Il volume, nonostante la prima pubblicazione negli Stati Uniti risalga al 1990, mostra la sua attualità attraverso una semplice osservazione, rivelatasi in questi anni una valida previsione: le discriminazioni operate dalla Shari‘a, considerando la grande influenza da essa esercitata sulla condotta pubblica e privata dei musulmani in tutto il mondo, combinate con l’ambivalenza dei paesi musulmani in materia di diritti umani, porteranno inevitabilmente a conseguenze sempre più gravi, nella direzione di “una progressiva islamizzazione della vita pubblica” nei paesi musulmani stessi (p. 251).
L’obiettivo che il sudanese An-Na‘im si pone, in quest’opera così come con il suo intero percorso di ricerca, è di mostrare la possibilità di raggiungere un’integrazione tra Islam e dottrina dei diritti umani non attraverso l’imposizione acritica di riflessioni politiche (principalmente) occidentali, bensì seguendo la strada di un complesso sforzo esegetico sulle fonti islamiche tradizionali. L’attenzione dell’autore si concentra principalmente sulla Shari‘a, un corpus normativo che “racchiude ogni aspetto del diritto pubblico e privato, dell’igiene e perfino della cortesia e delle buone maniere”, considerato di origine divina dalla maggior parte dei musulmani (pp. 18-19). An-Na‘im sviluppa un intero capitolo dell’opera per mostrare invece come il diritto sharaitico sia una costruzione umana, frutto di un’opera interpretativa del Corano e della Sunna da parte di singoli giuristi, “chiaro prodotto delle vicende intellettuali, sociali e politiche” dei primissimi secoli della storia musulmana (p. 18). Si tratta di una premessa necessaria, che regge tutto l’impianto riformistico proposto da An-Na‘im, perché consente di ricercare nuove tecniche esegetiche. Sulla scorta dell’insegnamento del conterraneo Mahmoud Mohamed Taha (1909-1985), l’autore mette in risalto come “un esame attento” del contenuto del Corano e della Sunna possa rivelare l’esistenza di “due livelli o fasi del messaggio dell’Islam, corrispondenti uno al periodo meccano e l’altro al successivo periodo medinese”. Il messaggio del periodo meccano costituisce secondo l’autore quello “eterno e fondamentale dell’Islam, che sottolinea la dignità innata di ogni essere umano senza distinzione di genere, fede religiosa, razza” ed è caratterizzato “dall’uguaglianza fra uomini e donne e dalla completa libertà di scelta in materia di religione e di fede. Sia la sostanza del messaggio dell’Islam che il modo in cui veniva diffuso nel periodo meccano si fondavano sull’ismah, la libertà di scegliere senza alcuna forma od ombra di costrizione o coercizione” (pp. 77-78). La concezione dello Stato sharaitico si sarebbe invece sviluppata, seguendo Taha, nel periodo medinese, momento in cui i musulmani divennero una comunità politica e fondarono uno Stato. Il modello medinese, in base a questa lettura, si configura “come un modello determinato dalle realtà politiche e sociali del settimo secolo” e dunque oggi largamente inattuabile (p. 141): “Tutti i versetti coranici, e i passi della Sunna ad essa relativi, che ammettono l’uso della forza per diffondere l’Islam tra i non musulmani apostati furono rivelati ed enunciati dal Profeta nel periodo medinese” (p. 221).An-Na‘im introduce quindi il proprio “approccio evolutivo”, basato sul meccanismo revocativo/abrogativo del naskh, storicamente utilizzato per riconciliare i versetti contraddittori del Corano. In base a tale principio, “i giuristi fondatori ritennero che i brani risalenti al periodo medinese e la prassi del primo Stato islamico fondata su di essi avessero legalmente revocato o abrogato tutti i versetti e le prassi precedenti che erano incompatibili con quello che veniva ritenuto il messaggio profetico finale di Medina” (p. 221). L’autore propone ora, attraverso il naskh, una sorta di ripristino dei contenuti del periodo meccano. Senza “un nuovo principio interpretativo, capace di sviluppare una concezione alternativa del diritto pubblico islamico”, del resto, An-Na‘im considera incompatibile con la Shari‘a, nella forma in cui ci è pervenuta, l’idea del costituzionalismo occidentale, già a partire dai suoi due principi basilari (“ogni individuo è un fine in sé e non deve mai essere usato come mezzo per un altro fine” e “la società è il mezzo più efficace per raggiungere gli scopi della libertà e della dignità individuale”). Allo stato attuale, “rimarrebbero soltanto due scelte ai musulmani moderni: abbandonare il diritto pubblico della Shari‘a o ignorare il costituzionalismo. Se la prima scelta sembra irrealistica, […] la seconda è moralmente insostenibile e politicamente inaccettabile” (pp. 139-141). Ciò che An-Na‘im costruisce è un approccio, dunque, propriamente “islamico”: “Sebbene l’Islam come religione faccia riferimento ai doveri dei credenti verso Dio, il diritto islamico deve tradurre questi doveri in diritti degli esseri umani attraverso il pensiero razionale e l’esperienza pratica dei credenti” (p. 143).Un possibile raccordo tra la dottrina dei diritti umani, il costituzionalismo e l’Islam è individuato in un principio normativo comune alle principali tradizioni religiose del mondo, che, interpretato “in maniera illuminata”, sarebbe “in grado di convalidare i principi universali dei diritti umani”: si tratta del “principio di reciprocità”, in base al quale “ciascuno deve trattare gli altri nello stesso modo in cui desidera essere trattato”. È però lo stesso autore a notare la problematica della “tendenza delle tradizioni culturali, e di quelle religiose in particolare, a limitare l’applicazione di tale principio” (pp. 226-227). Nella Shari‘a, considerata nella sua natura di documento giuridico storico, ad esempio, gli “altri” sono identificati con i soli uomini musulmani (cfr. p. 230). A questo punto l’autore introduce una riflessione sui diritti umani e sulla sua lettura del loro attributo dell’universalità. Essi “si fondano sulle due “forze primarie” che motivano tutti i comportamenti umani: la volontà di vivere e la volontà di essere liberi. Ad un primo livello, la volontà di essere liberi coincide con la volontà di vivere, in quanto è la volontà di essere liberi dai vincoli fisici e di essere sicuri del cibo, di un riparo, della salute e di tutto ciò che è necessario per condurre una vita confortevole. Ad un altro livello, la volontà di essere liberi va oltre quella di vivere, in quanto è la forza che spinge a ricercare il benessere e l’eccellenza in termini spirituali”. Con incedere sillogistico viene dunque individuata la “base dell’universalità di un insieme minimo di diritti umani”: “Poiché ogni tradizione culturale riconosce ai suoi membri il diritto di ottenere soddisfazione alle legittime richieste di queste due “forze primarie”, tale diritto deve essere garantito ai membri delle altre tradizioni, secondo il principio di reciprocità” (p. 229).
L’obiettivo che il sudanese An-Na‘im si pone, in quest’opera così come con il suo intero percorso di ricerca, è di mostrare la possibilità di raggiungere un’integrazione tra Islam e dottrina dei diritti umani non attraverso l’imposizione acritica di riflessioni politiche (principalmente) occidentali, bensì seguendo la strada di un complesso sforzo esegetico sulle fonti islamiche tradizionali. L’attenzione dell’autore si concentra principalmente sulla Shari‘a, un corpus normativo che “racchiude ogni aspetto del diritto pubblico e privato, dell’igiene e perfino della cortesia e delle buone maniere”, considerato di origine divina dalla maggior parte dei musulmani (pp. 18-19). An-Na‘im sviluppa un intero capitolo dell’opera per mostrare invece come il diritto sharaitico sia una costruzione umana, frutto di un’opera interpretativa del Corano e della Sunna da parte di singoli giuristi, “chiaro prodotto delle vicende intellettuali, sociali e politiche” dei primissimi secoli della storia musulmana (p. 18). Si tratta di una premessa necessaria, che regge tutto l’impianto riformistico proposto da An-Na‘im, perché consente di ricercare nuove tecniche esegetiche. Sulla scorta dell’insegnamento del conterraneo Mahmoud Mohamed Taha (1909-1985), l’autore mette in risalto come “un esame attento” del contenuto del Corano e della Sunna possa rivelare l’esistenza di “due livelli o fasi del messaggio dell’Islam, corrispondenti uno al periodo meccano e l’altro al successivo periodo medinese”. Il messaggio del periodo meccano costituisce secondo l’autore quello “eterno e fondamentale dell’Islam, che sottolinea la dignità innata di ogni essere umano senza distinzione di genere, fede religiosa, razza” ed è caratterizzato “dall’uguaglianza fra uomini e donne e dalla completa libertà di scelta in materia di religione e di fede. Sia la sostanza del messaggio dell’Islam che il modo in cui veniva diffuso nel periodo meccano si fondavano sull’ismah, la libertà di scegliere senza alcuna forma od ombra di costrizione o coercizione” (pp. 77-78). La concezione dello Stato sharaitico si sarebbe invece sviluppata, seguendo Taha, nel periodo medinese, momento in cui i musulmani divennero una comunità politica e fondarono uno Stato. Il modello medinese, in base a questa lettura, si configura “come un modello determinato dalle realtà politiche e sociali del settimo secolo” e dunque oggi largamente inattuabile (p. 141): “Tutti i versetti coranici, e i passi della Sunna ad essa relativi, che ammettono l’uso della forza per diffondere l’Islam tra i non musulmani apostati furono rivelati ed enunciati dal Profeta nel periodo medinese” (p. 221).An-Na‘im introduce quindi il proprio “approccio evolutivo”, basato sul meccanismo revocativo/abrogativo del naskh, storicamente utilizzato per riconciliare i versetti contraddittori del Corano. In base a tale principio, “i giuristi fondatori ritennero che i brani risalenti al periodo medinese e la prassi del primo Stato islamico fondata su di essi avessero legalmente revocato o abrogato tutti i versetti e le prassi precedenti che erano incompatibili con quello che veniva ritenuto il messaggio profetico finale di Medina” (p. 221). L’autore propone ora, attraverso il naskh, una sorta di ripristino dei contenuti del periodo meccano. Senza “un nuovo principio interpretativo, capace di sviluppare una concezione alternativa del diritto pubblico islamico”, del resto, An-Na‘im considera incompatibile con la Shari‘a, nella forma in cui ci è pervenuta, l’idea del costituzionalismo occidentale, già a partire dai suoi due principi basilari (“ogni individuo è un fine in sé e non deve mai essere usato come mezzo per un altro fine” e “la società è il mezzo più efficace per raggiungere gli scopi della libertà e della dignità individuale”). Allo stato attuale, “rimarrebbero soltanto due scelte ai musulmani moderni: abbandonare il diritto pubblico della Shari‘a o ignorare il costituzionalismo. Se la prima scelta sembra irrealistica, […] la seconda è moralmente insostenibile e politicamente inaccettabile” (pp. 139-141). Ciò che An-Na‘im costruisce è un approccio, dunque, propriamente “islamico”: “Sebbene l’Islam come religione faccia riferimento ai doveri dei credenti verso Dio, il diritto islamico deve tradurre questi doveri in diritti degli esseri umani attraverso il pensiero razionale e l’esperienza pratica dei credenti” (p. 143).Un possibile raccordo tra la dottrina dei diritti umani, il costituzionalismo e l’Islam è individuato in un principio normativo comune alle principali tradizioni religiose del mondo, che, interpretato “in maniera illuminata”, sarebbe “in grado di convalidare i principi universali dei diritti umani”: si tratta del “principio di reciprocità”, in base al quale “ciascuno deve trattare gli altri nello stesso modo in cui desidera essere trattato”. È però lo stesso autore a notare la problematica della “tendenza delle tradizioni culturali, e di quelle religiose in particolare, a limitare l’applicazione di tale principio” (pp. 226-227). Nella Shari‘a, considerata nella sua natura di documento giuridico storico, ad esempio, gli “altri” sono identificati con i soli uomini musulmani (cfr. p. 230). A questo punto l’autore introduce una riflessione sui diritti umani e sulla sua lettura del loro attributo dell’universalità. Essi “si fondano sulle due “forze primarie” che motivano tutti i comportamenti umani: la volontà di vivere e la volontà di essere liberi. Ad un primo livello, la volontà di essere liberi coincide con la volontà di vivere, in quanto è la volontà di essere liberi dai vincoli fisici e di essere sicuri del cibo, di un riparo, della salute e di tutto ciò che è necessario per condurre una vita confortevole. Ad un altro livello, la volontà di essere liberi va oltre quella di vivere, in quanto è la forza che spinge a ricercare il benessere e l’eccellenza in termini spirituali”. Con incedere sillogistico viene dunque individuata la “base dell’universalità di un insieme minimo di diritti umani”: “Poiché ogni tradizione culturale riconosce ai suoi membri il diritto di ottenere soddisfazione alle legittime richieste di queste due “forze primarie”, tale diritto deve essere garantito ai membri delle altre tradizioni, secondo il principio di reciprocità” (p. 229).
An-Na‘im utilizza l’abolizione dell’istituto giuridico della schiavitù, avvenuta negli Stati musulmani moderni, “in certi casi solo alla fine degli anni Sessanta del Novecento e a volte persino dopo”, come esempio delle implicazioni del suo approccio. L’abolizione della schiavitù è stata raggiunta unicamente attraverso il diritto laico, mentre la Shari‘a continua a riconoscerla. Si tratta per l’autore di una circostanza “moralmente indifendibile”, che costituisce un “problema rilevante per i musulmani dal punto di vista dei diritti umani”, potenzialmente alla base di “notevoli conseguenze pratiche”, operando come fonte di legittimazione per “forme di prassi clandestine simili allo schiavismo” (pp. 245–246). Rimanendo ancorati alla struttura normativa della Shari‘a, nella sua forma attuale, i musulmani, a parere dell’autore, non riusciranno mai ad abolire realmente non solo la schiavitù, ma anche le numerose e pervicaci forme “della discriminazione delle donne e dei non musulmani” (pp. 251–252).
In conclusione, appare oggi illusoria, come scrive Danilo Zolo nella Presentazione del volume, nell’attuale contesto politico del mondo arabo-islamico, “l’emanazione di carte costituzionali che prescindano da un immediato riferimento ai testi sacri, Shari‘a compresa”. Accanto a questo dato, però, non va sottovalutata la presenza di attori sociali promettenti “dal punto di vista dei valori che premono ad An-Na‘im”: si tratta di movimenti spesso operanti “in forte contrasto con i governi nazionali” e portatori di un’esigenza di “partecipazione sociale e politica che sarebbe un grave errore confondere con l’islamismo fondamentalista” (si pensi «Fratelli musulmani» in Egitto) (p. XXII). Fermenti, dunque, positivi, che una riflessione come quella di An-Na‘im potrebbe guidare in un cammino costruttivo e culturalmente libero dalle iniziative mediterranee statunitensi ed europee, che troppo spesso, “sotto le apparenze di una volontà di dialogo all’insegna della diffusione dei diritti umani, della “prosperità condivisa” e della pace” hanno portato debolezza economica e marginalità politica ai paesi-arabo islamici (p. XXIV).
Indice
Presentazione dell’edizione italiana di Danilo Zolo
Prefazione di John O. Voll
Introduzione
1. Il diritto pubblico nel mondo musulmano
2. Le fonti e lo sviluppo della Shari‘a
3. Per una metodologia di riforma adeguata
4. La Shari‘a e il costituzionalismo moderno
5. La giustizia penale
6. La Shari‘a e il diritto internazionale moderno
7. La Shari‘a e la tutela dei diritti umani fondamentali
Conclusione
5 commenti:
Ugualmente ma inversamente al vecchio proclama religioso "Allah è grande e Maometto è il suo Profeta" (che già in 'Basso' Medio Evo era ritenuto superato o marginale, sostituito da questo altro, pressappoco così esprimibile: "di Allah, che è grande, Maometto fu Profeta") l'uso storico del termine Shari'a.
Infatti non ha senso compiuto né universale introdurre ad Islam ricapitolando la impresa di Maometto (I); parimenti non ha senso dire di Shari'a riferendosi a sua vecchia applicazione, perché così si resta senza capire nuove finzioni né attuali violenze diffuse nel mondo beduino.
...
MAURO PASTORE
... ' Shari'a ' è idea soltanto, non rappresentabile
Quale ricorso religioso si estrinseca in particolari tattiche di condotta sociale ma in nessuna norma solo regolamenti per annullare o perlomeno limitare altrui norme — queste ultime in principio prontuari di vendetta poi liste di faide per ostinazioni a medesima realtà biblica-vetero-testamentaria.
La Shari'a era ideologia religiosa mosaica, che differiva da quella cristiana-bizantina perché questa era annullamento-oppure-limitazione di altri schemi inaccettabili, i quali apprestavano parvenze, di persone e cose, o magie estetiche, entrambe pericolose e comunque penose per la vita bizantina, greca, od anche variamente religiosa e narurale. (I bizantini applicavano regolamenti di conti proprio coi mosaici, che mostravano per esempio vestiari non occultanti o evidenzianti le nudità delle Autorità religiose particolari; e ciò non era per incapricciare né arrabbiare col poco o troppo, ma solo per opporre, alle apparenze aggressive e nemiche, immagini che ne sfatassero gli effetti; infatti i bizantini non usavano abitualmente figure umane nude in pitture e sculture, consuetudine tipicamente ellena codesta, neanche praticavano abitualmente nudità di danzatori e danzatrici, consuetudine tipicamente ellenica codesta, perché preferivano manifestazioni culturali del tutto originarie, di stessa cultura del corpo, non essendo bizantina ma tipica di ellenismo la mimesi nuda ed invece i bizantini ricorrendo ad arti di lotta non solo senz'armi ma proprio senza niente, in ciò però non essendovi opposto speculare a mentalità sociale araba beduina, ma a mentalità romana, che invece le arti della lotta rigorosamente esprimeva con diaframmi di ogni sorta... dunque i mosaici bizantini tanto espliciti e indiretti non rivelavano vita bizantina ma loro giudizio od insegnamento per situazioni e circostanze da altri create.)
La cultura araba beduina della primitiva Shari'a era in rapporto col mondo mediorentale, con civilizzazione non culturale e con acculturazioni non naturali (per le quali le celebri danze erotiche arabe (alcune dette "del ventre") erano un evento alieno ed incomprensibile) mentre retaggio di circostanze politiche non era da stessa cultura ebraica dell'Esodo ma da evento originale dei Provvedimenti a scopo di Resa Pubblica oppure Moderazione indetti dal potente orientale Hammurabi — che dunque mai fu istitutore di vendette — inoltre dal perdurare di stessa resa e moderazione in altri accadimenti e con queste diventate immotivato appello a violenza cioè faida. Entro tal significato storico Maometto è da considerarsi ispiratore passato di una età nuova per l'Oriente, allorché i racconti delle vendette degenerate peraltro in faide dovevano progressivamente diventare inutili e da sùbito indiretti non più oppressivi contro tranquillità orientale. Diverso destino da Europa carolingia, non a caso questa scesa in guerra contro pretese civili arabe africane in stesso continente europeo, perché, inversamente, i racconti delle faide erano agli europei necessari per dar senso a serenità interiore, dato che quivi i rischi eran più gravi di aggressioni più gravi... d'altronde non erano sacrali in Europa le difese dalle faide, lo erano in Oriente Arabo ed erano censure, contro narrazioni ingenue quindi importune, affinché declinassero stesse violenze che senza rinomanza restavano indesiderabili da chiunque.
Tale regolamento era non la shari'a stessa ma sua applicazione particolare.
Ai tempi di Impero Ottomano e Maometto II aveva già compiuto suo destino tanto che per gli Ottomani la vecchia sua applicazione era solo una simulazione di altri accadimenti ed altre violenze.
MAURO PASTORE
In mio messaggio precedente manca un punto dopo prima frase e oltre nel testo 'narurale' sta per: naturale.
Invierò testo corretto.
MAURO PASTORE
*
... ' Shari'a ' è idea soltanto, non rappresentabile.
Quale ricorso religioso si estrinseca in particolari tattiche di condotta sociale ma in nessuna norma solo regolamenti per annullare o perlomeno limitare altrui norme — queste ultime in principio prontuari di vendetta poi liste di faide per ostinazioni a medesima realtà biblica-vetero-testamentaria.
La Shari'a era ideologia religiosa mosaica, che differiva da quella cristiana-bizantina perché questa era annullamento-oppure-limitazione di altri schemi inaccettabili, i quali apprestavano parvenze, di persone e cose, o magie estetiche, entrambe pericolose e comunque penose per la vita bizantina, greca, od anche variamente religiosa e naturale. (I bizantini applicavano regolamenti di conti proprio coi mosaici, che mostravano per esempio vestiari non occultanti o evidenzianti le nudità delle Autorità religiose particolari; e ciò non era per incapricciare né arrabbiare col poco o troppo, ma solo per opporre, alle apparenze aggressive e nemiche, immagini che ne sfatassero gli effetti; infatti i bizantini non usavano abitualmente figure umane nude in pitture e sculture, consuetudine tipicamente ellena codesta, neanche praticavano abitualmente nudità di danzatori e danzatrici, consuetudine tipicamente ellenica codesta, perché preferivano manifestazioni culturali del tutto originarie, di stessa cultura del corpo, non essendo bizantina ma tipica di ellenismo la mimesi nuda ed invece i bizantini ricorrendo ad arti di lotta non solo senz'armi ma proprio senza niente, in ciò però non essendovi opposto speculare a mentalità sociale araba beduina, ma a mentalità romana, che invece le arti della lotta rigorosamente esprimeva con diaframmi di ogni sorta... dunque i mosaici bizantini tanto espliciti e indiretti non rivelavano vita bizantina ma loro giudizio od insegnamento per situazioni e circostanze da altri create.)
La cultura araba beduina della primitiva Shari'a era in rapporto col mondo mediorentale, con civilizzazione non culturale e con acculturazioni non naturali (per le quali le celebri danze erotiche arabe (alcune dette "del ventre") erano un evento alieno ed incomprensibile) mentre retaggio di circostanze politiche non era da stessa cultura ebraica dell'Esodo ma da evento originale dei Provvedimenti a scopo di Resa Pubblica oppure Moderazione indetti dal potente orientale Hammurabi — che dunque mai fu istitutore di vendette — inoltre dal perdurare di stessa resa e moderazione in altri accadimenti e con queste diventate immotivato appello a violenza cioè faida. Entro tal significato storico Maometto è da considerarsi ispiratore passato di una età nuova per l'Oriente, allorché i racconti delle vendette degenerate peraltro in faide dovevano progressivamente diventare inutili e da sùbito indiretti non più oppressivi contro tranquillità orientale. Diverso destino da Europa carolingia, non a caso questa scesa in guerra contro pretese civili arabe africane in stesso continente europeo, perché, inversamente, i racconti delle faide erano agli europei necessari per dar senso a serenità interiore, dato che quivi i rischi eran più gravi di aggressioni più gravi... d'altronde non erano sacrali in Europa le difese dalle faide, lo erano in Oriente Arabo ed erano censure, contro narrazioni ingenue quindi importune, affinché declinassero stesse violenze che senza rinomanza restavano indesiderabili da chiunque.
Tale regolamento era non la shari'a stessa ma sua applicazione particolare.
Ai tempi di Impero Ottomano e Maometto II aveva già compiuto suo destino tanto che per gli Ottomani la vecchia sua applicazione era solo una simulazione di altri accadimenti ed altre violenze.
MAURO PASTORE
Sono spiacente per inconveniente di scrittura; ho scritto e scrivo mentre da attorno si danno tedi di vario genere e tipo e negativi allo stare in tal luogo stesso, dati, direttamente o indirettamente, da parte di chi estraneo ed ostile, anche abitualmente, ad esso ed anche a miei messaggi.
MAURO PASTORE
Posta un commento