) e della critica sociologica ( del malcostume editoriale, accademico e dell’establishment culturale), non già su quello propriamente filosofico.
I profani non conoscono, infatti, l’accezione filosofica del termine “tecnica”, nonostante che nessuna persona di media cultura possa ignorare lo sconcertante abuso del termine fatto dai più disparati filosofi da almeno un secolo (Heidegger e Severino, caro Martinello, sono purtroppo in nutrita compagnia).
I profani non sanno, poi, che “ottimi lavori filosofici” possono anche essere privi di “un preciso filo conduttore” e che “coerenza, compattezza (sic!) e originalità” non sono requisiti indispensabili della produzione filosofica. I profani non capiscono, infine, come un’opera filosofica possa essere caratterizzata da “numerosi problemi logici e semantici” ed essere perfino disseminata di “ragionamenti insensati”, perché solo agli addetti ai lavori non sfugge il costitutivo disinteresse della filosofia per la logica.
Ecco perché l’addetto ai lavori finisce con l’attribuire una qualche rilevanza filosofica solo alla terza delle critiche che il mio libro muoverebbe alle opere di Galimberti e con lo svilire la portata filosofica delle altre due, le quali invece (assieme alla terza) vietano di riconoscere qualsiasi valore filosofico (e non solo) alle opere esaminate.
Questo è dunque il punto: da una parte, il mio libro dimostra in maniera inconfutabile (perché si basa su prove rigorosamente documentali) la radicale insensatezza della produzione galimbertiana e, dall’altra, tale produzione ottiene sistematicamente non solo grande successo di pubblico, ma anche positive recensioni di autorevoli filosofi (come quella di Rovatti sulla quale ironizzo nel libro). E Galimberti, forte dell’immutato prestigio, continua a pontificare negli innumerevoli festival filosofici che si tengono qua e là nel paese, accanto a colleghi altrettanto prestigiosi.
Un fenomeno simile mai sarebbe potuto accadere nell’ambito delle scienze propriamente dette: le procedure di controllo in uso presso la comunità scientifica non lo avrebbero consentito. Fenomeni di impudente mistificazione sono invece all’ordine del giorno anche in campo artistico ormai da decenni, ma la riflessione estetica inizia (seppur timidamente) a dare finalmente segni di resipiscenza sulla deriva postmodernista delle arti. A quando un serio dibattito sullo “statuto epistemologico” della filosofia, post-moderna e non?
Non sembra andare in questa direzione Martinello laddove sostiene che la filosofia è chiamata a “ripensare” continuamente i “presupposti più indubitabili”. Quali presupposti, Martinello? Quelli metodologici, quelli teoretici, o quelli deontologici? Personalmente sospetto che vadano profondamente rivisti tutti e tre.
Francesco Bucci
Penso che il fondo delle critiche di Francesco Bucci siano assolutamente da recepire. Ma i distinguo di Martinello non sono semplice difesa della "categoria". Mi pare che il succo della questione tocchi due problematiche di fondo. La prima è "sociologica" e ci interroga sulle ragioni del successo accademico, editoriale, mediatico del "fenomeno Galimberti" analizzato. Di risposte se ne possono trovare molte, scontate o meno. La seconda questione è di natura deontologica: come possono i "filosofi" cautelarsi dai venditori di pozioni pseudofilosoficheggianti? E se ne può formulare una versione ancora più radicale: non è tutta la filosofia in fondo una pozione posticcia? Mi pare di capire, in ogni caso, che Bucci ritenga il postmodernismo il brodo di coltura per mistificatori a gogò. Ma non c'è nessuna rigorosa connessione, questo è ovvio. Altrimenti non ci spiegheremmo Don De Lillo, almeno per la letteratura. Dunque la sua critica al postomodernismo suona personale e "in aggiunta" (cosa legittima, ma appunto più soggetta a critiche, e di nuovo vicina a riflessioni di sociologia culturale). Una mia risposta immediatamente emotiva alla questione è la seguente: abbasso la deontologia, in filosofia. Penso che l'opera di Bucci sia importante in chiave anarchica e non sicuritaria. Dobbiamo ricavare dalla lettura della sua opera un senso di imbarazzo, quando alla televisione sotto il faccione di qualcuno vediamo comparire la scritta "filosofo". Professori, scrittori di filosofia è un conto... ma filosofo esibito come professione è ridicolo. Non si tratta di rivendicare l'autonomia di una disciplina e di una professione, e di valutarne il legittimo esercizio. Troppo proteiforme e di confine è questo esercizio millenario che chiamiamo filosofia. Per citare un altro tacciabile di postmodernismo, qui è in ballo, secondo me, l'etica della scrittura, di cui ognuno risponde a livello personale. Mi rendo conto che comunque nello specifico si parla di un accademico, e in questo caso è necessario interrogarsi sui criteri di valutazione. Ma non me la sentirei affatto di dire che Galimberti non abbia prodotto ricerche serie e opere interessanti, e siccome come comunicatore è indiscutibilmente bravo, questo fa pensare che anche come docente sia probabilmente ben al di sopra della media…
F. Martinello:
Vorrei aggiungere due semplici osservazioni, e un commento.
1. Bisogna distinguere un merito civico (denunciare un comportamento che la comunità ritiene scorretto), da un merito professionale (valutare qualcosa secondo i criteri di una certa disciplina). Il libro di Bucci è notevole nel primo caso, ma carente nel secondo (perché non è un libro di filosofia, ma di denuncia). Mi sembra di capire però che studiare filosofia non dovrebbe essere considerata una professione. E' davvero curioso allora che vi sia qualcuno pagato coi soldi pubblici per farlo.
2. L'attacco di Bucci è strutturato così: il post-modernismo ha prodotto un fenomeno come UG, pertanto il post-modernismo è assolutamente da rigettare. Mi sembra eccessivo. Applicando lo stesso criterio si dovrebbe dire: la democrazia rappresentativa ha prodotto degli sviluppi politici molto negativi in un certo paese del sud europa (indovinate quale), pertanto la democrazia rappresentativa è assolutamente da rigettare. Oppure: una certa religione orientale ha portato alcuni suoi adepti a dirottare aerei su grattacieli, quindi è una religione priva di qualunque valore. E così via...E' il classico problema dell'olismo: la confutazione di una conseguenza di una teoria non costringe a rigettare la teoria per intero.
Il commento è il seguente:
(3) sicuramente quelli deontologici, caro Bucci. Faccio un altro esempio: perché chi studia da una vita sempre gli stessi argomenti e scrive più o meno sempre le stesse cose (non ai livelli di UG, ma ci sono tanti modi di esprimere lo stesso concetto senza il copia-incolla) è giudicato un "grande esperto" di quell'argomento, mentre chi si interessa di temi o autori diversi - anche se non troppo distanti tra loro - è giudicato un professionista immaturo e che non ha ancora trovato la sua strada?
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