Bollati Boringhieri, Torino, 2012, pp. 159, euro15, ISBN 978-88-339-2247-8
Questo saggio di Giorgio Agamben, della serie Homo sacer, ha un duplice obiettivo. In primo luogo, rinnovare la ricerca archeologica de’ Il Regno e la Gloria, testo che indagava “il mistero liturgico soprattutto nella faccia che esso rivolge a Dio, cioè nel suo aspetto oggettivo e glorioso” (p. 7), per rivolgere il suo interrogativo verso i sacerdoti, “cioè i soggetti cui compete, per cosí dire, «il ministero del mistero»” (p. 7). In secondo luogo, proporre una riflessione attorno alla problematica della effettualità poiché, a suo dire, “tanto dell’essere quanto dell’agire
noi non abbiamo oggi altra rappresentazione che l’effettualità” (p. 9). Nel corso dell’opera, questi due obiettivi faranno slittare il centro dell’attenzione da Dio all’uomo e alle sue azioni, non solo nell’impegno sacerdotale. Dall’etimologia del termine leitourgia Agamben apre ad una lunga e dettagliata disamina attorno al significato politico dell’ufficio (termine latino per liturgia) che il cittadino abbiente deve compiere nella Grecia classica per dovere verso la propria città, per arrivare alla sua importanza teologica politica che da Kant in poi andrà a segnare il corso della filosofia e della vita dell’uomo moderno. Un corso storico del termine che secondo l’autore è ancora tutto da indagare per la sua portata epistemologica, politica e storica. Dalla sua origine greca, il termine leitourgia acquista con il passare del tempo, attraverso un uso via via più inerente alla sfera cultuale, un senso più teologico che politico. Vero è, come indica Agamben, che nel Nuovo Testamento il termine sia quasi inesistente, con l’eccezione vistosa degli scritti paolini e della Lettera agli ebrei. L’originario significato politico di “prestazione per la comunità” della Grecia classica con la religione cristiana viene travasato nell’azione del sacerdote: cioè di colui che svolge un servizio, salvifico, per tutta la comunità dei credenti in nome di Dio. Essendo Cristo il sacerdote per elezione, la sua è “un’azione liturgica per cosí dire assoluta e perfetta, che, per questo, può essere compiuta una sola volta” (p. 20). Agamben, in chiusura di paragrafo, mette in luce la paradossalità tutta interna alla liturgia cristiana: il sacerdote ripete nell’ufficio liturgico qualcosa che è irripetibile, il sacerdote celebra qualcosa di non celebrabile, il sacrificio del Cristo. Un altro passo verso la comprensione del termine: con la Lettera ai Corinzi, Clemente insinua il fatto che in una comunità carismatica in cui ciò che conta di più è la parola di Dio, così com’era per il cristianesimo alle sue origini, ci debba essere un uomo con il diritto di esercitare la liturgia. È con questa modalità che il cristianesimo si appropria di un senso giuridico che contraddistinguerà il suo corso storico, “da prestazione pubblica occasionale, che non ha un titolare specifico all’interno della comunità, la liturgia comincia a trasformarsi in un’attività speciale, in un «ministero» che tende a definire come suo titolare un soggetto particolare: il vescovo e i presbiteri nella lettera, e, più tardi, il sacerdote” (p. 25). I poli della liturgia cristiana saranno la Lettera agli ebrei, per quello che concerne il sacrificio irripetibile del Cristo, e la lettera di Clemente, per quello che riguarda la quotidianità del gesto liturgico di vescovi e presbiteri. È questo il “tentativo aporetico” continuamente riproposto dalla liturgia cristiana, ovvero, porre il mistero del sacrificio di Dio, una volte per tutte, come ministero di un uomo incaricato da Dio per servire la sua propria comunità, ogni giorno dell’anno per tutta la vita. Da questo punto del saggio il focus diventa l’efficacia dell’effettualità dell’atto liturgico. La figura del sacerdote diventa il cardine della biforcazione posta alle origini con la distinzione del mistero e del ministero della liturgia. Come afferma Agamben, si tratta di separare dall’effettualità dell’atto tanto l’autore che il processo di realizzazione. “Da una parte l’opus operatum, cioè gli effetti che da essi derivano e la funzione che essa svolge nell’economia divina; dall’altra, l’opus operans (o operantis), cioè le disposizioni e le modalità soggettive attraverso le quali l’agente pone in essere l’azione” (p. 37). Il sacerdote diventa oggetto del mistero, ne è il semplice strumento esecutivo (in questo modo cadono anche le responsabilità etiche e morali che la sua figura può mettere in gioco nell’esercizio della sua funzione), proprio nel momento in cui soggettivamente esegue la sua azione strumentale nel “ministero del mistero”. Il mistero della fede non dipende dal soggetto che compie la liturgia ma necessita dell’operatività di quel soggetto per compiersi; è nella ritualità soggettiva della liturgia che il mistero della Chiesa può diventare oggettivo. Introducendo lo studioso Odo Casel, Agamben apre ad un interrogativo importante che ruota attorno al concetto di mistero: quanto del concetto ellenico di mistero s’è riversato nella religione cristiana? Secondo Casel, e non solo, la liturgia prevale sulla fede nella religione cristiana. Nella prassi liturgica la comunità ottiene la sua salvezza. Questo è il punto di congiunzione tra i culti misterici greci, delle prassi salvifiche, e la liturgia cristiana, una prassi salvifica anch’essa. Per Agamben è cosí possibile passare dal culto all’effettualità della liturgia, al movimento dell’effetto.”L’effettualità dell’azione liturgica coincide qui con la performatività della parola di Cristo. Ed è singolare che ciò che la linguistica moderna definisce come il carattere strutturale dei verbi performativi diventi pienamente intellegibile sul piano dell’ontologia effettuale che è in questione nella liturgia sacramentale (e da questa probabilmente derivi). Che le parole agiscano, realizzando il loro significato, implica che l’essere che esse attuano è puramente effettuale” (p. 63). L’essere attuato dalle parole che lo agiscono pone la questione in campo ontologico. L’essere della liturgia cristiana è sempre qualcosa da mettere in opera, da effettuare e nulla di operato o di effettuato. L’azione, la realizzazione dell’essere, è la manifestazione apparente di qualcosa che è cambiato, mentre in realtà è lo strumento di un agente occulto (cfr. p. 79) che agisce in essa. È questa la schizo-liturgia proposta nel ragionamento di Agamben: “l’azione sacramentale è scissa in due: un’azione manifesta (opus operans o operantis) che sembra agire, ma che in realtà non fa che offrire lo strumento e la «vece» a un agente occulto, cui compete tutta l’efficacia dell’operazione. Ma è proprio grazie a questa separazione dell’azione (ridotta a causa strumentale) dalla sua efficacia che l’operazione sacramentale può raggiungere immancabilmente la sua effettualità ex opere operato” (p. 79). Nella Chiesa però il termine che designa la liturgia, nel senso moderno, è officium. Un termine che indica, secondo Cicerone, “ciò che è decoroso e conveniente fare secondo le circostanze, soprattutto tenendo conto della condizione sociale dell’agente” (p. 82), una sorta di galateo ante litteram. Quel che più conta non è se un’azione sia corretta o scorretta in sé, ma se lo sia in relazione all’armonia tra soggetto che agisce e circostanze dell’azione. Chi trasferirà l’officium dalla filosofia alla religione sarà Sant’Ambrogio. Nel suo pensiero convergono tre punti strategici: cristianizzare il concetto di officium; il quale tradurrà sia leitourgia che kathēkon; mettere in risalto l’effettualità che il concetto porta con sé, l’operatività propria del mistero cristiano (cfr. p. 93). Colui che compie un atto liturgico, abbiamo visto poco sopra le peculiarità del sacerdote, “è ciò che deve e deve ciò che è: è, cioè, un essere di comando. La trasformazione dell’essere in dover-essere, che definisce tanto l’etica quanto l’ontologia e la politica della modernità, ha qui il suo paradigma” (p. 100). È questo il punto focale del primo proposito di Agamben, ovvero, quello di indagare la figura del sacerdote nel suo essere “una pura segnatura, che manifesta soltanto l’eccedenza costitutiva dell’effettualità sull’essere” (p. 102). L’eccedenza dell’effettualità sull’essere porta in primo piano il dover-essere. “Qui si vede con chiarezza che l’idea di un «dover-essere» non è soltanto etica né soltanto ontologica: essa lega, piuttosto, aporeticamente essere e prassi nella struttura musicale di una fuga, in cui l’agire eccede l’essere non soltanto perché gli detta sempre nuovi precetti, ma anche e innanzitutto perché l’essere stesso non ha altro contenuto che un puro debito” (p. 124). Su questo punto nevralgico si apre un interessante ragionamento attorno al dovere come concetto etico che impone al soggetto una scelta libera di azione. Ed è qui che Agamben introduce il pensiero di Kant: “Il dovere etico è «potere ciò che si deve»” (p. 132). Per Kant è il poter fare ciò che si deve, che subordina un potere ad un dovere. “Il verbo «potere», che esprime la possibilità di un’azione, un poter fare, è subordinato in modo contraddittorio a un «dovere» e ha a oggetto non un fare, ma un «volere»: ed è questo vacuo, inintellegibile intreccio delle categorie modali che definisce il paradigma del comando della legge morale” (p. 133). Questo intreccio è secondo Agamben il nucleo della rivoluzione copernicana compiuta da Kant: “il pensiero di Kant rappresenta la riapparizione secolarizzata dell’estō in seno all’ontologia dell’estī, il riemergere catastrofico del diritto e della religione in seno alla filosofia. [...] egli, da una parte, ha accolto senza rendersene conto l’eredità della tradizione teologico-liturgica dell’officium e dell’operatività e, dall’altra, ha congedato durevolmente l’ontologia classica”. (p. 140). Ovviamente la rivoluzione di Kant ha influenzato tutta la filosofia a lui seguente. Per questo motivo Agamben chiude il suo saggio con l’auspicio che la filosofia e la politica sappiano pensare ad un futuro che le veda liberate dai concetti di dovere e di volontà. Per dare alla filosofia ciò che è della filosofia.
noi non abbiamo oggi altra rappresentazione che l’effettualità” (p. 9). Nel corso dell’opera, questi due obiettivi faranno slittare il centro dell’attenzione da Dio all’uomo e alle sue azioni, non solo nell’impegno sacerdotale. Dall’etimologia del termine leitourgia Agamben apre ad una lunga e dettagliata disamina attorno al significato politico dell’ufficio (termine latino per liturgia) che il cittadino abbiente deve compiere nella Grecia classica per dovere verso la propria città, per arrivare alla sua importanza teologica politica che da Kant in poi andrà a segnare il corso della filosofia e della vita dell’uomo moderno. Un corso storico del termine che secondo l’autore è ancora tutto da indagare per la sua portata epistemologica, politica e storica. Dalla sua origine greca, il termine leitourgia acquista con il passare del tempo, attraverso un uso via via più inerente alla sfera cultuale, un senso più teologico che politico. Vero è, come indica Agamben, che nel Nuovo Testamento il termine sia quasi inesistente, con l’eccezione vistosa degli scritti paolini e della Lettera agli ebrei. L’originario significato politico di “prestazione per la comunità” della Grecia classica con la religione cristiana viene travasato nell’azione del sacerdote: cioè di colui che svolge un servizio, salvifico, per tutta la comunità dei credenti in nome di Dio. Essendo Cristo il sacerdote per elezione, la sua è “un’azione liturgica per cosí dire assoluta e perfetta, che, per questo, può essere compiuta una sola volta” (p. 20). Agamben, in chiusura di paragrafo, mette in luce la paradossalità tutta interna alla liturgia cristiana: il sacerdote ripete nell’ufficio liturgico qualcosa che è irripetibile, il sacerdote celebra qualcosa di non celebrabile, il sacrificio del Cristo. Un altro passo verso la comprensione del termine: con la Lettera ai Corinzi, Clemente insinua il fatto che in una comunità carismatica in cui ciò che conta di più è la parola di Dio, così com’era per il cristianesimo alle sue origini, ci debba essere un uomo con il diritto di esercitare la liturgia. È con questa modalità che il cristianesimo si appropria di un senso giuridico che contraddistinguerà il suo corso storico, “da prestazione pubblica occasionale, che non ha un titolare specifico all’interno della comunità, la liturgia comincia a trasformarsi in un’attività speciale, in un «ministero» che tende a definire come suo titolare un soggetto particolare: il vescovo e i presbiteri nella lettera, e, più tardi, il sacerdote” (p. 25). I poli della liturgia cristiana saranno la Lettera agli ebrei, per quello che concerne il sacrificio irripetibile del Cristo, e la lettera di Clemente, per quello che riguarda la quotidianità del gesto liturgico di vescovi e presbiteri. È questo il “tentativo aporetico” continuamente riproposto dalla liturgia cristiana, ovvero, porre il mistero del sacrificio di Dio, una volte per tutte, come ministero di un uomo incaricato da Dio per servire la sua propria comunità, ogni giorno dell’anno per tutta la vita. Da questo punto del saggio il focus diventa l’efficacia dell’effettualità dell’atto liturgico. La figura del sacerdote diventa il cardine della biforcazione posta alle origini con la distinzione del mistero e del ministero della liturgia. Come afferma Agamben, si tratta di separare dall’effettualità dell’atto tanto l’autore che il processo di realizzazione. “Da una parte l’opus operatum, cioè gli effetti che da essi derivano e la funzione che essa svolge nell’economia divina; dall’altra, l’opus operans (o operantis), cioè le disposizioni e le modalità soggettive attraverso le quali l’agente pone in essere l’azione” (p. 37). Il sacerdote diventa oggetto del mistero, ne è il semplice strumento esecutivo (in questo modo cadono anche le responsabilità etiche e morali che la sua figura può mettere in gioco nell’esercizio della sua funzione), proprio nel momento in cui soggettivamente esegue la sua azione strumentale nel “ministero del mistero”. Il mistero della fede non dipende dal soggetto che compie la liturgia ma necessita dell’operatività di quel soggetto per compiersi; è nella ritualità soggettiva della liturgia che il mistero della Chiesa può diventare oggettivo. Introducendo lo studioso Odo Casel, Agamben apre ad un interrogativo importante che ruota attorno al concetto di mistero: quanto del concetto ellenico di mistero s’è riversato nella religione cristiana? Secondo Casel, e non solo, la liturgia prevale sulla fede nella religione cristiana. Nella prassi liturgica la comunità ottiene la sua salvezza. Questo è il punto di congiunzione tra i culti misterici greci, delle prassi salvifiche, e la liturgia cristiana, una prassi salvifica anch’essa. Per Agamben è cosí possibile passare dal culto all’effettualità della liturgia, al movimento dell’effetto.”L’effettualità dell’azione liturgica coincide qui con la performatività della parola di Cristo. Ed è singolare che ciò che la linguistica moderna definisce come il carattere strutturale dei verbi performativi diventi pienamente intellegibile sul piano dell’ontologia effettuale che è in questione nella liturgia sacramentale (e da questa probabilmente derivi). Che le parole agiscano, realizzando il loro significato, implica che l’essere che esse attuano è puramente effettuale” (p. 63). L’essere attuato dalle parole che lo agiscono pone la questione in campo ontologico. L’essere della liturgia cristiana è sempre qualcosa da mettere in opera, da effettuare e nulla di operato o di effettuato. L’azione, la realizzazione dell’essere, è la manifestazione apparente di qualcosa che è cambiato, mentre in realtà è lo strumento di un agente occulto (cfr. p. 79) che agisce in essa. È questa la schizo-liturgia proposta nel ragionamento di Agamben: “l’azione sacramentale è scissa in due: un’azione manifesta (opus operans o operantis) che sembra agire, ma che in realtà non fa che offrire lo strumento e la «vece» a un agente occulto, cui compete tutta l’efficacia dell’operazione. Ma è proprio grazie a questa separazione dell’azione (ridotta a causa strumentale) dalla sua efficacia che l’operazione sacramentale può raggiungere immancabilmente la sua effettualità ex opere operato” (p. 79). Nella Chiesa però il termine che designa la liturgia, nel senso moderno, è officium. Un termine che indica, secondo Cicerone, “ciò che è decoroso e conveniente fare secondo le circostanze, soprattutto tenendo conto della condizione sociale dell’agente” (p. 82), una sorta di galateo ante litteram. Quel che più conta non è se un’azione sia corretta o scorretta in sé, ma se lo sia in relazione all’armonia tra soggetto che agisce e circostanze dell’azione. Chi trasferirà l’officium dalla filosofia alla religione sarà Sant’Ambrogio. Nel suo pensiero convergono tre punti strategici: cristianizzare il concetto di officium; il quale tradurrà sia leitourgia che kathēkon; mettere in risalto l’effettualità che il concetto porta con sé, l’operatività propria del mistero cristiano (cfr. p. 93). Colui che compie un atto liturgico, abbiamo visto poco sopra le peculiarità del sacerdote, “è ciò che deve e deve ciò che è: è, cioè, un essere di comando. La trasformazione dell’essere in dover-essere, che definisce tanto l’etica quanto l’ontologia e la politica della modernità, ha qui il suo paradigma” (p. 100). È questo il punto focale del primo proposito di Agamben, ovvero, quello di indagare la figura del sacerdote nel suo essere “una pura segnatura, che manifesta soltanto l’eccedenza costitutiva dell’effettualità sull’essere” (p. 102). L’eccedenza dell’effettualità sull’essere porta in primo piano il dover-essere. “Qui si vede con chiarezza che l’idea di un «dover-essere» non è soltanto etica né soltanto ontologica: essa lega, piuttosto, aporeticamente essere e prassi nella struttura musicale di una fuga, in cui l’agire eccede l’essere non soltanto perché gli detta sempre nuovi precetti, ma anche e innanzitutto perché l’essere stesso non ha altro contenuto che un puro debito” (p. 124). Su questo punto nevralgico si apre un interessante ragionamento attorno al dovere come concetto etico che impone al soggetto una scelta libera di azione. Ed è qui che Agamben introduce il pensiero di Kant: “Il dovere etico è «potere ciò che si deve»” (p. 132). Per Kant è il poter fare ciò che si deve, che subordina un potere ad un dovere. “Il verbo «potere», che esprime la possibilità di un’azione, un poter fare, è subordinato in modo contraddittorio a un «dovere» e ha a oggetto non un fare, ma un «volere»: ed è questo vacuo, inintellegibile intreccio delle categorie modali che definisce il paradigma del comando della legge morale” (p. 133). Questo intreccio è secondo Agamben il nucleo della rivoluzione copernicana compiuta da Kant: “il pensiero di Kant rappresenta la riapparizione secolarizzata dell’estō in seno all’ontologia dell’estī, il riemergere catastrofico del diritto e della religione in seno alla filosofia. [...] egli, da una parte, ha accolto senza rendersene conto l’eredità della tradizione teologico-liturgica dell’officium e dell’operatività e, dall’altra, ha congedato durevolmente l’ontologia classica”. (p. 140). Ovviamente la rivoluzione di Kant ha influenzato tutta la filosofia a lui seguente. Per questo motivo Agamben chiude il suo saggio con l’auspicio che la filosofia e la politica sappiano pensare ad un futuro che le veda liberate dai concetti di dovere e di volontà. Per dare alla filosofia ciò che è della filosofia.
Indice
Prefazione 7
Opus Dei 13
1. Liturgia e politica 40
Soglia 42
2. Dal mistero all’effetto 78
Soglia 80
3. Genealogia dell’ufficio 102
Soglia 104
4. Le due ontologie, ovvero come il dovere è entrato nell’etica 144
Soglia 149
Bibliografia 157
Indice dei nomi
1 commento:
Entro prospettiva intellettuale di umana sacralità non c'è critica che possa restare relativa e non esiste alcun assoluto che includa imperativo tantomeno morale; d'altronde nessun riferimento ad unico Mistero vi è incluso direttamente! Parimenti nessuna necessità religiosa monoteista realmente appartiene a senso del sacro per sola umanità. Da quanto riportato da recensore si deduce che Giorgio Agamben in sua analisi storica di liturgia cattolica e riflessione di antropologia religiosa cristiana non considera arbitrarietà di necessità antropologiche né distingue originarietà teista da non originalità monoteista, questa dei Misteri Supremi greco-elleni ma quella di generico indeterminabile misticismo politeista che fa da base psicologica culturale per vasto cattolicesimo cristiano ma pure da fondamento di cattolicismo panteista-politeista assai diffuso ed anche in confusioni spesso deliberate.
La Critica filosofica kantiana e stessa Critica di filosofia di Kant non recano scopo assolutista anzi ne hanno di antiassolutista ma neppure negano Assoluto e suoi riferimenti, in ciò senza unirvi affermazioni particolari; questo evidentemente non è accettabile per chi associa stabilmente Assoluto e Libertà rifiutandone od escludendone identificazioni separate; e tale associazione non psicologica culturale di idee su religione ed umanità vige quale inderogabilità nei vissuti, questi psicologici, terrifici del numinoso, nei quali concetto di assolutezza necessitante resta impensabilità sia per inutilità sia per impossibilità. Per tali destini particolari la Critica filosofica contemporanea esisterebbe solo se priva di vincoli ma tale Critica applicandosi anche a stesse particolarità intellettuali che confinano la considerazione dei limiti delle possibilità delle conoscenze non relative in queste genera bisogno o trova necessità di chiusure intellettuali od antagonismi mentali. Nel caso dell'antikantismo fatto valere da G. Agamben la sistematica esaustiva logica raziocinante che ne motiva esito impedisce totale chiusura che non si può aggiungere lasciando così discorso intellegibile per Critica stessa rifiutata.
Secondo tale Critica è assolutizzazione indebita cioè costruzione occultante la indistinzione tra umanesimo cristiano e dottrina cristiana, tra Eternità nel tempo e modalità dei tempi umani di esserne in rapporto; ed è proprio tale indistinzione che Agamben stesso assumendo a premessa per accertare le ragioni della crisi del cattolicesimo contemporaneo evita di definirne distintamente cristianità, tanto da interpretarne pragmaticità quale prassi e unendo manifesta antropologia del sacro con non evidente psicologia del numinoso ma questa riducendola a psicologismo e affiancando ad umanesimo cristiano umanismo ateo. Questo fiancheggiamento fu promosso da marxismo-comunismo antireligioso ed antioccidentale, che agiva portando ad evidenze sociali le inconcludenze culturali religiose secondarie interne ai sistemi religiosi che totalitarismo comunista stesso intendeva impedire e distruggere, sociologicamente prima, culturalmente ed economicamente poi. Giorgio Agamben descrivendo esteticamente umana sacralità ne offre estetica identificandone limite e dunque ipostatizzandone eventualità drammatica in fatalità tragica, in analogia però designificante di vicende tragiche di esempi non monoteisti (nel monoteismo e non del monoteismo né di sua verità) con realtà religiosa in crisi di cui gli è nota effettualità non consistenza. Ma senza saper tal consistenza, di crisi di cattolicesimo attuale, nessuna estetica filosofica né verità estetica filosofica si danno, mentre studi non rigorosi e scientismi ne danno idea opposta e falsa perché ne considerano estraneità transitorie assieme ad elementarità stabili propriamente significanti. Tale indebita unione rientra solo implicitamente in descrizione di Agamben, che così fa "crisi della crisi" a vantaggio sol di chi il resto intende.
MAURO PASTORE
Posta un commento