Il libro di Donatella Di Cesare è una raccolta di riflessioni sui temi principali dell’etica ebraica, quest’ultima definita come “forma di vita” in cui ha preminenza l’attuazione dei precetti, l’assunzione incondizionata della Legge e l’interrogazione meditata della Torah, del Talmud e delle fonti della tradizione. Oltre a discutere tematiche più propriamente morali, il libro accoglie accorate riflessioni sul tema della memoria, della relazione fra le nazioni, del dialogo ebraico-cristiano, della questione femminile e del senso dell’identità ebraica nel mondo contemporaneo,
e si presenta complessivamente come una silloge commentata di etimologie che illustra ed approfondisce il significato di alcune parole capitali. Fra queste, una delle più rilevanti è Shabbat, “sabato”. La parola deriva dalla radice shavàt, che significa “riposare”, “cessare”, “festeggiare”, ma forse la radice sh-v può rimandare anche a “rivolgere”, “invertire” e “sovvertire”. Emerge così il contenuto etico-politico del sabato ebraico, immagine della sospensione dell’attività dinanzi all’Altro e agli altri, denaturalizzazione dell’uomo che si scopre sospeso oltre la necessità naturale e proiettato nella dimensione della libertà e della responsabilità; si tratterebbe, in sostanza, di una radicale rivendicazione di anti-paganesimo: in tempi in cui prevale l’affarismo, la frenesia consumistica, l’iperproduzione, il sabato rimanda all’interruzione del lavoro, ad uno spazio per ritrarsi e concentrarsi, ma anche per creare e disporsi all’altro. Un gesto politico quello del sabato, che ricorda l’uscita dall’Egitto certamente, ma richiama al contempo lo tzimtzum divino, sottrazione o contrazione di sé che fa spazio alla creatura. A sua volta il sabato, il settimo giorno, rimanda ad una moltiplicazione del numero sette, come avviene nello Yovèl, il Giubileo, celebrato prima della distruzione del tempio ogni 49 anni, quasi un’intensificazione o potenziamento dello Shabbat. Nell’anno dello Yovèl le terre erano restituite, i debiti rimessi, gli schiavi liberati. Dinanzi a Dio si deve riconoscere l’espropriazione di tutto, dalla terra ai rapporti di sudditanza costituitisi nel consesso umano. Gesto politico, dunque, fare lo Yovèl, che si posiziona decisamente controcorrente in un mondo, il nostro, che usa l’economia del debito per produrre sempre nuova schiavitù e sottomissione. Estremamente chiare e lapidarie le parole dell’autrice: “…mai come ora emerge con chiarezza che il capitalismo ha danneggiato terribilmente la vita di ciascuno, ha deteriorato nel profondo le relazioni interpersonali.” (p. 44).
e si presenta complessivamente come una silloge commentata di etimologie che illustra ed approfondisce il significato di alcune parole capitali. Fra queste, una delle più rilevanti è Shabbat, “sabato”. La parola deriva dalla radice shavàt, che significa “riposare”, “cessare”, “festeggiare”, ma forse la radice sh-v può rimandare anche a “rivolgere”, “invertire” e “sovvertire”. Emerge così il contenuto etico-politico del sabato ebraico, immagine della sospensione dell’attività dinanzi all’Altro e agli altri, denaturalizzazione dell’uomo che si scopre sospeso oltre la necessità naturale e proiettato nella dimensione della libertà e della responsabilità; si tratterebbe, in sostanza, di una radicale rivendicazione di anti-paganesimo: in tempi in cui prevale l’affarismo, la frenesia consumistica, l’iperproduzione, il sabato rimanda all’interruzione del lavoro, ad uno spazio per ritrarsi e concentrarsi, ma anche per creare e disporsi all’altro. Un gesto politico quello del sabato, che ricorda l’uscita dall’Egitto certamente, ma richiama al contempo lo tzimtzum divino, sottrazione o contrazione di sé che fa spazio alla creatura. A sua volta il sabato, il settimo giorno, rimanda ad una moltiplicazione del numero sette, come avviene nello Yovèl, il Giubileo, celebrato prima della distruzione del tempio ogni 49 anni, quasi un’intensificazione o potenziamento dello Shabbat. Nell’anno dello Yovèl le terre erano restituite, i debiti rimessi, gli schiavi liberati. Dinanzi a Dio si deve riconoscere l’espropriazione di tutto, dalla terra ai rapporti di sudditanza costituitisi nel consesso umano. Gesto politico, dunque, fare lo Yovèl, che si posiziona decisamente controcorrente in un mondo, il nostro, che usa l’economia del debito per produrre sempre nuova schiavitù e sottomissione. Estremamente chiare e lapidarie le parole dell’autrice: “…mai come ora emerge con chiarezza che il capitalismo ha danneggiato terribilmente la vita di ciascuno, ha deteriorato nel profondo le relazioni interpersonali.” (p. 44).
Un’altra parola chiave dell’etica ebraica è attàh, il “tu” che scandisce la preghiera e le benedizioni; le prime due lettere sono alef e tav, la prima e l’ultima dell’alfabeto ebraico, ed indicano l’inizio e la fine, il punto archimedico della creazione. Tra le due, nella parola attàh, compare la lettera he, che aggiunge il soffio alla composizione di alef e tav che insieme indicano il mondo, il tutto della creazione. La parola attàh, “tu”, rimanda così ad un processo di vivificazione del mondo, di spiritualizzazione ed esteriorizzazione, in cui il mondo, in quanto oggetto creato, è posto in comunicazione con l’Altro da sé, diviene, in una parola, soggetto vivente. Il “tu” che rivolgiamo all’altro, è il “tu” della relazione, etica e politica, ma anche economica e religiosa, è il “tu” della libertà che vivifica e sostiene l’interazione umana. Quasi a voler significare che la libertà, non solo quella individuale, in ebraico hofesh, ma soprattutto quella comune, herùt, non è possibile senza il “tu”, senza il riconoscimento di una costitutiva ed ineliminabile alterità, inscritta nel cuore stesso della creazione. La libertà si articola nella relazione con il “tu”, con l’altro, ed assume pertanto la connotazione centrale di essere una libertà responsabile: Kol Israel arevim ze la-ze, “tutti in Israele sono responsabili gli uni per gli altri”, è uno dei principi dell’etica ebraica. La responsabilità per l’altro, ach’raiuth, è al centro della riflessione di eminenti filosofi di origine ebraica come Emmanuel Levinas, Martin Buber, Hannah Arendt ed Hans Jonas, che ne hanno radicalizzato le pretese fino a rappresentare l’intera esistenza umana come infinita responsabilità per l’altro. Commenta molto bene l’autrice: “Nessuno può sostituirmi nella responsabilità che devo assumermi e che è il luogo stesso della mia esistenza. Ma vuol dire anche che io devo assumere sempre una responsabilità in più rispetto all’altro: sono responsabile perfino della sua responsabilità verso di me – en lavadar sof, cioè all’infinito” (p. 31).
Al tema della responsabilità si collega poi quello della giustizia, la tzedakàh. In origine, in particolare nei libri profetici, col significato di “ciò che è giusto”, “diritto”, “conforme ai precetti”, assumerà successivamente, al femminile, il senso di “fedeltà alla promessa”, sia fedeltà di Dio a se stesso, che fedeltà nei confronti di Dio che si realizza nel rispetto del diritto. La parola tzedakàh può tradursi pertanto con “giustizia” o “rettitudine”. Vi è naturalmente distinzione tra rispetto della giustizia e del diritto; pur essendo entrambi forme di rettitudine, il secondo è collegato tipicamente alla scabra osservanza di regole stabilite, mentre la giustizia, e qui sta il suo specifico, penetra nella situazione considerando attenuanti e condizioni soggettive. Insomma, la giustizia è uno sguardo nella miseria umana che diviene giustizia sociale, equità. Questo modo di considerare la giustizia smentisce il vecchio adagio cristiano che vede l’ebraismo fondato sul rispetto della legge e il cristianesimo sull’amore. Con una precisazione importante: nell’ebraismo l’amore che accade “tra noi”, tipicamente tra due persone, è di gran lunga meno rilevante, e direi quasi sospetto, se confrontato con la giustizia. L’amore, il tra noi due, rischia di non far spazio a quel terzo che rappresenta l’elemento spirituale e vivificante, che rappresenta “chi sta fuori”, il povero, lo straniero e il prossimo, che invece sono accolti nella considerazione dello tzadìk, il “giusto”. In questa distinzione risiede anche un senso maggiormente politico. L’amore cristiano conduce tipicamente alla misericordia e alla carità, la giustizia ebraica invece è spinta dall’esigenza di eliminare le radici dell’ineguaglianza, è azione che sovverte l’ordine del mondo per ristabilire l’equilibrio voluto da Dio. Sottolinea polemicamente l’autrice: “Il gesto della carità non ha nulla di rivoluzionario; non interrompe il circolo vizioso della privazione. Al contrario lo ratifica. Il povero che riceve l’offerta non esce dalla sua condizione; vi viene anzi, per certi versi, relegato. La carità rinsalda gli steccati sociali, consolida le barriere economiche. Il ricco resta ricco, il povero resta povero” (p. 53).
La raccolta potrebbe continuare con parole come “straniero”, “martire”, “perdono” e molte altre. L’ultima che vorrei considerare è Shoà. La catastrofe dello sterminio degli ebrei perpetrato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale è evento centrale nella storia dell’Occidente e dell’umanità. Da Auschwitz, assunto quale simbolo del male radicale e dell’odio disumano dei nazisti, non si può tornare indietro, ed anche la filosofia, ormai smarrita, deve trovare nuove mete e nuovi orizzonti. Il riferimento alla Shoà attraversa tutto il libro, e vale come monito e principale capo d’accusa nei confronti della civiltà occidentale che ha partorito Hitler e i suoi “volenterosi carnefici”, civiltà di cui fanno parte anche i critiani, non esenti da responsabilità. Il tema della memoria, infatti, è fatto valere, con una certa vena polemica, contro le presunte dimenticanze della Chiesa Cattolica. Il modo in cui la Chiesa ha trattato il caso di Edith Stein, ebrea convertita al cristianesimo, ma assassinata ad Auschwitz perché di origini ebraiche, poi di recente santificata, testimonierebbe l’arcigna volontà della Chiesa di non voler fare i conti con il passato e con il silenzio mantenuto da Pio XII mentre il male s’impadroniva dell’Europa. Se sul versante del dialogo ebraico-cristiano assistiamo, secondo l’autrice, ad un preoccupante arretramento, desta allarme forse maggiore il ritorno del negazionismo e dell’odio antiebraico che soggiace all’odio nei confronti dello Stato d’Israele. Questo tema è molto delicato, ma decisivo. L’autrice si dimostra critica nei confronti dell’identificazione tra “popolo” e “Stato”, che ha finito per prevalere sul piano storico-politico. La differenza ebraica dovrebbe emergere, non attraverso l’acquisizione di un’identità “nazionale” e “statale”, al pari di quella garantita alle altre nazioni dai confini territoriali, bensì testimoniando l’estraneità del “popolo ebraico” alla terra, e dunque rivelando a tutte le nazioni che in fondo nessuno è autoctono, nessuno è padrone, ma tutti sono ospiti e “stranieri residenti”. “Il popolo ebraico ricorda a sé e agli altri che sulla terra nessuno è autoctono, ma tutti sono ospiti temporanei, ‘stranieri residenti’ (Lev. 20, 23). Rispetto a chi crede di essere radicato sin dall’origine, lo straniero, pur essendo residente, ha un rapporto del tutto diverso con la terra, con l’altro, con se stesso. È questa possibilità aperta di un nuovo abitare che il popolo ebraico è chiamato a testimoniare” (p. 140).
Indice
Al lettore
Un prologo sull'etica ebraica
1. Etica anzitutto
2. Limiti e varchi
3. Interrompere il tempo
4. Ebrei nel mondo globalizzato
5. Metafisica del “sangue” e rifiuto dell'altro
6. Politiche della memoria
7. Teshuvàh per il cristiano
8. Israele e le nazioni
9. Abitare nelle lettere
10. Coniugando al femminile
11. Tikkùn 'olàm. Riparare il mondo
12. Esodo: quel movimento ebraico
Nessun commento:
Posta un commento