La raccolta di saggi curata da Domenico Felice per la casa editrice Mimesis, si propone di restituire al lettore lo spirito (inteso montesquieuianamente come rapporto, legante) della politica di Montesquieu, attraverso la firma di sette illustri nomi del Novecento: Federico Chabod, Raymond Aron, Isaiah Berlin, Norberto Bobbio, Sergio Cotta, Jean Starobinski fino ad Hannah Arendt. Lo scopo, e la novità editoriale, è quella di presentare “per la prima volta tutti insieme, i più significativi scritti” dedicati a Montesquieu “negli ultimi decenni” (p. 9).
L’apertura della silloge è affidata al Nuovo Aristotele di Isaiah Berlin. Partendo dal celebre giudizio di Bentham sull’infausto destino storico destinato a Montesquieu, (“Locke – arido, freddo, grigio, tedioso vivrà in eterno. Montesquieu – agile, brillante, glorioso, affascinante, non sopravvivrà al suo secolo”) (p. 11), l’autore cerca di dimostrare l’estrema attualità e potenza del messaggio di quest’ultimo, capace di vivere ben oltre i suoi più fortunati “successori ottocenteschi” (p. 13). In un’epoca segnata da un lato dalla scoperta e sistematizzazione del regno naturale e dall’altra dall’estrema incertezza del regno delle istituzioni umane, “un regno tuttora non cartografato, né cartografabile in alcuna sua parte” (p. 15), il filosofo bordolese ebbe il merito di studiare la società nel modo “in cui gli anatomisti studiano gli organismi umani” (p. 16). Da qui la matrice aristotelica dell’intera impostazione filosofica del barone: considerare le società umane non come “agglomerati di atomi umani isolabili o strutture artificiali”, bensì come “organismi biologici”, ognuno dotato di proprie leggi e di una struttura interna, un principio, per il quale funziona, si muove in un determinato modo e tende a un proprio fine (p. 21). Dovere del legislatore sarà allora quello di scoprire, non senza l’aiuto dell’osservazione (motivo nuovamente aristotelico), la natura specifica della società per “salvaguardare, mantenere, migliorar[n]e la salute” (p. 23). Il secondo saggio, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, a firma di Raymond Aron, è il tentativo di risposta ad una domanda tanto semplice quanto per certi aspetti insidiosa: È possibile considerare Lo spirito delle leggi un’opera sociologica? L’assunto di partenza dell’autore è che in questo lavoro Montesquieu esprime manifestamente un’“intenzione sociologica”. La domanda alla base della ricerca del filosofo sarebbe in definitiva di natura sociologica: passare – esattamente come farà più tardi Max Weber – “dal dato incoerente a un ordine intellegibile” (p. 44). Per fare questo il Bordolese partirebbe da due principi: 1) pensare che fuori dalla caoticità e varietà degli eventi esistono cause specifiche di spiegazione dell’irrazionale (“Non è la fortuna che domina il mondo. […] Esistono cause generali, sia morali sia fisiche, che agiscono in tutte le monarchie, le innalzano, le conservano o le fanno rovinare. Tutti gli incidenti dipendono da queste cause […]”) (p. 44); 2) considerare l’intera sfera dell’accidentale e del diverso riconducibile a un numero specifico di tipi: “Ho stabilito i principi e ho visto i casi particolari conformarvisi come spontaneamente” (p. 45). In questo modo Montesquieu riuscirebbe a spiegare la diversità degli usi e costumi risalendo sia alle “cause responsabili delle leggi particolari”, sia ai “tipi che costituiscono un livello intermedio tra la diversità incoerente e uno schema universalmente valido” (p. 46). Ma allora perché il barone di Bordeaux non è considerato un sociologo ma solo un precursore della sociologia? Aron individua due motivi: il primo è che il termine sociologia non esisteva a quei tempi; il secondo è che egli non fa della società moderna il suo oggetto di riflessione. Ciò nonostante, giacché “ha reinterpretato il pensiero politico classico in una concezione globale della società e ha cercato di spiegare sociologicamente tutti gli aspetti della collettività”, Montesquieu può essere considerato “in un certo senso” come il “primo dei sociologi” (p. 91). Il terzo e quarto saggio, rispettivamente di Federico Chabod e Norberto Bobbio, sono per alcuni aspetti analoghi. Entrambi indagano i motivi europeistici inerenti al pensiero montesquieuiano. In La nascita dell’idea d’Europa, Chabod ripercorre le tappe del faticoso cammino che, dalla Grecia classica fino all'Ottocento, portarono alla nascita e al perfezionamento del concetto di Europa, quest’ultima intesa non solo come coscienza d’appartenenza a un territorio fisico o politico, ma soprattutto come identità culturale. Si tratta di un’identità nata sulla base di una contrapposizione, quella legata al dispotismo asiatico. Il cursus politico europeo sembra basato sul fatto di “non conoscere il despotisme asiatique all’interno, e di poter esser ripartito in molti Stati, senza grandi imperi come quelli asiatici” (p. 93). Ai vasti imperi dispotici asiatici si contrappone dunque una realtà, quella europea, basata sul repubblicanesimo e sulla libertà. Questa idea europea si trova esemplificata perfettamente tanto nel Machiavelli (“il mondo è stato più virtuoso dove sono stati più Stati che abbiano favorita la virtù o per necessità o per altra umana passione”. Dunque molto più virtuosa l’Europa “piena di repubbliche e di principati” rispetto all’Asia in cui sorsero “pochi uomini, perché quella provincia era tutto sotto un regno”) (p. 96), quanto, e ancor di più, nelle Lettres persanes di Montesquieu. Qui, oltre alla contrapposizione machiavelliana tra un’Europa terra di molte repubbliche libere e un’Asia luogo di pochi imperi dispotici, si ritrovano altre importanti contrapposizioni che vanno a formare i caratteri costitutivi dell’intera idea-ideologia europea: “attività incessante contro nonchalance, pigrizia, mollezza; progresso portentoso delle scienze, della tecnica, contro tradizionalismo, immobilità; vita di società europea, brio e gaiezza contro isolamento, gravità, melanconia degli Asiatici” (p. 116). Quanto questa ideologia basata su un modello di superiorità culturale sia ancora legittimo è oggetto di riflessione dell’articolo di Bobbio intitolato Grandezza e decadenza dell’ideologia europea (palese citazione del celebre saggio montesquieuiano Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza del 1734). È ancora possibile considerare l’Europa come compimento della storia, di una storia intesa hegelianamente come progressivo perfezionamento e raggiungimento della libertà? L’Europa è davvero “il principio e fine dello sviluppo civile”? (p. 124). Secondo Bobbio due avvenimenti storici hanno portato a rivedere definitivamente l’idea di progresso europeo: da un lato il nazismo che ha distrutto l’idea della superiorità democratica europea (“dopo Hitler con quale animo potevamo ancora evocare la «città periclea»”) (p. 129), e dall’altra il processo di decolonizzazione cha ha contraddetto palesemente l’immagine di un’Europa civile che civilizza: “e le popolazioni dei continenti extra-europei che si stavano liberando dal giogo delle potenze coloniali non erano, ormai davanti a noi, non per rendere grazie dei decantati benefici della civiltà, ma per chiedere conto delle rovine, delle spoliazioni, dello sfruttamento, e in molti casi, anche del sangue versato? Quali erano i popoli civili, quali i barbari” (p. 129). Conclusione dell’autore è che lo spirito originario europeo rivive ormai in altri luoghi, come, ad esempio, l’America dei nipoti di Washington. Nel saggio, Per una concezione dialettica del bene comune e della libertà, Sergio Cotta cerca di far emergere le linee principali del sistema montesquieuiano, “tappa di grande rilievo nel corso del pensiero politico moderno” (p. 151). A differenza del pensiero politico sei-settecentesco, come quello di Locke, Montesquieu non vedrebbe nel pluralismo partitico un fenomeno positivo. Egli non sembra condividere, come Locke, la gerarchia dei poteri avente come fondamento l’assemblea legislativa. Ogni istituzione, data la propria specificità e diversità, ha, al contrario, piena parità. Da qui la nascita di un contrasto intrinseco “radicato nelle reali diversità di competenze” (p. 151) e la possibilità di rileggere Montesquieu in senso dialettico. Si tratta per Cotta di una dialettica del potere “che ha per posta in gioco la libertà e non il predominio e quindi, finalisticamente, l'armonizzazione dell'azione: la pace e non la guerra” (p. 151). Questo conflitto, questa dialettica, si attuerebbe su due livelli – un livello politico-giuridico (all'interno del meccanismo costituzionale fra i vari poteri) e un livello sociale (all’interno delle relazioni della società) – che interagirebbero fra loro, dando luogo al complesso rapporto dei cittadini con le leggi e le istituzioni della Nazione. Alla base di questa interpretazione vi è per Cotta una concezione montesquieuiana del bene comune intesa come una realtà creata dagli uomini attraverso un duro lavoro che supera i contrasti, ma non li esclude, anzi li presuppone. Il Bordolese letto in definitiva come eminente teorico del pluralismo e del liberalismo democratico. Con Uniformità e diversità di Jean Starobinski, l’oggetto di riflessione si sposta sul rapporto tra diritto naturale e diritto positivo. Secondo l’autore l’intero capolavoro montesquieuiano può essere visto come un tentativo di soluzione al conflitto tra l’uniformità del diritto naturale e la diversità del diritto positivo, un conflitto destinato a ripresentarsi nell’idea di libertà pensata dal filosofo. Questa, infatti, muovendosi in un mondo governato da leggi variabili e fuori dal dominio umano, sembrerebbe necessitare di principi fissi e immutabili a cui fare riferimento. I due ordini di rapporto – leggi naturali e leggi positive – finalmente riuniti dopo due secoli e mezzo da un legame di complementarietà. Conclude il volume una serie di analisi di Hannah Arendt scritte tra il 1953 e il 1963 e unite sotto il titolo Per una filosofia del limite. Al centro della novità filosofica di Montesquieu, vi è, per la Arendt, una differente visione della vita politica. La grande scoperta montesquieuiana è stata quella di pensare che le particolari strutture istituzionali “necessitano, ognuna, di un diverso «principio» che le metta in moto” (p. 193). Ogni forma di governo ha, in altre parole, bisogno di un elemento propulsivo, identificabile con le passioni peculiari della vita politica di ciascun governo (la virtù politica per la repubblica, l’onore per la monarchia e la paura per il governo dispotico). Le categorie tradizionali d’interpretazione su cui si basavano le precedenti teorie delle forme di governo, vale a dire potere e legge, vengono dunque sostituite definitivamente da Montesquieu dalle passioni che muovono la vita politica. In questo modo il filosofo introdurrebbe “la storia e il processo storico in strutture che – nate dal pensiero greco – erano state originariamente pensate come immobili e immutabili” (p. 193). In appendice l’ottima scheda cronologica curata da Piero Venturelli.
L’apertura della silloge è affidata al Nuovo Aristotele di Isaiah Berlin. Partendo dal celebre giudizio di Bentham sull’infausto destino storico destinato a Montesquieu, (“Locke – arido, freddo, grigio, tedioso vivrà in eterno. Montesquieu – agile, brillante, glorioso, affascinante, non sopravvivrà al suo secolo”) (p. 11), l’autore cerca di dimostrare l’estrema attualità e potenza del messaggio di quest’ultimo, capace di vivere ben oltre i suoi più fortunati “successori ottocenteschi” (p. 13). In un’epoca segnata da un lato dalla scoperta e sistematizzazione del regno naturale e dall’altra dall’estrema incertezza del regno delle istituzioni umane, “un regno tuttora non cartografato, né cartografabile in alcuna sua parte” (p. 15), il filosofo bordolese ebbe il merito di studiare la società nel modo “in cui gli anatomisti studiano gli organismi umani” (p. 16). Da qui la matrice aristotelica dell’intera impostazione filosofica del barone: considerare le società umane non come “agglomerati di atomi umani isolabili o strutture artificiali”, bensì come “organismi biologici”, ognuno dotato di proprie leggi e di una struttura interna, un principio, per il quale funziona, si muove in un determinato modo e tende a un proprio fine (p. 21). Dovere del legislatore sarà allora quello di scoprire, non senza l’aiuto dell’osservazione (motivo nuovamente aristotelico), la natura specifica della società per “salvaguardare, mantenere, migliorar[n]e la salute” (p. 23). Il secondo saggio, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, a firma di Raymond Aron, è il tentativo di risposta ad una domanda tanto semplice quanto per certi aspetti insidiosa: È possibile considerare Lo spirito delle leggi un’opera sociologica? L’assunto di partenza dell’autore è che in questo lavoro Montesquieu esprime manifestamente un’“intenzione sociologica”. La domanda alla base della ricerca del filosofo sarebbe in definitiva di natura sociologica: passare – esattamente come farà più tardi Max Weber – “dal dato incoerente a un ordine intellegibile” (p. 44). Per fare questo il Bordolese partirebbe da due principi: 1) pensare che fuori dalla caoticità e varietà degli eventi esistono cause specifiche di spiegazione dell’irrazionale (“Non è la fortuna che domina il mondo. […] Esistono cause generali, sia morali sia fisiche, che agiscono in tutte le monarchie, le innalzano, le conservano o le fanno rovinare. Tutti gli incidenti dipendono da queste cause […]”) (p. 44); 2) considerare l’intera sfera dell’accidentale e del diverso riconducibile a un numero specifico di tipi: “Ho stabilito i principi e ho visto i casi particolari conformarvisi come spontaneamente” (p. 45). In questo modo Montesquieu riuscirebbe a spiegare la diversità degli usi e costumi risalendo sia alle “cause responsabili delle leggi particolari”, sia ai “tipi che costituiscono un livello intermedio tra la diversità incoerente e uno schema universalmente valido” (p. 46). Ma allora perché il barone di Bordeaux non è considerato un sociologo ma solo un precursore della sociologia? Aron individua due motivi: il primo è che il termine sociologia non esisteva a quei tempi; il secondo è che egli non fa della società moderna il suo oggetto di riflessione. Ciò nonostante, giacché “ha reinterpretato il pensiero politico classico in una concezione globale della società e ha cercato di spiegare sociologicamente tutti gli aspetti della collettività”, Montesquieu può essere considerato “in un certo senso” come il “primo dei sociologi” (p. 91). Il terzo e quarto saggio, rispettivamente di Federico Chabod e Norberto Bobbio, sono per alcuni aspetti analoghi. Entrambi indagano i motivi europeistici inerenti al pensiero montesquieuiano. In La nascita dell’idea d’Europa, Chabod ripercorre le tappe del faticoso cammino che, dalla Grecia classica fino all'Ottocento, portarono alla nascita e al perfezionamento del concetto di Europa, quest’ultima intesa non solo come coscienza d’appartenenza a un territorio fisico o politico, ma soprattutto come identità culturale. Si tratta di un’identità nata sulla base di una contrapposizione, quella legata al dispotismo asiatico. Il cursus politico europeo sembra basato sul fatto di “non conoscere il despotisme asiatique all’interno, e di poter esser ripartito in molti Stati, senza grandi imperi come quelli asiatici” (p. 93). Ai vasti imperi dispotici asiatici si contrappone dunque una realtà, quella europea, basata sul repubblicanesimo e sulla libertà. Questa idea europea si trova esemplificata perfettamente tanto nel Machiavelli (“il mondo è stato più virtuoso dove sono stati più Stati che abbiano favorita la virtù o per necessità o per altra umana passione”. Dunque molto più virtuosa l’Europa “piena di repubbliche e di principati” rispetto all’Asia in cui sorsero “pochi uomini, perché quella provincia era tutto sotto un regno”) (p. 96), quanto, e ancor di più, nelle Lettres persanes di Montesquieu. Qui, oltre alla contrapposizione machiavelliana tra un’Europa terra di molte repubbliche libere e un’Asia luogo di pochi imperi dispotici, si ritrovano altre importanti contrapposizioni che vanno a formare i caratteri costitutivi dell’intera idea-ideologia europea: “attività incessante contro nonchalance, pigrizia, mollezza; progresso portentoso delle scienze, della tecnica, contro tradizionalismo, immobilità; vita di società europea, brio e gaiezza contro isolamento, gravità, melanconia degli Asiatici” (p. 116). Quanto questa ideologia basata su un modello di superiorità culturale sia ancora legittimo è oggetto di riflessione dell’articolo di Bobbio intitolato Grandezza e decadenza dell’ideologia europea (palese citazione del celebre saggio montesquieuiano Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza del 1734). È ancora possibile considerare l’Europa come compimento della storia, di una storia intesa hegelianamente come progressivo perfezionamento e raggiungimento della libertà? L’Europa è davvero “il principio e fine dello sviluppo civile”? (p. 124). Secondo Bobbio due avvenimenti storici hanno portato a rivedere definitivamente l’idea di progresso europeo: da un lato il nazismo che ha distrutto l’idea della superiorità democratica europea (“dopo Hitler con quale animo potevamo ancora evocare la «città periclea»”) (p. 129), e dall’altra il processo di decolonizzazione cha ha contraddetto palesemente l’immagine di un’Europa civile che civilizza: “e le popolazioni dei continenti extra-europei che si stavano liberando dal giogo delle potenze coloniali non erano, ormai davanti a noi, non per rendere grazie dei decantati benefici della civiltà, ma per chiedere conto delle rovine, delle spoliazioni, dello sfruttamento, e in molti casi, anche del sangue versato? Quali erano i popoli civili, quali i barbari” (p. 129). Conclusione dell’autore è che lo spirito originario europeo rivive ormai in altri luoghi, come, ad esempio, l’America dei nipoti di Washington. Nel saggio, Per una concezione dialettica del bene comune e della libertà, Sergio Cotta cerca di far emergere le linee principali del sistema montesquieuiano, “tappa di grande rilievo nel corso del pensiero politico moderno” (p. 151). A differenza del pensiero politico sei-settecentesco, come quello di Locke, Montesquieu non vedrebbe nel pluralismo partitico un fenomeno positivo. Egli non sembra condividere, come Locke, la gerarchia dei poteri avente come fondamento l’assemblea legislativa. Ogni istituzione, data la propria specificità e diversità, ha, al contrario, piena parità. Da qui la nascita di un contrasto intrinseco “radicato nelle reali diversità di competenze” (p. 151) e la possibilità di rileggere Montesquieu in senso dialettico. Si tratta per Cotta di una dialettica del potere “che ha per posta in gioco la libertà e non il predominio e quindi, finalisticamente, l'armonizzazione dell'azione: la pace e non la guerra” (p. 151). Questo conflitto, questa dialettica, si attuerebbe su due livelli – un livello politico-giuridico (all'interno del meccanismo costituzionale fra i vari poteri) e un livello sociale (all’interno delle relazioni della società) – che interagirebbero fra loro, dando luogo al complesso rapporto dei cittadini con le leggi e le istituzioni della Nazione. Alla base di questa interpretazione vi è per Cotta una concezione montesquieuiana del bene comune intesa come una realtà creata dagli uomini attraverso un duro lavoro che supera i contrasti, ma non li esclude, anzi li presuppone. Il Bordolese letto in definitiva come eminente teorico del pluralismo e del liberalismo democratico. Con Uniformità e diversità di Jean Starobinski, l’oggetto di riflessione si sposta sul rapporto tra diritto naturale e diritto positivo. Secondo l’autore l’intero capolavoro montesquieuiano può essere visto come un tentativo di soluzione al conflitto tra l’uniformità del diritto naturale e la diversità del diritto positivo, un conflitto destinato a ripresentarsi nell’idea di libertà pensata dal filosofo. Questa, infatti, muovendosi in un mondo governato da leggi variabili e fuori dal dominio umano, sembrerebbe necessitare di principi fissi e immutabili a cui fare riferimento. I due ordini di rapporto – leggi naturali e leggi positive – finalmente riuniti dopo due secoli e mezzo da un legame di complementarietà. Conclude il volume una serie di analisi di Hannah Arendt scritte tra il 1953 e il 1963 e unite sotto il titolo Per una filosofia del limite. Al centro della novità filosofica di Montesquieu, vi è, per la Arendt, una differente visione della vita politica. La grande scoperta montesquieuiana è stata quella di pensare che le particolari strutture istituzionali “necessitano, ognuna, di un diverso «principio» che le metta in moto” (p. 193). Ogni forma di governo ha, in altre parole, bisogno di un elemento propulsivo, identificabile con le passioni peculiari della vita politica di ciascun governo (la virtù politica per la repubblica, l’onore per la monarchia e la paura per il governo dispotico). Le categorie tradizionali d’interpretazione su cui si basavano le precedenti teorie delle forme di governo, vale a dire potere e legge, vengono dunque sostituite definitivamente da Montesquieu dalle passioni che muovono la vita politica. In questo modo il filosofo introdurrebbe “la storia e il processo storico in strutture che – nate dal pensiero greco – erano state originariamente pensate come immobili e immutabili” (p. 193). In appendice l’ottima scheda cronologica curata da Piero Venturelli.
Indice
Nota ai testi di Domenico Felice
Un nuovo Aristotele di Isaiah Berlin
Per una scienza universale dei sistemi politici-sociali di Raymond Aron
La nascita dell’idea d’Europa di Federico Chabod
Grandezza e decadenza dell’ideologia europea di Norberto Bobbio
Per una concezione dialettica del bene comune e della libertà di Sergio Cotta
Uniformità e diversità di Jean Starobinski
Per una filosofia del limite di Hannah Arendt
Appendice
Cronologia: Vita e opere di Montesquieu (1689-1755) (a cura di Piero Venturelli)
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