Il titolo dell’Annuario di Filosofia 2011 riprende quello di un famoso libro di Norberto Bobbio, uscito nel 1984, che aveva come sottotitolo: Una difesa delle regole del gioco. Il futuro della democrazia, che in questa fase storica «dubita di se stessa» (Editoriale, p. 7), non si gioca soltanto attorno ad una sua nuova determinazione procedurale, né in un “appello ai valori” (tolleranza, giustizia, libertà), come Bobbio riteneva allora essenziale.
Si tratta piuttosto di costruire «un consenso compartecipato su nuclei centrali, che potremmo chiamare i fondamenti prepolitici della democrazia» (ivi, p. 8), così come suggeriva già Tocqueville nel terzo libro de La democrazia in America: «Perché vi sia una società e, a più forte ragione, perché questa società prosperi bisogna, dunque, che tutti gli spiriti dei cittadini siano sempre riuniti e tenuti insieme da alcune idee principali» (ibidem). L’Annuario s’interroga, dunque, su questi fondamenti e sui grandi temi del dibattito sulla democrazia di oggi e di domani: «l’idea di persona, le questioni eticamente sensibili, il compito del diritto, il nesso religione-politica» (ibidem). Il volume collettaneo esordisce con tre importanti interviste: la prima è a Robert Spaemann (a cura di Luca Grion e Umberto Lodovici); la seconda è a Michael Sandel e Allen Buchanan (a cura di Roberto Mordacci); e la terza è ad Àgnes Heller (a cura di Daria Dibitonto e Nicolò Seggiaro). L’intervista a Spaemann verte sul tema del ruolo della verità in politica e prende le mosse dal nodo cruciale del rapporto tra religione e vita civile nell’epoca della secolarizzazione. Secondo Spaemann, «fare come se Dio non fosse (etsi Deus non daretur)» (p. 15), non è davvero una buona soluzione. Non è pensabile ritornare alla Polis, intesa aristotelicamente come il luogo della realizzazione dell’esser-uomo, della eudaimonia. «In nome della ragione l’Illuminismo - dice Spaemann - voleva creare una base per il consenso civile al di là delle contrapposizioni religiose. Ora sono gli eredi dell’Illuminismo che cercano di distruggere questa base e sono invece i credenti che la difendono. Una base neutrale si è dimostrata un’illusione. Non possiamo sfuggire al Politico» (p. 17). E alla domanda su come conciliare verità e regole democratiche Spaemann risponde che «non c’è alcuna buona politica senza verità» (p. 22). L’intervista di Mordacci a Sandel - che insegna Political Philosophy and Theory of Government alla Harvard University - è centrata sul tema del potenziamento umano (human enhancement), considerato come «una delle principali frontiere del dibattito bioetico» (p. 24). Nel libro Contro la perfezione Sandel si oppone ad un uso consumistico dell’ingegneria genetica «per scopi di potenziamento non medico», ovvero per «rendere le persone più alte, più forti o più intelligenti (cosa che ancora non è possibile) o scegliere il sesso dei figli» (p. 24). In un altro importante volume, Justice, Sandel sviluppa una prospettiva filosofica basata sull’idea di bene comune, in cui le «concezioni permeate dalla religione» (informed by religion) hanno un ruolo nel discorso pubblico sulla giustizia, in quanto non è desiderabile separare il dibattito democratico dalle questioni sulla vita buona, sulla virtù e sul carattere (cfr. p. 25). Buchanan è tra i primi pensatori liberali ad applicare la base rawlsiana dei principi di giustizia alle questioni di genetica. Da questo punto di vista, espresso ed articolato nel volume From Chance to Choice. Genetics and Justice - scritto insieme a Dan W. Brock, Daniel Wikler e Norman Daniels - , il «potenziamento genetico non può essere un male intrinseco», se «le scelte libere degli individui fanno parte di uno schema di istituzioni eque» (p. 26). L’intervista alla Heller, dal titolo Democrazia: un ordinamento fragile, ma senza alternative, si snoda attorno al rapporto tra filosofia e politica. «La filosofia - afferma Heller - come fornitrice di un servizio non può pretendere di innalzarsi alla verità o all’infallibilità; il suo servizio però non solo è utile, ma anche indispensabile per la politica democratica» (p. 32). Per sopravvivere, la democrazia, secondo Heller, va rifondata ogni momento. Essa è «un ordinamento che si autoregola. Per dirla più semplicemente, non ha altro fondamento all’infuori del libero consenso delle persone e dell’incarnarsi di questo nella costituzione» (p. 34). Nonostante la fragilità della democrazia, la Heller pensa ad una possibile combinazione tra una democrazia basata sul sistema della rappresentanza ed una democrazia diretta, quest’ultima preferita da Hannah Arendt. Il processo della costruzione della democrazia, per Heller, è stato, è e sarà sempre un lavoro faticoso in cui c’è progresso e regresso. L’Annuario è articolato in tre sezioni. La prima è composta dai saggi di Vittorio Possenti (curatore del volume), Eugenio Mazzarella, Paolo Costa, Roberto Mordacci e Alex Grossini. Il contributo di Possenti, dal titolo Democrazia, questione antropologica e biopolitica, difende la tesi secondo cui occorre «riprendere a rinnovare la democrazia e l’ideale democratico per la via antropologica, consapevoli che la sola via etica non basta» (p. 40). «Per andare avanti la democrazia - scrive Possenti - ha bisogno di un primo motore: esso si trova nell’idea di persona, che stabilisce la ‛verità antropologica della democrazia’» (p. 39). A sostegno della sua tesi sulla rilevanza politica dell’idea di persona, Possenti cita non soltanto Boezio e Tommaso d’Aquino, ma anche M. de La Palisse, G. B. Vico, C. Schmitt, G. La Pira, F. Rodano e J. Maritain, prendendo nettamente le distanze dalle posizioni “neoliberali” di J. Rawls e di M. Nussbaum. In questo quadro teorico Possenti ritiene superate ed inadeguate sia la posizione «paleo-liberale e crociana di un’aurea età dei distinti», sia quella «pragmatistica di Rorty sull’inutilità della filosofia e dell’antropologia per la democrazia» (p. 45). Secondo Possenti, la biopolitica è una «scienza umana, non una tecnica o una scienza naturale» (p. 55), è una «scienza pratica» (p. 58), ed è per questo che «non può allontanare da sé il livello normativo» (p. 58), pena il diventare una vera e propria «biocrazia» (ibidem). La forma di democrazia da reinventare ed auspicabile per il domani - conclude - «è una democrazia capace di riscoprire la radice cristiana che unisce persona e bene comune, e la radice greca e romana del repubblicanesimo delle virtù civili che si uniscono nell’umanesimo civico della vita buona» (p. 61). Il saggio di Mazzarella, dal titolo Democrazia e valori, mette in chiaro l’esigenza di «una laicità franca e adulta, (...), disposta ad apprendere, senza falsa sufficienza, dal patrimonio di umanità delle esperienze religiose, ma insieme orgogliosa del suo ufficio politico e civile di presidio non negoziabile della libertà delle coscienze e dei diritti e della dignità della persona (p. 66). E che sappia anche suggerire al legislatore un “diritto mite”, non proibitivo né coercitivo, in grado di saper mediare, specie nelle questioni etiche più spinose o estreme, tra le ragioni della pietà e quelle della legge. Nel suo intervento, dal titolo Vulnerabilità e rilevanza della sfera pubblica nelle democrazie moderne, Costa individua nella “sfera pubblica” «il fulcro dell’esperienza politica democratica» (p. 76) e, citando la Arendt, «la precondizione dell’esistenza di un mondo comune» (ibidem). La sfera pubblica moderna è però uno spazio “metatopico” diverso dagli altri: è uno spazio “profano”, ma anche e soprattutto uno spazio “extrapolitico”, «un criterio di legittimità dell’azione statale» (p. 79). Questo suo carattere extrapolitico, tuttavia, la espone al rischio di trasformarsi in uno strumento di esclusione o addirittura in un’anticamera del “dispotismo dolce” (Tocqueville), lo specchio in cui si riflette il volto ingannevolmente affabile del Leviatano» (pp. 82-83). Procedendo oltre la retorica del trionfo e del tramonto della democrazia, Costa conclude che «la verità è che il futuro della democrazia è allo stesso tempo dipendente e indipendente da noi. Bisogna imparare a convivere con questo sano disincanto. In che stato è, dunque, la democrazia? A un bivio, come sempre» (pp. 86-87). Mordacci e Grossini chiudono la prima sezione con una riflessione critica su Giustizia e governo democratico in Amartya Sen. «L’idea di giustizia di Amartya Sen - scrive Mordacci - è il tentativo di delineare una teoria della giustizia basata sulla comparazione fra diverse situazioni ed esigenze» (p. 89). Questo approccio, che Sen chiama «concezione incentrata sulle realizzazioni concrete», si contrappone alla tradizione «incentrata sulla struttura», tipica del contrattualismo (da Hobbes a Locke, da Rousseau a Kant fino a Rawls). La prospettiva contrattualistica, infatti, «ricerca essenzialmente la definizione dell’assetto istituzionale che garantisca la realizzazione di una società perfettamente giusta, almeno in una prospettiva ideale» (ibidem). L’approccio di Sen è particolarmente vicino a Smith (di cui accoglie la teoria dello “spettatore imparziale”) e a Condorcet (iniziatore del calcolo della scelta sociale, disciplina che lo stesso Sen ha contribuito a sviluppare insieme a Kenneth Arrow) e, in parte, a Mill, mentre si distacca dall’utilitarismo, in particolare da quello di Bentham. Da Marx e Wollstonecraft Sen riprende soprattutto la critica dell’ingiustizia sociale. «Il libro di Sen - avverte Mordacci - ha dunque molti meriti nel chiarire i limiti di una prospettiva procedurale basata esclusivamente sul profilo istituzionale di una società giusta. Ma non riesce nel dimostrare il punto metodologico più profondo, ovvero la praticabilità, teorica prima che pratica, di una prospettiva in cui si sia rimosso ogni orizzonte trascendentale critico a favore di una comparazione variabile a seconda degli autori coinvolti. Probabilmente, in realtà, Sen presuppone un tale orizzonte critico come la base per qualsiasi programma teorico-filosofico sulla giustizia; ma, criticando l’idea stessa di trascendentale come sfondo della teoria politica, finisce, secondo il proverbio, per gettare il bambino con l’acqua sporca» (pp. 108-109). La seconda parte è costituita dai contributi di Enrico Berti, Gustavo Zagrebelsky, Gaspare Mura e Michele Nicoletti. Tutti gli interventi sono accomunati dalla necessità di proporre una nuova declinazione del concetto di laicità e del rapporto tra laici e cattolici. Berti, ad esempio, ricorda che nelle società moderne «la laicità si identifica con la democrazia, come ha più volte sostenuto Stefano Rodotà, cioè con l’osservanza delle regole che prevedono il governo della maggioranza, ma nel rispetto dei diritti della minoranza, che sono i diritti di tutti, stabiliti dalla Costituzione, e che non possono essere violati nemmeno dalla maggioranza» (ibidem). «Questa “cultura laica” - avverte Berti - dovrebbe essere comune a tutti, credenti e non credenti, cosiddetti “laici” o cosiddetti “cattolici” (...)» (p. 115). «Per “cultura religiosa” intendo - prosegue - una visione del mondo e della vita che, oltre a comprendere tutto ciò che fa parte della cultura laica, comprende anche la fede in una religione, ma come scelta che va oltre la ragione, non si sostituisce a questa, perché ha come oggetto asserzioni non dimostrabili razionalmente, quali ad esempio, nel caso del cristianesimo, la trinità di Dio e la divinità di Gesù» (p. 119). Essere credente non impedisce di essere laico, e quindi democratico. Pertanto, per Berti, sebbene non vi sia «opposizione di principio tra cultura laica e cultura religiosa» (p. 123), di fatto, però, esistono problemi che vengono risolti diversamente da credenti e non credenti, come «il dilemma tra indisponibilità o disponibilità della vita umana» (p. 124). Secondo Zagrebelsky, le ragioni del conflitto tra laici e cattolici si possono comprendere «alla luce di una riflessione su due binomi – buono e vero, vero e razionale – e sul rapporto che, nella dottrina ufficiale della Chiesa, è venuto instaurandosi tra i primi e i secondi termini di tali binomi» (pp. 131-132). Se la Scolastica ci insegna che «verum et bonum (e iustum) “convertuntur”», in realtà questi tre termini «non si equivalgono né dal punto di vista dello status concettuale, né da quello etico, né da quello delle implicazioni pratiche» (p. 133). «Attorno al buono e al giusto - precisa - si può lavorare e costruire insieme, cioè cooperare, ognuno portando qualcosa di sé, perché la ricerca del bene e del giusto possono unire; attorno al vero, invece, si può lavorare solo deduttivamente, “logicamente” e non “dia-logicamente”, richiedendosi separazioni, inclusioni ed esclusioni, approvazioni e condanne. La verità richiede di rinunciare al rapporto di se stessi con gli altri e separa» (p. 135). Il terreno d’incontro tra vero, buono e giusto, invece, può essere rintracciato in modo fecondo nell’esperienza sociale e politica, cui certamente anche i cattolici sono chiamati, pur essendo consapevoli della sua autonomia rispetto all’esperienza religiosa.
Si tratta piuttosto di costruire «un consenso compartecipato su nuclei centrali, che potremmo chiamare i fondamenti prepolitici della democrazia» (ivi, p. 8), così come suggeriva già Tocqueville nel terzo libro de La democrazia in America: «Perché vi sia una società e, a più forte ragione, perché questa società prosperi bisogna, dunque, che tutti gli spiriti dei cittadini siano sempre riuniti e tenuti insieme da alcune idee principali» (ibidem). L’Annuario s’interroga, dunque, su questi fondamenti e sui grandi temi del dibattito sulla democrazia di oggi e di domani: «l’idea di persona, le questioni eticamente sensibili, il compito del diritto, il nesso religione-politica» (ibidem). Il volume collettaneo esordisce con tre importanti interviste: la prima è a Robert Spaemann (a cura di Luca Grion e Umberto Lodovici); la seconda è a Michael Sandel e Allen Buchanan (a cura di Roberto Mordacci); e la terza è ad Àgnes Heller (a cura di Daria Dibitonto e Nicolò Seggiaro). L’intervista a Spaemann verte sul tema del ruolo della verità in politica e prende le mosse dal nodo cruciale del rapporto tra religione e vita civile nell’epoca della secolarizzazione. Secondo Spaemann, «fare come se Dio non fosse (etsi Deus non daretur)» (p. 15), non è davvero una buona soluzione. Non è pensabile ritornare alla Polis, intesa aristotelicamente come il luogo della realizzazione dell’esser-uomo, della eudaimonia. «In nome della ragione l’Illuminismo - dice Spaemann - voleva creare una base per il consenso civile al di là delle contrapposizioni religiose. Ora sono gli eredi dell’Illuminismo che cercano di distruggere questa base e sono invece i credenti che la difendono. Una base neutrale si è dimostrata un’illusione. Non possiamo sfuggire al Politico» (p. 17). E alla domanda su come conciliare verità e regole democratiche Spaemann risponde che «non c’è alcuna buona politica senza verità» (p. 22). L’intervista di Mordacci a Sandel - che insegna Political Philosophy and Theory of Government alla Harvard University - è centrata sul tema del potenziamento umano (human enhancement), considerato come «una delle principali frontiere del dibattito bioetico» (p. 24). Nel libro Contro la perfezione Sandel si oppone ad un uso consumistico dell’ingegneria genetica «per scopi di potenziamento non medico», ovvero per «rendere le persone più alte, più forti o più intelligenti (cosa che ancora non è possibile) o scegliere il sesso dei figli» (p. 24). In un altro importante volume, Justice, Sandel sviluppa una prospettiva filosofica basata sull’idea di bene comune, in cui le «concezioni permeate dalla religione» (informed by religion) hanno un ruolo nel discorso pubblico sulla giustizia, in quanto non è desiderabile separare il dibattito democratico dalle questioni sulla vita buona, sulla virtù e sul carattere (cfr. p. 25). Buchanan è tra i primi pensatori liberali ad applicare la base rawlsiana dei principi di giustizia alle questioni di genetica. Da questo punto di vista, espresso ed articolato nel volume From Chance to Choice. Genetics and Justice - scritto insieme a Dan W. Brock, Daniel Wikler e Norman Daniels - , il «potenziamento genetico non può essere un male intrinseco», se «le scelte libere degli individui fanno parte di uno schema di istituzioni eque» (p. 26). L’intervista alla Heller, dal titolo Democrazia: un ordinamento fragile, ma senza alternative, si snoda attorno al rapporto tra filosofia e politica. «La filosofia - afferma Heller - come fornitrice di un servizio non può pretendere di innalzarsi alla verità o all’infallibilità; il suo servizio però non solo è utile, ma anche indispensabile per la politica democratica» (p. 32). Per sopravvivere, la democrazia, secondo Heller, va rifondata ogni momento. Essa è «un ordinamento che si autoregola. Per dirla più semplicemente, non ha altro fondamento all’infuori del libero consenso delle persone e dell’incarnarsi di questo nella costituzione» (p. 34). Nonostante la fragilità della democrazia, la Heller pensa ad una possibile combinazione tra una democrazia basata sul sistema della rappresentanza ed una democrazia diretta, quest’ultima preferita da Hannah Arendt. Il processo della costruzione della democrazia, per Heller, è stato, è e sarà sempre un lavoro faticoso in cui c’è progresso e regresso. L’Annuario è articolato in tre sezioni. La prima è composta dai saggi di Vittorio Possenti (curatore del volume), Eugenio Mazzarella, Paolo Costa, Roberto Mordacci e Alex Grossini. Il contributo di Possenti, dal titolo Democrazia, questione antropologica e biopolitica, difende la tesi secondo cui occorre «riprendere a rinnovare la democrazia e l’ideale democratico per la via antropologica, consapevoli che la sola via etica non basta» (p. 40). «Per andare avanti la democrazia - scrive Possenti - ha bisogno di un primo motore: esso si trova nell’idea di persona, che stabilisce la ‛verità antropologica della democrazia’» (p. 39). A sostegno della sua tesi sulla rilevanza politica dell’idea di persona, Possenti cita non soltanto Boezio e Tommaso d’Aquino, ma anche M. de La Palisse, G. B. Vico, C. Schmitt, G. La Pira, F. Rodano e J. Maritain, prendendo nettamente le distanze dalle posizioni “neoliberali” di J. Rawls e di M. Nussbaum. In questo quadro teorico Possenti ritiene superate ed inadeguate sia la posizione «paleo-liberale e crociana di un’aurea età dei distinti», sia quella «pragmatistica di Rorty sull’inutilità della filosofia e dell’antropologia per la democrazia» (p. 45). Secondo Possenti, la biopolitica è una «scienza umana, non una tecnica o una scienza naturale» (p. 55), è una «scienza pratica» (p. 58), ed è per questo che «non può allontanare da sé il livello normativo» (p. 58), pena il diventare una vera e propria «biocrazia» (ibidem). La forma di democrazia da reinventare ed auspicabile per il domani - conclude - «è una democrazia capace di riscoprire la radice cristiana che unisce persona e bene comune, e la radice greca e romana del repubblicanesimo delle virtù civili che si uniscono nell’umanesimo civico della vita buona» (p. 61). Il saggio di Mazzarella, dal titolo Democrazia e valori, mette in chiaro l’esigenza di «una laicità franca e adulta, (...), disposta ad apprendere, senza falsa sufficienza, dal patrimonio di umanità delle esperienze religiose, ma insieme orgogliosa del suo ufficio politico e civile di presidio non negoziabile della libertà delle coscienze e dei diritti e della dignità della persona (p. 66). E che sappia anche suggerire al legislatore un “diritto mite”, non proibitivo né coercitivo, in grado di saper mediare, specie nelle questioni etiche più spinose o estreme, tra le ragioni della pietà e quelle della legge. Nel suo intervento, dal titolo Vulnerabilità e rilevanza della sfera pubblica nelle democrazie moderne, Costa individua nella “sfera pubblica” «il fulcro dell’esperienza politica democratica» (p. 76) e, citando la Arendt, «la precondizione dell’esistenza di un mondo comune» (ibidem). La sfera pubblica moderna è però uno spazio “metatopico” diverso dagli altri: è uno spazio “profano”, ma anche e soprattutto uno spazio “extrapolitico”, «un criterio di legittimità dell’azione statale» (p. 79). Questo suo carattere extrapolitico, tuttavia, la espone al rischio di trasformarsi in uno strumento di esclusione o addirittura in un’anticamera del “dispotismo dolce” (Tocqueville), lo specchio in cui si riflette il volto ingannevolmente affabile del Leviatano» (pp. 82-83). Procedendo oltre la retorica del trionfo e del tramonto della democrazia, Costa conclude che «la verità è che il futuro della democrazia è allo stesso tempo dipendente e indipendente da noi. Bisogna imparare a convivere con questo sano disincanto. In che stato è, dunque, la democrazia? A un bivio, come sempre» (pp. 86-87). Mordacci e Grossini chiudono la prima sezione con una riflessione critica su Giustizia e governo democratico in Amartya Sen. «L’idea di giustizia di Amartya Sen - scrive Mordacci - è il tentativo di delineare una teoria della giustizia basata sulla comparazione fra diverse situazioni ed esigenze» (p. 89). Questo approccio, che Sen chiama «concezione incentrata sulle realizzazioni concrete», si contrappone alla tradizione «incentrata sulla struttura», tipica del contrattualismo (da Hobbes a Locke, da Rousseau a Kant fino a Rawls). La prospettiva contrattualistica, infatti, «ricerca essenzialmente la definizione dell’assetto istituzionale che garantisca la realizzazione di una società perfettamente giusta, almeno in una prospettiva ideale» (ibidem). L’approccio di Sen è particolarmente vicino a Smith (di cui accoglie la teoria dello “spettatore imparziale”) e a Condorcet (iniziatore del calcolo della scelta sociale, disciplina che lo stesso Sen ha contribuito a sviluppare insieme a Kenneth Arrow) e, in parte, a Mill, mentre si distacca dall’utilitarismo, in particolare da quello di Bentham. Da Marx e Wollstonecraft Sen riprende soprattutto la critica dell’ingiustizia sociale. «Il libro di Sen - avverte Mordacci - ha dunque molti meriti nel chiarire i limiti di una prospettiva procedurale basata esclusivamente sul profilo istituzionale di una società giusta. Ma non riesce nel dimostrare il punto metodologico più profondo, ovvero la praticabilità, teorica prima che pratica, di una prospettiva in cui si sia rimosso ogni orizzonte trascendentale critico a favore di una comparazione variabile a seconda degli autori coinvolti. Probabilmente, in realtà, Sen presuppone un tale orizzonte critico come la base per qualsiasi programma teorico-filosofico sulla giustizia; ma, criticando l’idea stessa di trascendentale come sfondo della teoria politica, finisce, secondo il proverbio, per gettare il bambino con l’acqua sporca» (pp. 108-109). La seconda parte è costituita dai contributi di Enrico Berti, Gustavo Zagrebelsky, Gaspare Mura e Michele Nicoletti. Tutti gli interventi sono accomunati dalla necessità di proporre una nuova declinazione del concetto di laicità e del rapporto tra laici e cattolici. Berti, ad esempio, ricorda che nelle società moderne «la laicità si identifica con la democrazia, come ha più volte sostenuto Stefano Rodotà, cioè con l’osservanza delle regole che prevedono il governo della maggioranza, ma nel rispetto dei diritti della minoranza, che sono i diritti di tutti, stabiliti dalla Costituzione, e che non possono essere violati nemmeno dalla maggioranza» (ibidem). «Questa “cultura laica” - avverte Berti - dovrebbe essere comune a tutti, credenti e non credenti, cosiddetti “laici” o cosiddetti “cattolici” (...)» (p. 115). «Per “cultura religiosa” intendo - prosegue - una visione del mondo e della vita che, oltre a comprendere tutto ciò che fa parte della cultura laica, comprende anche la fede in una religione, ma come scelta che va oltre la ragione, non si sostituisce a questa, perché ha come oggetto asserzioni non dimostrabili razionalmente, quali ad esempio, nel caso del cristianesimo, la trinità di Dio e la divinità di Gesù» (p. 119). Essere credente non impedisce di essere laico, e quindi democratico. Pertanto, per Berti, sebbene non vi sia «opposizione di principio tra cultura laica e cultura religiosa» (p. 123), di fatto, però, esistono problemi che vengono risolti diversamente da credenti e non credenti, come «il dilemma tra indisponibilità o disponibilità della vita umana» (p. 124). Secondo Zagrebelsky, le ragioni del conflitto tra laici e cattolici si possono comprendere «alla luce di una riflessione su due binomi – buono e vero, vero e razionale – e sul rapporto che, nella dottrina ufficiale della Chiesa, è venuto instaurandosi tra i primi e i secondi termini di tali binomi» (pp. 131-132). Se la Scolastica ci insegna che «verum et bonum (e iustum) “convertuntur”», in realtà questi tre termini «non si equivalgono né dal punto di vista dello status concettuale, né da quello etico, né da quello delle implicazioni pratiche» (p. 133). «Attorno al buono e al giusto - precisa - si può lavorare e costruire insieme, cioè cooperare, ognuno portando qualcosa di sé, perché la ricerca del bene e del giusto possono unire; attorno al vero, invece, si può lavorare solo deduttivamente, “logicamente” e non “dia-logicamente”, richiedendosi separazioni, inclusioni ed esclusioni, approvazioni e condanne. La verità richiede di rinunciare al rapporto di se stessi con gli altri e separa» (p. 135). Il terreno d’incontro tra vero, buono e giusto, invece, può essere rintracciato in modo fecondo nell’esperienza sociale e politica, cui certamente anche i cattolici sono chiamati, pur essendo consapevoli della sua autonomia rispetto all’esperienza religiosa.
Laicità tra democrazia e religione è il tema anche del contributo di Mura. La Chiesa, proclamando lo stretto legame della carità con la verità, intende sostenere un laicato cristiano che sia «segno profetico nel mondo, capace di coniugare i valori evangelici nel tempo della storia, non per negarla ma per vivificarla» (pp. 163-164), al fine di costruire, come esorta Benedetto XVI, «un ordine mondiale realmente fondato sul diritto di ogni uomo» (p. 164). Per Mura, la laicità non è «creazione di “spazi svuotati dal religioso”, pena il trasformarsi in un laicismo intollerante, bensì offerta di “spazi in cui tutti, credenti e non credenti, possano dibattere”, (...), per educare al dialogo e non allo scontro o alla propaganda» (p. 164).
Al dibattito su «democrazia e verità» è dedicato il saggio di Nicoletti, secondo cui la dialettica tra democrazia e verità ha bisogno di una dialettica costruttiva tra istituzioni libere e autonome. Questa dialettica, inoltre, deve ispirarsi ad «un’etica della saggezza democratica che si nutra dei valori antichi e perenni della democrazia, quali il rispetto e il riconoscimento reciproco, il gusto per la comunicazione delle proprie ragioni e per l’ascolto delle ragioni altrui, l’impegno a non usare la forza per modificare le opinioni degli altri, né le regole comuni della vita collettiva. Senza questa saggezza la relazione tra la ricerca della verità e la ricerca di un governo democratico non potrebbe dispiegare quelle energie creative di cui il nostro tempo oggi ha bisogno» (p. 179). La terza ed ultima parte comprende i contributi di Francesco Viola, Pietro Barcellona e Vittorio Possenti. La tesi sostenuta da Viola, nel suo scritto, è che «il modo più adeguato per collegare il costituzionalismo attuale con la democrazia, (...), sia quello di una revisione teorica delle procedure deliberative proprie del regime democratico» (p. 183), che non riguardano soltanto i mezzi, ma anche i fini politici fondamentali.
Sul problema del nichilismo giuridico si soffermano, infine, Barcellona e Possenti. In un’epoca, come quella attuale, in cui «il mondo si è consegnato al destino della tecnica» (p. 217), Barcellona osserva che la stessa democrazia è diventata una tecnologia finalizzata all’acquisizione del consenso sociale in merito alle scelte economiche. Il nichilismo della modernità non è quindi né la conseguenza della ragione inaugurata dei Greci, come sosteneva Heidegger, né il “tradimento” del logos, come pensava Husserl: «Il nichilismo della modernità è la negazione di ogni valore, il trionfo della terribile vocazione mortifera dell’occidente e del capitalismo» (p. 218). Le biotecnologie hanno modificato alla radice il concetto di vita, prospettando «la possibilità di creare ex novo un progetto vivente» (p. 219). Ciò comporta profonde ricadute sul piano giuridico: «l’intreccio tra neuroscienze e nichilismo, tra riduzioni evolutive della realtà e negazione di ogni fondamento, ci consegnano alla dissoluzione del soggetto giuridico e delle categorie di responsabilità, di libertà, di colpa, di cui si è istituito il diritto come costruzione storico-sociale» (ibidem). Lo studio di Possenti, che chiude l’Annuario, offre un’elaborazione dei nuclei teorici che caratterizzano il quadro “enigmatico” del nichilismo giuridico. Per Possenti le posizioni di Rosmini e Nietzsche, specularmente opposte, identificano nell’’800 il momento di sviluppo del nichilismo europeo. Secondo lo studioso, i principali nuclei in cui si sostanzia il nichilismo giuridico sono: «A) negazione di ogni forma di diritto naturale, e dunque della persona e della sua natura universale quale diritto sussistente; B) riconduzione del diritto a mero prodotto del volere; C) negazione dell’apporto della ragione al diritto» (p. 243). Se il nichilismo giuridico, conclude Possenti, è «un affaire della tarda modernità e della postmodernità» (p. 249), dobbiamo uscirne non richiamandoci al «teorema della secolarizzazione e al disfattismo della ragione postmetafisica» (ibidem), che riducono la natura umana ad un mero costrutto culturale e sociale destinato ad inedite trasformazioni, come quella dal ‛postumano’ al ‛transumano’. Rivendicando l’idea di una natura umana “stabile”, quale «base migliore per i diritti umani, in specie per quelli fondamentali e ‛non negoziabili’» (ibidem), Possenti individua nell’attenzione sull’uomo e nel senso profondo del diritto e della giustizia - istanze che la dimensione religiosa contribuisce a difendere ed a promuovere - l’unico vero argine alle pretese del nichilismo giuridico.
Indice
EDITORIALE INTERVISTE IL RUOLO DELLA VERITÀ IN POLITICA
Intervista a Robert Spaemann
a cura di Luca Grion e di Umberto Lodovici
SUL POTENZIAMENTO E LA GENETICA IN UNA SOCIETÀ DEMOCRATICA Interviste a Michael Sandel e Allen Buchanan a cura di Roberto Mordacci
DEMOCRAZIA: UN ORDINAMENTO FRAGILE, MA SENZA ALTERNATIVE Intervista ad Àgnes Heller
a cura di Daria Dibitonto e Nicolò Seggiaro
I.
DEMOCRAZIA, QUESTIONE ANTROPOLOGICA E BIOPOLITICA Vittorio Possenti
DEMOCRAZIA E VALORI Eugenio Mazzarella
VULNERABILITÀ E RILEVANZA DELLA SFERA PUBBLICA NELLE DEMOCRAZIE MODERNE
Paolo Costa
GIUSTIZIA E GOVERNO DEMOCRATICO IN AMARTYA SEN Roberto Mordacci e Alex Grossini
II. CULTURA LAICA, CULTURA RELIGIOSA E LEALTÀ DEMOCRATICA
Enrico Berti
BUONO E VERO. VERO E RAZIONALE Gustavo Zagrebelsky
LAICITÀ, DEMOCRAZIA E RELIGIONE Gaspare Mura DEMOCRAZIA E VERITÀ Michele Nicoletti
III. COSTITUZIONE, DEMOCRAZIA, DIRITTO NATURALE
Francesco Viola
IL PROBLEMA DEL NICHILISMO GIURIDICO Pietro Barcellona PERSONALISMO E NICHILISMO GIURIDICO Vittorio Possenti
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