Mito e modernità sembrano essere due termini assolutamente antitetici: tutto ciò che appartiene alla sfera mitica non può appartenere anche all’ambito del moderno. «Mito e modernità: un rapporto conflittuale e affascinante lega fra loro gli estremi di questa relazione» (p. 7). Il mito rappresenta l’irrazionale e l’istintuale e per questo subì una dura condanna da parte della modernità, in primis dall’Illuminismo, che cercava di rappresentare tutta la realtà alla luce della razionalità. Ma nella Germania preromantica ebbe inizio un nuovo processo di avvicinamento dei due concetti
con la riformulazione di un nuovo tipo di mitologia moderna.
con la riformulazione di un nuovo tipo di mitologia moderna.
In questo testo l’autore, Francesco Forlin, analizza proprio la genesi e la struttura del mito moderno a partire da uno dei grandi autori dell’Idealismo tedesco: F. W. J. Schelling. Il metodo e l’analisi sono molto diretti e schematici così da rendere la lettura piacevole e, soprattutto, comprensibile nonostante la complessità del tema. Nei tre capitoli del testo si analizzano tre scritti del periodo giovanile dell’autore che delineano un ideale percorso di maturazione intorno alla tematica del mito. Gli scritti sono: il saggio Sui miti del 1793; il Più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco scritto di difficile attribuzione ma il cui contributo schellinghiano è sicuramente decisivo (1796-1797); infine le lezioni confluite nella Filosofia dell’Arte (1803-1804).
Il confronto con questi testi è serrato, come dimostrano le frequenti citazioni che aiutano ad entrare nel vivo della tematica svolta dallo stesso Schelling. Volutamente Forlin lascia in secondo piano la bibliografia secondaria, tranne pochi studi fondamentali, al fine di non appesantire troppo il volume. Aiuta molto la fruizione del testo l’aver affiancato alla parte più prettamente teoretica una parte biografica in cui si descrivono i passaggi fondamentali della vita del filosofo tedesco. Pur non potendone ora trattare più diffusamente, la parte biografica, guardata attraverso il ricchissimo epistolario e altre testimonianze coeve, aiuta a capire l’evoluzione dei testi presi in esame e comprenderne la continuità e gli stacchi.
Il primo capitolo, diviso in due parti, chiarisce come l’interesse per il mito sia stato molto precoce in Schelling, affacciatosi già nel periodo di formazione liceale, grazie all’influsso del padre che lo avvia agli studi delle lingue antiche e dell’esegesi biblica. L’anno successivo alla sua tesi dottorale dedicata all’analisi del terzo libro della Genesi appare infatti il saggio Sui miti, suo primo autentico scritto scientifico. Il saggio partendo dalla mitologia biblica veterotestamentaria si sofferma anche sull’analisi del mito moderno, sì che «il percorso del filosofo vada a incrociare quello della nascente filosofia mitica moderna che proprio in quegli anni stava muovendo in Germania i suoi primi passi» (p. 22).
Il punto di partenza del saggio è la convinzione che tutti i documenti dei popoli antichi iniziano con la mitologia che si distingue, fin da subito in storia mitica e filosofia mitica. Schelling attinge questa distinzione dallo scritto di Heyne Temporum mythicorum memoria a corruptelis nonnullis vindicata del 1763. La storia mitica è «quella storia che contiene saghe di un tempo in cui nessun avvenimento veniva ancora annotato per iscritto ma solo tramandato oralmente» (p. 25) mentre la filosofia mitica era la dottrina tramandata oralmente tra le generazioni. Il mito oltre alla divisione in base alla forma (storico o filosofico) si divide anche in base al contenuto (attendibile o meno).
Il mito è per Schelling, a differenza della concezione illuministica, sempre latore di una verità: «la sua verità, che poi è in realtà la verità di sempre, solo colta mediante forme ad essa non perfettamente adeguate» (p. 26).
A questo punto però il filosofo tedesco si distacca dall’analisi di Heyne perché vede nell’evoluzione estetica del mito, la poesia, «un travestimento che rende ostico l’attingimento della sua verità originaria» (p. 31). Più il mito è grezzo più sarà efficace e veritiero. Si vedrà come proprio sul rapporto arte-mito Schelling opererà, nel corso del tempo, una profonda revisione di queste sue idee giovanili.
Oltre all’influsso di Heyne si deve aggiungere il riferimento anche a Herder, il cui maggior lascito nello scritto di Schelling consiste «nell’aver fornito alla filosofia del mito uno sbocco speculativamente più fecondo di quello – pur interessante – dischiuso dalla prospettiva filologica di Heyne» (p. 42). Il punto di vicinanza consiste nel legare il mito alla dimensione primitiva dell’uomo, in cui vive svincolato dall’arte e dall’allegoria, frutti più maturi dell’umanità. Pur in questa vicinanza, l’autore ci avverte però che le differenze sono maggiori, non tanto in rapporto ai concetti ma al loro modo di argomentarli, tanto che il saggio Sui miti si discosta molto dagli esiti herderiani sull’analisi del mito: non si giustifica, ad un’analisi attenta, «l’idea, propria soprattutto di una vetusta ed ormai superata tradizione storiografica tedesca, che l’influenza di Herder sul giovane Schelling sia realmente decisiva» (p. 48).
Vi è un’altra eco del pensiero di Heyne che risuona nello scritto del filosofo tedesco: l’uomo «del mito come uomo “fanciullo” dotato di una razionalità ancora imperfetta – ossia per l’appunto quella che trova espressione nella narrazione mitica – trova largo seguito in Schelling» (p. 51). In Schelling vi è un duplice legame del mito con la natura: da un lato il mito riproduce esteriormente la natura, è una cornice all’esperienza umana, dall’altro, «nel senso più profondo il mito rivela la natura interiore dell’uomo» (p. 52). Ad un momento superficiale segue un’interiorizzazione del carattere mitico che funge da guida per l’umanità, che indichi, in qualche modo, un processo di sviluppo e di evoluzione. Il mito, così inteso, può essere «impiegato al fine del transito dell’umanità verso un più alto livello di coscienza» (p. 54).
Il saggio lascia però aperte due questioni: il soggetto dell’invenzione mitica, cioè l’autore materiale che ideò e organizzò il materiale mitico di un popolo e il medium, cioè il canale attraverso cui l’autore ha catalizzato intorno all’invenzione mitica «il consenso e l’osservanza della comunità cui è rivolta» (p. 57). Tali questioni verranno affrontate da Schelling solo in seguito, cioè «dell’effettivo consenso di cui la mitologia venne fatta oggetto, a tutte le latitudini, in quanto tale, ossia non in quanto ragionamento razionale più o meno dissimulato, ma per come essa stessa si mostra in quanto racconto religioso delle origini» (p. 58).
La seconda parte del capitolo è dedicata agli anni che vanno dalla stesura del saggio Sui miti a quella del Systemprogramm (Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco). In quegli anni (1796-1797) Schelling riflette sia sulla utilizzabilità del mito per fini socio-politici sia sulla stretta relazione che intercorre tra il mito e la natura umana.
Infatti volendo «cercare il tratto più originale che pervade l’intera stesura di Sui miti non si può, in definitiva, che trovarlo nel taglio essenzialmente progettuale dell’interesse per il mito, nella vocazione “pratica” del pensiero schellinghiano che da Sui miti conduce direttamente al Systemprogramm» (p. 62). Ciò che interessa al pensatore tedesco è comprendere la natura sociale che il mito, in quanto voce condivisa di un popolo, porta con sé e rende evidente con un potere di unificazione e identità.
In questi anni nasce anche l’interesse per il pensiero di Fichte, sua guida intellettuale e maestro che lo aiuterà ad ottenere l’insegnamento a Jena, e per Spinoza. Grazie a questi due autori Schelling lascerà gli interessi esegetici e linguistici, di cui il saggio Sui miti è ricco, per dedicarsi completamente alla filosofia.
Prima di trasferirsi a Jena, il giovane Schelling trascorrerà un breve periodo a Lipsia come precettore, in cui lavorò e studiò intensamente. Forlin riassume il lavoro di quegli anni in due punti: «la delineazione, figlia di un’esigenza di leggere la natura come un organismo vivente, di un metodo volto al cogli mento della struttura processuale dell’essere» (p. 69) e l’avvicinamento al mondo romantico che diede modo al giovane filosofo di essere letto e apprezzato anche al di fuori delle Università.
Il secondo capitolo affronta l’analisi del Systemprogramm, quel programma che getta le basi dell’Idealismo tedesco, la cui paternità è condivisa tra Hegel, Hölderlin e Schelling stesso. Pur se interessante ed avvincente, la questione della paternità del testo non investe il punto focale del problema: Schelling, autore o meno di questo scritto, è colui che organicamente continuerà ad approfondire le tematiche espresse nel Systemprogramm. Quindi, come afferma Tilliette, «la questione della paternità del Systemprogramm risulta probabilmente insolubile, anche se la maggior parte degli elementi in esso presenti mantengono aperta una pista che conduce direttamente al Sistema dell’idealismo trascendentale prima ed alla Filosofia dell’Arte poi» (p. 88).
Il terzo capitolo è diviso in due sezioni, la prima affronta gli anni (1798-1802) che prepararono la stesura della Filosofia dell’Arte oggetto, invece, della seconda sezione. Questo periodo vede Schelling trasferirsi da Lipsia a Jena dove stringe amicizie e legami con i rappresentati del romanticismo quali i fratelli Schlegel, Novalis e Schiller.
È il viaggio da Lipsia a Jena, con l’estate passata a Dresda, a segnare, secondo Forlin, un punto fondamentale nella formazione del pensatore tedesco sia dal punto di vista esistenziale che intellettuale, infatti è chiaro che «l’interesse schellinghiano per l’arte affondi le sue radici proprio qui, nelle fortissime impressioni ricevute dalle opere ammirate a Dresda» (p. 112).
Nel periodo jenese molto importante si rivelò l’influenza dei fratelli Schlegel anche se «più che all’erudito August, è però all’estroso e poliedrico Friedrich che bisogna guardare se si vuole comprendere fino in fondo natura e portata del debito schellinghiano» (p. 116). Si deve parlare, tuttavia, di una reciproca influenza, difatti «la piena chiarezza circa i caratteri della mitologia dei moderni emerge soltanto negli scritti schlegeliani risalenti al 1799, vale a dire quando l’influenza fra Schlegel e Schelling aveva ormai cessato di essere a senso unico» (p. 117).
Entrambi i pensatori intraprenderanno un cammino di comprensione del mito moderno: mentre però il più anziano, con il suo Discorso sulla mitologia, intraprende un’analisi prettamente poetica ed espressa nel linguaggio romantico, Schelling, con il Sistema dell’idealismo trascendentale e poi con la Filosofia dell’Arte, approccia il mito moderno secondo i canoni più specificamente filosofici. «[S]i tratta di una via in parte nuova, che affonda le radici per un verso nell’orizzonte di pensiero del Systemprogramm, per l’altro nei nuovi stimoli ricevuti all’interno del circolo romantico, e per un altro verso ancora nelle ragioni dell’evoluzione interna del pensiero schellinghiano» (p. 120).
Forlin indica proprio il Sistema dell’idealismo trascendentale come il tramite tra le analisi esegetiche ed evocative del saggio Sui miti e del Systemprogramm e la concentrazione sul carattere storico e sopraindividuale del processo di formazione della mitologia, la concentrazione, cioè, del carattere filosofico del mito. Altri scritti indicano questo passaggio verso la storia cui si affianca «un certo interessamento di Schelling per la religione» (p. 155), che costituiranno i nuclei su cui la sua riflessione sull’arte si concentrerà. L’arte è un fenomeno necessario di cui il mito moderno esprime appieno il senso, assumendo l’ideale cristiano dell’infinità. Necessarietà ed infinità saranno le due linee guida dell’arte moderna, in cui «sono date le condizioni per una visione completa e totalmente oggettiva dell’arte, anche dell’arte antica» (p. 160).
La seconda sezione analizza l’opera Filosofia dell’Arte in cui convergono le lezioni di Jena del semestre 1802/1803 e quelle di Wüzburg dell’anno successivo. I giudizi su quest’opera da parte dei critici sono indubbiamente divergenti, riconoscendo nell’opera spunti originali e interessanti, quali l’articolo su Dante, ma anche concetti frutto della moda del tempo ed esempi poco originali e trattati sommariamente. Nonostante tutti i limiti dell’opera la Filosofia dell’arte è indubbiamente una delle prime riflessioni sull’arte di Schelling completamente autonoma e scevra dal lascito romantico dello Schlegel.
Per valutare questa opera Forlin spiega che non bisogna staccarla dalla filosofia dell’identità: «la prima considerazione da svolgere al riguardo concerne la necessità di valutare la Filosofia dell’Arte a partire dalla filosofia dell’identità, così da porre in luce sin dall’inizio la sua sistematicità» (p. 166). Infatti il fenomeno artistico viene posto al vertice del sistema, in modo tale da venirne, di fatto, assimilato, per questo si giustifica «la scelta schellinghiana di non dare vita all’ennesima estetica ma a una filosofia dell’arte, il che vuol dire ad una comprensione dell’arte per come questa è in sé» (p. 167).
Se l’arte non si discosta dal progetto filosofico dell’autore tedesco, vuol dire che il discorso estetico e quello sulla natura non sono due direzioni diverse del pensiero ma rispondono ad una stessa volontà sistemica. La «prossimità di Arte e Natura si rivela nel fatto che, per Schelling, esse forniscono risposta alla fondamentale domanda circa la possibilità di ostensione del lato oggettivo dell’Assoluto in quanto ideale e reale al tempo stesso» (p. 168). L’arte assume così la missione di dare compiutezza alla natura, e la mitologia di rappresentarne il punto più alto, tanto che «Schelling rivendica […] di aver posato la pietra angolare per la soluzione poetica della nuova mitologia. Questo vuol dire che egli è l’unico fra gli idealisti ad aver elevato l’idea di una nuova mitologia a momento centrale dell’intera filosofia della natura»(p. 170).
Forlin riassume in quattro punti l’approccio corretto alla Filosofia dell’Arte: innanzitutto distinguere la forma dal contenuto, collocare il testo all’interno della filosofia dell’identità, che l’opera tratta direttamente della natura ed, infine che « l’incontro fra il metodo della filosofia della natura e l’oggetto del fenomeno artistico consente a Schelling di riprendere in mano il discorso del mito moderno, a sua volta luogo di soluzione dell’aporia kantiana del mancato contatto tra libertà e storia» (pp.172-173).
Mito ed arte sono accomunate dalla categoria di interezza, entrambe si concepiscono come «un intero (das Ganze), un Tutto in sé compiuto» (p. 173), anche se espresse in maniera diversa il primo in una maniera filosofica, la seconda estetica. Difatti il «proprium della filosofia è il vero, quello dell’arte il bello. Ciò significa che mentre la prima conosce le potenze o anche le idee, in quanto vere, la seconda le contempla in quanto belle. In aggiunta a ciò, la filosofia si rapporta a un contenuto di pensiero ideale, l’arte ad un contenuto di pensiero reale» (p. 176). La saldatura tra il mito e l’arte si fonda sul parallelo tra le idee e gli dei: le idee sono solo le astrazioni degli dei.
Il mito quindi sarebbe una sorta di archetipo della riflessione sia artistica che filosofica perché incarna sia il canone estetico di bellezza e ordine, che quello filosofico di idealità e, soprattutto, di storia. Tutto questo è reso possibile dal linguaggio simbolico perché solo «il simbolo può godere dell’assoluta priorità estetica spettante alla sintesi fra schema ed allegoria, cifra dell’identità indifferente nella quale consiste l’Assoluto stesso» (p. 186).
Dopo il riconoscimento del mito come sintesi fra arte e filosofia, Schelling riconosce all’interno del mito una grande divisione: mitologia antica e mitologia moderna. Mentre la mitologia antica «si mostra infatti sotto il segno della finitezza (Endlichkeit) e limitazione (Begrenzung)» la mitologia moderna si dispiega nella sua «apertura alla infinitezza e pertanto alla tendenziale illimitatezza» (p. 190). Detto altrimenti, il «mito antico coglie l’Assoluto in guisa di perfezione della compiutezza, cioè nella natura; quello moderno – cristiano – nell’infinito del mondo morale, vale a dire nella storia» (p. 192). Il mito antico quindi ha come riferimento la natura, mentre quello moderno ha come punto focale il trascendente e la religione.
Forlin dedica l’ultima parte del lavoro al saggio specifico della Filosofia dell’Arte dedicato a Dante ripercorrendo lo svolgersi della mitologia moderna attraverso il medioevo, passando per Cervantes e Shakespeare, fino ad arrivare a Goethe.
In conclusione questo lavoro illustra bene la necessità di non dimenticare i primordi della filosofia schellinghiana come prodromi necessari ad una sua comprensione più profonda e globale, ma ha, soprattutto, il merito di vincere la tradizionale separazione, a volte netta e decisa, tra un primo Schelling interamente romantico e dedito alla natura ed un secondo Schelling, tutto preso dalla religione e dalla storia. Proprio la Filosofia dell’Arte potrebbe risultare «un momento di svolta nella vicenda esistenziale e speculativa schellinghiana; un momento di irripetibile armonia ed equilibrio» (p. 217). La lettura del testo di Forlin, da accompagnare magari proprio a quella dei tre testi presi in esame, fa luce sulla questione del mito in Schelling illustrando i suoi risultati indubitabilmente religiosi, di contro alla contemporanea esaltazione del mito, moderno o antico che sia, come modello alternativo al mondo religioso cristiano, e per questo può aiutare a comprendere la lettura del moderno non solo in chiave di rottura con il mondo della Cristianità ma anche in chiave di continuità.
Indice
Introduzione
Parte prima
Alle fonti dell’interesse schellinghiano per il mito
I. Gli anni della formazioni: il periodo tubinghese (1792-1795)
1. Studio delle lingue antiche ed esegesi veterotestamentaria
2. Definizione di mito e distinzione fra storia mitica e filosofia mitica: la lezione di Heyne
2.1. Mito vero versus mito falso: Omero ed Esiodo
3. Il linguaggio del mito: Schelling allievo di Herder?
4. Uomini fanciulli e uomini sapienti: mito, natura umana, tradizione, nomo poiesi
II. Anni di transizione: da Tubinga a Lipsia (1796-1797)
1. Evoluzioni: fra mito e filosofia
2. A Lipsia
Parte seconda
Interludio. L’alba del mito moderno
I. Il Systemprogramm
1. Questioni preliminari
2. Il problema dell’Authorschaft
2.1. Hölderlin?
2.2. Hegel?
2.3. Schelling?
3. Il nodo etico: il ripensamento della Postulatenlhere di Kant
4. Il nodo politico ed estetico: la lezione di Schiller
5. Per una mitologia della ragione
6. Appunti per una conclusione
Parte terza
Il mito moderno nella Filosofia dell’Arte
I. La preparazione (1798-1802)
1. Da Lipsia a Jena
2. L’influenza di Schlegel: crescita ed evoluzione del tema estetico. Verso il mito moderno
3. Destini incrociati: la svolta del 1800
3.1. Poesia, mito e modernità: il Discorso sulla mitologia di Schlegel
3.2. La svolta estetica di Schelling: il Sistema dell’Idealismo Trascendentale
3.3. Verso la Filosofia dell’Arte
II. Mito e modernità nella Filosofia dell’Arte
1. Introduzione. Forma e contenuto di una filosofia dell’arte
2. Mito e Arte
3. Mito antico e mito moderno
4. Dal conte Ugolino a Faust: il percorso del mito moderno
Considerazioni conclusive. La Filosofia dell’Arte e oltre
Bibliografia
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