Al lettore italiano sembra forse un po’ bizzarro il fatto di articolare un saggio in cinquanta questioni. In realtà questa struttura è propria della collana 50 questions edita da Klincksieck, presso cui il saggio di Saint Girons è apparso in francese nel 2008. Lo scopo della collana è quello di rendere accessibile e compendiabile un dato argomento riguardante arte o letteratura.
Non è tuttavia esatto pensare che, il libro di Saint Girons, essendo un compendio sull’atto estetico, sia un libro facile. Almeno per due motivi:
il primo è proprio la scelta dell’argomento, che in questo caso non è un consolidato filone di ricerca, ma è fondamentalmente una designazione filosofica introdotta dalla stessa autrice. Non è affatto scontato che si parli di “atto estetico”; Saint Girons lo fa, ne ha fatto un concetto proprio, lo rilancia e ne spiega le ragioni. Ma ecco il secondo motivo di difficoltà: l’argomentazione di Saint Girons. Vorrei partire da qui.
il primo è proprio la scelta dell’argomento, che in questo caso non è un consolidato filone di ricerca, ma è fondamentalmente una designazione filosofica introdotta dalla stessa autrice. Non è affatto scontato che si parli di “atto estetico”; Saint Girons lo fa, ne ha fatto un concetto proprio, lo rilancia e ne spiega le ragioni. Ma ecco il secondo motivo di difficoltà: l’argomentazione di Saint Girons. Vorrei partire da qui.
Non è facile seguire il filo del ragionamento di Saint Girons. È lo stile dell’autrice che sembra mischiare le carte in gioco. Le questioni dovrebbero aiutare ad avere una direzione nella lettura del libro; dovrebbero dare almeno un ritmo. Con “ritmo” intendo dire che a una questione specifica vi sia una risposta specifica. Invece, ed è sia una pecca che un pregio del volume, a seconda di cosa si voglia da esso, le questioni sembrano confondere per come sono poste e le relative risposte sembrano non rispondere direttamente alla domanda; anzi, chiamano in causa altri elementi, altri termini, altri concetti, altre teorie.
Non c’è linearità nel procedere argomentativo. Se volete un libro che spieghi qualcosa di “estetica”, questo non fa per voi. Ma c’è un’infinita ricchezza teorica nelle questioni e nelle risposte. Spesso ci si sente obbligati a leggere e a rileggere la stessa riga, a soffermarsi sulle scelte di scrittura, a schierarsi per la verità o falsità delle tesi. Dunque se volete un libro che faccia riflettere sull’estetica, questo fa per voi. È un libro che provoca il lettore a pensare con esso, a completare un senso che dà solo in modo incompleto.
Anche le numerose e dotte citazioni, nonché la frequente ricostruzione etimologica dei termini, non sono inserite affinché l’autrice ingaggi un corpo a corpo con esse. Ogni adagio e ogni etimologia, in entrambi i casi per lo più dal mondo classico, non comportano ipso facto un’adesione dell’autrice; al contrario spesso implicano uno scarto sottile con il discorso, e la visione d’insieme dà l’impressione di un incedere virtuosistico, pirotecnico, anche se talvolta forse un po’ troppo funambolico.
Qui vorrei mostrare come opera lo stile di Saint Girons, prendendo in esame solamente la questione dell’apertura all’alterità che si realizza per tramite dell’atto estetico (nell’Introduzione). Per ragioni di concisione non posso prendere in esame il resto del volume, cui spero di invogliare il lettore. A seguito dell’Introduzione il lettore potrà trovare “una tipologia degli atti estetici corrispondenti alle principali tipologie di arte” (p. 15). Per vedere quali tipologie di arte, rimando all’indice del volume. Ma intanto vediamo l’Introduzione.
La prima questione recita: “Parlare di ‘atto estetico’ non è forse una provocazione? Non significa forse supporre che il momento estetico sia il momento della passività o della ricezione?”
Il libro dà subito una prima risposta e definisce così l’ “atto estetico”: “Esso risponde alla provocazione del mondo e implica una decisione, più o meno consapevole, attraverso cui ci serviamo di noi stessi per esporci all’alterità, per approfondirla, per rielaborarla in modo da riprodurre quel ‘sentito’ di secondo grado – intriso di sapere e d’immaginazione – che poi diventa reale” (p. 11).
È una definizione piuttosto vaga e, a causa di tale vaghezza, sfida il lettore a riempirne il senso. Capisco che l’atto estetico ha a che fare qualcosa di altro da me, che in qualche modo (quale?) decido di rielaborare e di riprodurre (come?) in un “sentito” (cioè una sensazione, un pensiero, un sogno?) intriso di sapere e di immaginazione.
Il fatto che sia una mia decisione esclude dunque la passività e anzi connota di volontarismo e di personalismo l’atto estetico. Quindi sembra che l’atto estetico sia un affare soggettivo. Ma le cose si complicano perché si dice poco sotto che l’atto estetico è “il segno e la prova d’una cultura efficace e vivente, capace di unire gli uomini, di ri-legarli (religare) al di là di ogni differenza di lingua e di religione” (p. 11).
Viene giustamente citato Kant per il suo universalismo estetico; ma da Kant Saint Girons si distanzia perché il giudizio di gusto coniato da Kant non procede abbastanza dal singolo verso l’universale quanto l’atto estetico. L’atto estetico coinvolge anche “la messa gioco del corpo, la mobilitazione delle tecniche e dei saperi, l’esercizio della rêverie culturale; dall’altro lato, l’osservazione e l’analisi” (p. 12).
Ancora, nella seconda questione: “l’atto estetico non è semplicemente principio di conoscenza. Ciò che lo caratterizza è l’essere principio di metamorfosi e anzi di una doppia metamorfosi: quella del percepito e quella del percepiente. Je suis ce que je vois, ‘Sono ciò che vedo’, dichiara Alexandre Hollan: che io lo voglia o no, ciò che io vedo va già intessendo il mio essere. Ma quando raccolgo le mie forze psichiche impedendone l’inerzia, mi amalgamo a ciò che guardo e l’amalgamo a me. L’operazione è doppia, poiché io porto in me qualcosa dell’altro mentre l’altro si trova a sua volta modificato” (p. 16-17).
Un’altra declinazione della definizione, anche questa vaga e difficile da cogliere: cosa vuol dire “modificare” se stessi a contatto con l’altro, e viceversa? In che misura avviene questa modifica?
Nella questione 3 si dice che questa modifica non è un’esperienza, ma un atto. Perché il concetto di atto e non di “esperienza estetica”? Saint Girons risponde che ci sono almeno quattro ragioni: “il sapore di strappo proprio dell’atto, la responsabilità che vi inerisce, la priorità dell’atto sul soggetto e la produzione di un risultato, ancorché immateriale. L’esperienza si accumula, l’atto si compie. L’una si rivendica, l’altro si pone. L’una rinvia all’io, l’altro genera il soggetto. L’una si dispiega senza fine mentre l’atto realizza un fine” (p. 20).
È pur vero che il termine esperienza conserva in italiano anche il senso di “atto”. Saint Girons rifiuta il concetto di esperienza che sta dietro al termine tedesco Erlebnis, ma va molto vicino al concetto di esperienza dato dal tedesco Erfahrung (sembra accennare al problema a p. 19).
In greco “atto”, scrive Saint Girons, si diceva energeia o pragma. Nel primo termine si indica che l’atto è libero, spontaneo, e allo stesso tempo cerca di realizzare una finalità, cioè “di appropriarsi all’Altro appropriando l’Altro a sé stessi” (p. 21).
Il secondo termine pragma “significa non soltanto ‘provare’, ma anche ‘misurarsi con’ o ancora ‘attraversare’ (transvehere), cioè ‘girarsi verso’ e insieme ‘deviare’. L’atto estetico è al contempo un’avventura e una prova: passa attraverso le cose e le trasforma, trasformando anche colui che lo compie […] Di fatto, l’atto estetico va verso le cose le sottopone a un ‘rodaggio’, le penetra. Non le crea ex nihilo, ma le dota di una nuova potenza” (p. 21).
In latino actus, assume la sfumatura di “mettere in moto”; e co-agitare diventa cogitare, cioè “pensare” nel senso di “agitare pensieri”. A questo etimo Saint Girons affianca, non senza una forzatura un po’ stonata, la “neurofisiologia” (p. 23): alcuni studi dimostrerebbero come il cervello sia innatamente predisposto ad agire in un campo di possibilità.
“Quale conclusione trarne? Fare dell’atto estetico il principio del lavoro estetico significa riappropriarsi del senso della decisione attraverso cui, prima di qualunque posa, prima di qualunque ‘atteggiamento’, ci apriamo all’alterità e agitiamo, spingiamo idee davanti a noi” (p. 24).
Nella questione 4 ci si chiede se l’atto estetico non sia una teoria elitista, visto che il lavoro estetico non è appannaggio di tutti; anzi è un lavoro che si realizza nella disponibilità del cosiddetto “tempo libero” – la scholé greca e l’otium latino. È un’obiezione molto seria, a mio modo di vedere, ma qui non riesco a capire il senso della risposta di Saint Girons; scrive:
«altro è affermare un certo gusto, alto è provare il gusto come operazione: ed è questa l’unica cosa che ci interessa nell’atto estetico» (p. 25).
Quindi c’entra anche il gusto, contrariamente a quando affermato in precedenza contro Kant? E il seguito non chiarisce: “Vengono fuori altre due obiezioni: come decidere di ciò a cui dovrei espormi? Non posso espormi stabilmente all’Altro, né posso espormi alla totalità dell’Altro. In tali condizioni il compito urgente non sarà forse quello d’affermare e di difendere gl’interessi del mio Io? La fatuità e l’egoismo impediscono ogni vero movimento verso l’Altro. Infatti, la diffidenza nei confronti dell’Io costituisce un significativo tratto comune al Cristianesimo e alla psicanalisi” (p. 25).
Non colgo il senso di quell’«infatti», ma andiamo avanti. “Da un lato dunque la Cariddi d’uno smarrimento radicale; dall’altro, la Scilla d’una costruzione artificiale. La nostra secessione a partire dall’Altro è un dato di fatto: dobbiamo ritornare indietro per riannodarci all’Altro? O dobbiamo invece radicalizzare il nostro scarto e assumere un ego di cui ci siamo dotati a nostra insaputa?” (p. 25-26).
Cosa significano espressioni come “secessione a partire dall’Altro” o “riannodarci all’Altro? Chi o cosa è l’Altro?”
Scrive Saint Girons: “L’atto estetico non consiste nell’estetizzare il reale, lasciandone da parte gli aspetti più penosi o spiacevoli. […] È alla portata di ciascuno di noi anche se sospendiamo solo un momento la nostra attività e anche se non ci chiudiamo più nelle sensazioni inutili e accettiamo di sentire ciò che sentiamo. […] L’etica dell’atto estetico consiste nell’aprirsi interamente all’alterità da cui proveniamo, nella quale siamo immersi e dalla quale saremo inevitabilmente riassorbiti; abbassiamo la guardia dei nostri occhi e delle nostre orecchie, esercitiamo i nostri diversi ricettori sensoriali e facciamo agire integralmente le nostre facoltà” (p. 28).
L’alterità non assume un volto o una connotazione precisi nel discorso di Saint Girons. Se non quando, nel primo capitolo, viene proposto un esempio: “E così ho deciso di prendere in considerazione un’avventura personale, durante la quale la pace della sera è sembrata a me a due amici che mi accompagnavano non essere più un tema esclusivamente immaginario, ma realizzarsi esclusivamente nel paesaggio” (p. 36).
La “pace della sera” è una rielaborazione di un dato “reale” – un paesaggio siracusano di fine aprile che è sembrato sciogliere nel languore e nell’armonia, con il mondo e con gli amici, la stanchezza di una giornata dell’autrice. Ed è veramente un’esperienza (o un atto?) piuttosto comune trarre da paesaggi, opere d’arte, ecc. delle sensazioni che sembrano disarmarci per quanto riempiono il nostro spirito, qualunque cosa si voglia intendere con questa parola. Certamente queste sensazioni richiedono un abbandono volontario proprio del soggetto e implicano anche un riallineamento con il mondo e con gli altri, una maggior apertura alla comunicabilità e alla gentilezza...
Somiglia forse a quell’esperienza che Schiller, stranamente non menzionato da Saint Girons, dice essere condotta da due tendenze innate contrastanti, l’ “impulso materiale” – la disponibilità alla ricettività – e l’“impulso formale” – la brama di rielaborazione del reale – nelle sue lettere sull’educazione estetica.
Che questo si avvicini al significato di “atto estetico”?
Indice
Introduzione: l’atto come principio del lavoro estetico
Capitolo primo: La pace della sera
Capitolo secondo: universali d’immaginazione
Capitolo terzo: il giardino e il paesaggio
Capitolo quarto: plasticità della scultura e plasticità della pittura
Capitolo quinto: architettura e coreografia. Incremento e decremento d’opera
Conclusione: per una riabilitazione dell’amateur
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