lunedì 15 ottobre 2012

Basti, Gianfranco, Gherri, Paolo (a cura di), Logica e Diritto: tra argomentazione e scoperta

Roma, Lateran University Press, 2011, pp. 443, euro 35, ISBN 9788846507891

Recensione di Sara Anna Ianniello - 12/04/2012

Il volume raccoglie i contributi della Quinta Giornata Canonistica Interdisciplinare svoltasi presso la Pontificia Università Lateranense di Roma, lo scorso 8 marzo 2010. La posizione «problematica ed autocritica» (p. 7) dei giuristi troppo legata ad una visione classica della logica e come tale sicuramente insufficiente a rendere conto della dimensione personalistica e irriducibile del soggetto, è compensata dall’assetto «propositivo dei logici» (p. 7) ed in particolare dalla considerazione che una nuova apertura dei rapporti tra logica e diritto, 

con un particolare riferimento al diritto canonico, possa provenire non più da una logica puramente estensionale, ma da una logica intensionale, ovvero, da una logica che «tenga conto del significato o intensione delle proposizioni componenti e/o, all’interno delle proposizioni elementari, il significato o intensione dei termini componenti» (p. 47).
Considerando che la logica aletica, o comunemente definita logica del vero e del falso, ha «un carattere bivalente, nel senso che non ammette in una proposizione se non due qualità diametralmente opposte, realmente alternative: la verità o il suo contrario, la falsità» (p. 309), e che la logica formale, ovvero la logica che si serve del simbolismo, si basa sulla forma delle proposizioni e non sugli specifici contenuti ad essa veicolati, nel suo contributo la Di Bernardo ritiene che, nel processo canonico, «sebbene l’idea di verità come corrispondenza tra l’accertamento probatorio ed i fatti reali cui la Decisione giudiziale si riferisce costituisca l’accezione tecnicamente più adeguata, tutto questo non esaurisce l’orizzonte ermeneutico entro il quale può dirsi sufficientemente inquadrata l’accezione della verità, ed, in particolar modo, le dinamiche sottese al suo necessario raggiungimento» (p. 311). 
Nonostante si attribuisca un valore euristico alla logica in tutte le fasi processuali e fatta salva la distinzione tra logica dell’argomentazione e logica della scoperta, la Di Bernardo afferma esplicitamente che «nessuna Logica, intesa come tecnica del ragionamento, può fornire in assoluto un modello esaustivo dell’attività espletata dall’Organo giudicante nell’accertamento dei fatti nel Processo [canonico]: ciò in quanto non tutti i procedimenti cognitivi sono ad essa riconducibili e perché la Logica non è in grado di sostituire la funzione “personalistica” del Giudice, espressa attraverso il suo equilibrio personale, nelle doti estimative, in quella speciale sensibilità cristiana ed empatia richiesti per esercitare il munus iudicandi», (p. 328).
La difficoltà incontrata dai giuristi risiede nella considerazione che una norma giuridica può essere definita valida o inefficace, ma non vera o falsa. La problematicità di un approccio puramente estensionale della logica al diritto non permette il superamento di una tale perplessità, e conseguentemente, pur ritenendo valido il carattere euristico della logica, non consente un’applicazione chiara ed esaustiva della stessa alla sfera del diritto. È giusto quindi chiedersi se esiste una logica per il diritto. Se applicare la logica al diritto vuol dire in prima istanza formalizzare i contenuti del linguaggio attraverso una sintassi rigorosa che limiti il più possibile ogni fraintendimento e, in seguito, analizzare il contenuto formalizzato, è pur vero che il diritto a fatica riesce a considerare la norma, in quanto istituente un rapporto tra l’individuo e la società, come riducibile ad un insieme di simboli privi di riferimento al soggetto.  
Come dirimere dunque la questione? Una prima indicazione in merito proviene da uno dei due curatori dell’opera, Paolo Gherri secondo cui «l’affermazione consapevole e decisa di un principio personalistico di questa portata –irrinunciabile in ambito canonico- pone in crisi profonda non solo la quasi totalità delle impostazioni logiche comunemente professare e recepite […], ma anche tutte le concezioni metafisiche incapaci di considerare altro che essenze e/o enti […]. Il problema –prosegue Gherri- è che nonostante la Logica classica (estensionale/vero-funzionale), continui ad essere quella maggiormente referenziata in campo umanistico, poiché ritenuta una corretta interpretazione dei nostri processi di ragionamento, non di meno emergono le oggi le c.d. logiche intensionali. Esse risultano senza dubbio più efficaci dal punto di vista giuridico ed ‘esistenziale’ laddove conoscenza, credenza, obbligo, volontà, caratterizzano l’azione dei singoli soggetti, assoggettandola o meno alle attese/pretese del Diritto» (p. 50).
Ma è proprio all’esigenza personalistica, alla considerazione che «l’irripetibilità di ciascuna persona […] esige la più radicale irriducibilità di ciascuno», (p. 50) e alla constatazione di una logica che non si riduca all’applicazione del semplice sillogismo aristotelico all’ambito giuridico che rispondono i logici, ed in particolare i due contributi di Basti e Galvan sulla logica modale, che evidenziano la ricchezza della logica deontica, intesa come quella parte della logica che «studia il linguaggio delle proposizioni caratterizzate da operatori deontici e le leggi che regolano i rapporti tra di esse» (p. 85). La trattazione sintattica offerta da Galvan, con la quale si dimostrano le principali applicazioni della logica deontica e, in modo particolare, l’analisi della legge di Hume secondo cui «non esiste un nesso di conseguenza logica tra essere e dover essere. Il dover essere è logicamente originario rispetto all’essere» (p. 103) precisando tuttavia che «la legge di Hume non esclude rapporti di conseguenza concettuale, analitica, di tipo contenutistico tra il piano dell’essere è quello del dover essere. Il dover essere è così cooriginario con l’essere» (p. 103), cede il passo al contributo di Basti con cui si mostra la necessità di uscire dalla «costrizione della sola modalità aletica logica e/o ontica, per fruire di altre ‘esternazioni/comunicazioni’ dei processi razionali/mentali umani davvero adatti all’attività giuridica» (p. 418). 
In questa direzione, quindi, si muove la proposta di Basti che propone l’uso delle logiche intensionali applicate al Diritto. Chiariamo subito che le logiche modali sono estensioni della logica classica con ripercussioni importanti sia dal punto di vista sintattico che semantico. Dal punto di vista semantico, esse sono estensioni della semantica classica che mantengono il principio della bivalenza (vero/falso) ma non quello della vero-funzionalità, per cui la verità o la falsità della proposizione composta non risulta dalla verità o falsità delle proposizioni che la compongono. Sintatticamente esse invece sono estensioni della sintassi classica perché ne inglobano i segni del calcolo, ovvero l’alfabeto, e le regole del calcolo, cioè le regole di deduzione. Se fino agli anni ’20 del secolo scorso il punto di riferimento imprescindibile per chiunque volesse studiare la logica era costituito dai Principia di Russell, con lo sviluppo delle cosiddette “logiche non classiche” tra cui la logica modale di Lewis, anche la costruzione logica russelliana inizia a vacillare. Il lavoro di formalizzazione ad opera di D. K. Lewis, dei cinque sistemi di logica modale S1-S5, ottenuta dopo una serrata critica alla nozione di implicazione materiale, sarebbe stata poca cosa senza il corrispettivo compiuto a livello semantico da Saul A. Kripke (Nome e Necessità, Boringhieri, Torino 1980) che nelle tre conferenze tenute a Princeton nel 1970, distinguendo tra verità necessarie e verità contingenti, determina la propria semantica relazionale come un’estensione della semantica modellistica di Tarski per i linguaggi della logica estensionale. L’intuizione di Kripke era abbastanza semplice sul piano teorico: almeno in certi casi il fattore aggiuntivo che interviene nella determinazione delle condizioni di verità di un enunciato modale non è dato solo dal valore reale dell’enunciato di partenza ma anche dal valore di quell’enunciato rispetto a situazioni alternative a quella reale. Pertanto considerando la nozione di “mondo possibile” non più dal punto di vista metafisico, come accade in Leibniz, ma come qualcosa di stipulato, Kripke afferma che: 
1. -        necessariamente p, è vero (nel mondo attuale), se e solo se p è vero in ogni mondo possibile;
2. -        possibilmente p, è vero (nel mondo attuale), se e solo se p è vero in qualche mondo possibile.
La critica di D. K. Lewis ai Principia di Russell, unitamente all’opera di formalizzazione dei sistemi modali, e la semantica relazionale a base modale di Kripke, permettono al lettore moderno di analizzare una delle strutture modali più versatili: dall’unione infatti del sistema KD [D: □α→◊α] che è il sistema deontico minimale, con gli assiomi 4[□α→□□α] e 5[◊α→□◊α] otteniamo il sistema KD45 che è in grado di fornire la struttura sintattico-semantica sia di teorie di logica epistemica, che di logica deontica (per le quali è noto come S5 deontico) ed in particolare della teoria metafisica tommasiana della partecipazione dell’essere come atto (per la quale è noto come S5 ontico). Se dal punto di vista formale la sostituzione  dell’operatore di necessità [□] con quello di obbligo [O] e dell’operatore di possibilità [] con quello di permesso [P], non altera nulla, ciò che cambia è l’interpretazione che di essi possiamo dare perché la relazione di accessibilità deontica che si instaura tra mondi possibili  porta al concetto di mondo possibile inteso come alternativa deontica. Pertanto, dato un mondo di partenza u, sono alternative deontiche di u, tutti quei mondi che costituiscono un perfezionamento di u, ossia rappresentano modalità diverse di realizzazione degli obblighi presenti in u. Tralasciando le analisi dei singoli sistemi appartenenti al gruppo KD, ci basti sapere che siffatti modelli sono basati su strutture di mondi con R seriale e pertanto questo significa che ad ogni mondo corrisponde almeno una sua alternativa deontica: dato un mondo di partenza u, sono alternative deontiche di u tutti quei mondi che costituiscono un perfezionamento di u. Pertanto Oα è vera in u quando α è vera in tutte le alternative deontiche di u; Pα è vera in u, se esiste almeno una alternativa deontica di u in cui è vera α. Quindi porre il dover essere di una cosa significa ammettere almeno una situazione alternativa a quella attuale in cui ciò che deve essere sia.
Al di là del tecnicismo logico di cui si serve Basti nel suo lavoro,  è la necessità di un ritorno all’uomo e alla sua dimensione relazionale, al suo vissuto, ad un diritto che non sia quindi mera applicazione della norma ad imporre che la logica sottesa al diritto stesso non sia  semplice calcolo proposizionale, ma sostegno ad una riflessione che guarda al soggetto nella sua irripetibilità ed unicità, ad un diritto che sia in un certo modo, espressione di una metafisica dell’uomo. Se la filosofia è dunque ricerca della Verità, Iaccarino, nel suo contributo,  intende la logica come strumento del comprendere e, nel suo rapporto col Diritto, la articola quale collegamento tra la dimensione esperienziale umana e tutto il potenziale del suo essere. In questo modo la logica non è un vuoto ragionare e il diritto diventa una «missione di verità da compiere perché ha la possibilità di parlare della persona e alla persona» (p. 331). 
La dimensione ontologica ed esperienziale del vero pone lo specifico compito della filosofia che nasce come consapevolezza del rapporto ontologico, il cui nesso con la verità è totale e la formulazione che se ne dà è personale; il pensiero ontologico è l’unico che permette al pensiero filosofico di essere insieme una filosofia della filosofia, cioè punto di vista critico, consapevole e giustificato sulle molteplicità delle filosofie, e quindi riconoscimento di personalità, alterità e intersoggettività delle prospettive, e filosofia, cioè presa di posizione, ripudio d’una neutralità pseudoscientifica, formulazione personale e responsabile della verità,  (Cfr. R. LONGO, Filosofia e storia nell’ermeneutica ontologico-esistenziale di Luigi Pareyson, in L. MARUSA (a cura di), La trasmissione della Filosofia nella forma storica. Atti del XXIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia, vol. II: Comunicazioni e documenti, Franco Angeli, Milano 1999, p. 196). Il pensare filosofico è quindi espressivo e rivelativo al tempo stesso non perché le singole filosofie siano configurazioni molteplici di un’unica filosofia sovratemporale ma perché esso si alimenta della verità stessa. Il rapporto tra l’uomo e la verità costituisce una relazione che coinvolge il pensiero e la libertà della persona: la verità richiede la comprensione da parte del pensiero ma anche la sua espressione esistenziale tramite la libertà stessa.


Indice

Presentazione
P. Gherri, Logica e Diritto: tra argomentazione e scoperta
C. Cellucci, Logica dell’argomentazione e Logica della scoperta
S. Galvan, Logica deontica e sue applicazioni
G. Basti, Logica aletica, deontica e Ontologia formale: dalla verità ontica all’obbligo deontico
J.M. Serrano Ruiz, Logica decisionale
E. Di Bernardo, Il ruolo della Logica nel contesto probatorio dell’accertamento dei fatti nel Processo canonico
A. Iaccarino, La dimensione agapica della Logica tra interpretazione e applicazione
M. Nacci, I principi generali del Diritto nell’argomentazione canonica: brevi cenni storici
E. Vimercati, Un esempio antico di metodo analitico-assiomatico: il Carmide di Platone
A. Livi, La nuova Logica aletica come metodo critico per una fondazione rigorosa della verità del Diritto
G. Basti- P. Gherri, Logica e Diritto: per un rilancio canonistico
A. Fanella- S. Pavone, Bibliografia ragionata sulla Logica

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