giovedì 29 novembre 2012

Derrida, Jacques, Hélène Cixous, per la vita

Genova-Milano, Marietti, 2012, pp. 192, euro 24, ISBN 978-88-211-8538-0

Recensione di Francesco Tampoia - 16/06/2012

È Derrida il più grande filosofo dopo Heidegger, oppure Derrida è un letterato, un retore, un sofista, uno scrittore autobiografico imbevuto di sterminate letture filosofiche e letterarie, oppure, ancora, il Socrate del XX secolo, un nuovo Socrate, un Socrate che scrive e coinvolge in un  vorticoso flusso eracliteo, ove spesso si sente il bisogno della stabilità parmenidea? Questa la domanda, le domande che alcuni lettori e/o filosofi si pongono alla lettura di alcune pagine derridiane. Il volumetto Hélène Cixous, per la vita conferma che tali interrogativi non sono peregrini.
Per quanto riguarda il titolo, Derrida scrive che nella sua forma non è pubblicabile, è equivoco e provocatorio, può essere anche fuorviante. Ma, cerchiamo di seguirlo per la lunga, interminabile, ininterrotta conferenza-fiume, piena di digressioni, ellissi, parentesi dal Preludio all’Epilogo. La conferenza ruota essenzialmente sul c’est à dire… del titolo francese, omesso nella traduzione italiana.
Hélène Cixtou è una nota scrittrice e poetessa, femminista, drammaturga di lingua francese, connazionale di Derrida. Sin dall’inizio Derrida premette che non sarà dalla parte di Hélène; così facendo si trova nella condizione ideale per dire meglio di lei o di parlarle. Amici di lunga data rappresentano una dis-figura, due figure in uno, due personaggi in due parti diverse, come in una scena l’uno di fronte all’altra. Alzato il sipario, il primo atto, recuperato alla fine, presenta/riguarda il binarismo credere/non credere e il valore del lemma credere “ciò che mi interessa è quello che accade quando faccio precedere “credere” da [questo] congiuntivo (potessi, che io possa, potessimo, poteste credere) che sembra giocare tra il possibile e l’impossibile. La credenza assoluta non è veramente tale, non tende verso quell’estremo che le è proprio, verso l’eskhaton della sua escatologia, se non quando non crede più solo ciò che è possibile e quando è possibile credere” (p. 26). Se si comprende tutta la potenza di significato di questa parola al congiuntivo, credere dovrebbe consistere e risiedere soltanto ‘in una fede impossibile nell’impossibile’. Tra commento e confessione Derrida dice molto dell’amica e della sua opera poetica; dalla lettura del volume Or, les lettres de mon père ri-scopre il potere mediatico delle lettere del padre di lei in cui gli opposti vita/morte sono opposti,  ma anche legati insieme e rovesciati nel gioco di una potenza inaudita che consente al padre di ritornare in vita in forma non fenomenica e spettrale. Insomma, le lettere scritte dal padre, trovate per caso, offrono la continuità tra il morto e i vivi, tra il presente e il passato. Hélène si carica della responsabilità di cor-rispondere allo spettro del padre morto, di corrispondere all’altro. Intesa nel suo complesso, come si conviene, l’opera di Hélène è in senso provocatorio elementare, fa pensare a un insieme di elementi, “in latino elementa sono le lettere, gli atomi letterali della scrittura, gli stoikheia di cui parlano gli atomisti greci, Platone o Aristotele; ma anche i principi, gli elementi delle scienze, e anche, proprio in quanto principi, i quattro elementi che compongono e contengono il tutto dell’essente, della physis o del cosmos, il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria o il soffio psichico, lo spirito o l’anima della vita”(p. 47). Sfogliando Jours de l’an, altro libro di Hélène, riscopro, dice Derrida, la netta differenza tra l’autrice e me: ella è figlia di padre morto, meglio di padri morti, io sono dalla parte di madre vivente. Nella sua finzione è necessario salvare il padre morto, si deve realizzare il rimpiazzo, il taking place, “si salva il padre unico nella misura in cui già un altro padre unico, il padre bis, lo abita” (p. 50). La sostituzione è nello stesso tempo supplemento, crescita.
Più di vent’anni prima con Les Commencements Hélène aveva considerato l’aporia possibile/impossibile, la diffusa paura umana di ammettere la possibilità dell’impossibile, di porre la domanda sulla possibilità dell’impossibile, e la domanda sulla stessa domanda sulla possibilità dell’impossibile. Aveva pensato che l’impossibile, apparentemente il contradittorio del possibile, non è l’opposto del possibile, co-appartine piuttosto alla condizione del possibile (per inciso sappiamo che anche Derrida è appassionato dell’impossibile). Forse la domanda andrebbe girata a Freud, considerato di famiglia, uno zio acquisito che circola nell’opera di Hélène, soprattutto quando si tratta di fare analisi, pronto “a disarcionare in anticipo tutte le psicanalisi ingenue di un’opera autobiografica che si auto-etero analizza come può farlo solo un grande, una grandissima opera presso la quale invito tutti gli psicanalisti del mondo a fare un’analisi.”(p. 55)
Per Hélène vi è solo una parte, quella della vita “La morte, che ignora o misconosce meno di chiunque altro, la morte non è mai negata, certo, alberga ovunque e porta via tutto” (p. 61): è su questo che resta il dualismo tra i due. Lei crede che la morte si possa battere (o vincere) con la vita, ripete che “la vita è intera e non ha due parti, ha solo ed è solo una parte, consta di una sola parte”(p. 62). Lui, Jacques, invece, si sente inchiodato dalla parte della morte. Lei allestisce “la vita come si allestisce una piéce teatrale, ma anche come si issa una vela resuscitando, facendo alzare un morto. Lazzaro, alzati”(p. 62). Lui aspetta dalla parte della morte. Lei crede che “non c’è altra parte che questa parte, la parte della vita… c’è soltanto una costola nel corpo, una costa a cui fissare la partenza e l’arrivo di ciò che arriva, di ciò che accade sulla terra, ed è la vita-dalla vita-la vita da cui tutto parte e si distacca e verso la quale tutto va e ritorna”(p. 64). Lui è convinto che ci deve essere sempre una parte altra.
In francese le tre parole vita, visione, velocità iniziano tutte con la sillaba vi. L’ideologia di Hélène si fonda su queste tre parole. Come la interpreta Hélène la vita è una sorta di potenza potente non nel senso letterale di potere, bensì nel senso augurale di potenzialità, di dynamis. La sua velocità non è solo un certo ritmo della scrittura, la sua vivace destrezza, la vivacità della sua furtiva agilità risiede in una sorta di possa che faccia desiderare, volere, comandare, pregare, esprimere un augurio. Fondata o non fondata, tale possa si basa sulla logica del fantasma e dell’evento. Inseparabile da una poetica dell’evento, è “una potenza performativa inaudita, una potenza del far-dire come far-arrivare/far accadere di cui la teoria degli speech acts non verrà mai a capo e di cui non ha senza dubbio ancora oggettivato la possibilità.”(p. 106) Tale potenza non è più contenuta nel concetto filosofico classico di ‘possibilità’, dynamis, possibilitas, nella modalità tradizionale del possibile o del virtuale. Tale concezione della vita rappresenta tutto ciò che torna e ritorna, la potenza differenziale della vita finita che resta in vita, che si conserva in vita o ritorna alla vita. Tale potenza, infine, ignora sia la morte sia l’immortalità, è fuori del tempo, ha luogo nell’istante. Non è un caso se la parola vita, “la sola parola che possa tener testa all’essere -(tanto che nella gigantografia filosofica, da Platone a Descartes, da Nietzsche a Husserl, Bergson e Heidegger, tra gli altri, la sola grande questione la cui posta resta indecisa sarebbe quella di sapere se bisogna pensare l’essere prima della vita, l’essente prima del vivente o viceversa)-, ebbene, questa parola <<vita>> non sarebbe pensabile nel suo senso, non si potrebbe annunciare prima di ciò che, grammaticalmente, si dà come una preposizione, ovvero <<per>>”(p. 116). In un passo di Sein und Zeit, Heidegger, contro le metafisiche della morte interessate all’aldilà, cioè all’altra parte (Jenseits), ha scritto “che bisogna al contrario, metodologicamente, partire e restare da questa parte qui, dalla parte di questa parte qui, dalla parte del qui del quaggiù (das Diesseits), parte a partire dalla quale soltanto si delinea lo scarto tra das Diesseits e das Jenseits, il Quaggiù e l’Aldilà.”‘(p. 117-8) 
Ad ogni modo, più avanti Derrida precisa che la sua conferenza vuole essere “un poema dell’alleanza, l’evento di questa alleanza poetica, di questo fidanzamento che passa per un pronunciamento quasi muto tra due in cui non si sa più chi parla e chi tace, chi chiama e chi risponde, chi parla in abbondanza e chi, parlando poco dice parole d’oro”(p. 123). Ascoltare, leggere e rileggere, scrivere è per la vita, per tutta la vita. L’intreccio delle parole è simile a una rete, una rete di fili telefonici, un ibrido di oralità e scrittura. Non sono forse gli umani  costituiti di corpo e spirito? Ma, qui lo spirito non è lo spirito in opposizione al corpo, dall’altra parte del corpo, è “un soffio che inoltre sarebbe rapido, come se la velocità fosse un predicato possibile di questo essente che si chiama lo spiritus, il soffio nell’apparecchio telefonico … lo spiritus, il pneuma (e suo padre fu il pneuma fatto uomo) è la velocità, lo spirito è questa velocità, vive velocemente, è dunque anche tecnico, qui telefonico, ma una telefonia che non ha atteso l’invenzione del telefono … Il telefono è un’invenzione poetico-tecnica”(p. 130)
In Or, les lettres de mon père, Hélène ha compiuto una magia, una connivenza con l’impossibile, un’attenta esplorazione, teorica e pratica, che mostra una particolare tecnica letteraria, “la forza performativa della scrittura che salutiamo qui, tutto ciò potrebbe fungere da analizzatore sperimentale dell’efficacia irrecusabile di simili phantasmata, parola greca con la quale ci si riferirebbe qui sia, secondo l’uso stesso di questo termine, ai fantasmi, sia ai sogni e ai loro spettri che ritornano”(p. 138) Hélène crede nella potenza del possa, che questa vita possa essere vissuta, per la vita, senza dare ascolto un’ontologia della vita simile a quella che contrappose Heidegger a tutte le filosofie della vita e a maggior ragione a qualsiasi forma di biologismo. Hélène non ha abbandonato i suoi spettri; richiama i suoi fantasmi, li fa rientrare in una vita per la vita. Non assume posizione sull’essenza dell’essere come vita, il suo concetto di potenza corrisponde a potenza del ‘possa’ senza parte opposta, senza contrario. E la parte opposta, la morte, come accennato in precedenza, non è qui “né misconosciuta né denegata, né evitata, è un grande personaggio di questa letteratura, semplicemente non è un contrario e una parte opposta al vivere, un laggiù o un aldilà.”(p. 145) L’esperienza del telefono e della telepatia sono allo stesso tempo magiche e tecniche, anche cibernetiche. Allo stesso modo dell’opposizione tra fede e sapere, di altre opposizioni, magia e tecnica, oralità e scrittura, ecc. Tutte, senza distinzione, sono potenza. Prima di parlarne è necessario pensare la potenza del pensiero e il pensiero della potenza.
Alla fine, ancora in prima persona, Derrida chiude la conferenza così “vorrei lasciarmi convincere, da lei, della vita preparandomi a ricevere la grazia invece del colpo della grazia, ma sono e resto per la vita convinto di morte (nel senso di convincted e di convinced), convincted, cioè contemporaneamente colpevole e accusato, riconosciuto colpevole, prigioniero o detenuto dopo un verdetto, in questo caso di morte.  Il fatto è che non riesco a crederle, per quanto concerne la vita la morte da una parte (al)l’altra. Non riesco a crederle quando parla al congiuntivo”(p. 192)
Una risposta, si fa per dire, alla domanda iniziale. Opportunamente Monica Fiorini nella sua introduzione fa riferimento alla lettura Genéses, généalogies, genres et le génie del 2003 che segue cronologicamente il testo Hélène Cixous, per la vita, e ne potrebbe essere il prosieguo.  Indubbiamente la conferenza Hélène Cixous, per la vita riprende key tropes del pensiero di Derrida, e rientra nel novero dei testi auto-biografici riguardanti le relazioni con persone della sua vita. Ma ciò che, a mio avviso, va rilevato è che nelle sue mani l’autobiografia non è soltanto un genere letterario, è un modo di fare filosofia. Qui è in gioco la relazione tra autobiografia e identità, auto ed etero biografia, il rapporto autore-testo, padre figlio, madre figlio, qui siamo ancora una volta di fronte alla derridiana differance.
L’autobiografia è condizione del pensiero e della scrittura, è modello per comprendere la relazione presenza e assenza, oralità e scrittura, naturale, fantastico, artificiale sia che si tratti di interpretare Hegel, sia  Nietzsche, sia Freud. 


Indice

Jacques Derrida lettore di Hélène Cixous di Monica Fiorini

Hélène Cixous, per la vita

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