Il volume in questione è una raccolta di conversazioni con Roberto Esposito che risalgono agli anni tra il 2006 e il 2012. Due di esse (Il munus da cui siamo esonerati: pensare il comune nell’ambito del bíos [2011]; La comunità come concetto ontologico [2006]) risultano inedite, le altre sono state già pubblicate in differenti riviste argentine, cilene, spagnole, italiane, austriache, americane. L’area di riferimento prevalente è quella di lingua spagnola. La scelta di raccogliere interviste tutte più o meno contemporanee,
che intercettano gli ultimi anni della produzione filosofica del filosofo, comporta una particolare conseguenza filosofica: ritornare più volte sulle categorie fondamentali del lavoro ma ogni volta attraverso un altro sguardo, rispondendo a interrogativi differenti, mettendo in luce le diverse fonti storiografiche che hanno fecondato il percorso teoretico dell’autore.
che intercettano gli ultimi anni della produzione filosofica del filosofo, comporta una particolare conseguenza filosofica: ritornare più volte sulle categorie fondamentali del lavoro ma ogni volta attraverso un altro sguardo, rispondendo a interrogativi differenti, mettendo in luce le diverse fonti storiografiche che hanno fecondato il percorso teoretico dell’autore.
L’ordine delle interviste scelto non è cronologico né geografico, ma del tutto tematico. La prima parte del volume approfondisce i termini della comunità nel suo rapporto con il munus fino all’intreccio più recente che dalla comunità sfocia nel tema dell’immunitas. La seconda parte riparte da quest’ultima questione per approfondirne la funzione biopolitica. La terza parte si occupa più direttamente del rapporto tra filosofia e politica. L’ultima parte è invece una raccolta di interviste dedicate a quella che Esposito definisce più volte, sulla scia di Foucault, una filosofia dell’attualità.
Il primo capitolo della prima parte è intitolato: Il munus da cui siamo esonerati: pensare il comune nell’ambito del bíos. Esso è dedicato in particolar modo al tentativo di uscire dalle categorie della teologia politica attraverso il ricorso ad una prospettiva “metapolitica” (p. 51). L’utilizzo di questo termine – che si deve al riferirsi assai più a Riedel che a Badiou – ha senso nella misura in cui non introduce ad una politica della trascendenza (il limite rimproverato da Esposito in più passaggi a Simone Weil; rimprovero attenuato da dichiarazioni di esplicita consonanza) ma piuttosto ci dirige “verso un piano d’immanenza” (p. 53). Ciò che permetterebbe alla riflessione di tematizzare questo esodo dal lessico teologico-politico – e in particolare dal primato della sovranità (a cui Esposito dedica alcuni passaggi assai interessanti in garbata polemica con Agamben) - è il riferimento ai due dispositivi lessicali dell’immunizzazione e della biopolitica. Queste pagine permettono – riguardo a quelle che rappresentano ovviamente due conquiste celebri dell’avventura filosofica di Esposito – di collocarle con molta chiarezza all’interno di due direzioni metodologiche essenziali. La prima direzione è quella che va dalla storia alla vita. La tensione tra storia e vita attraversa e separa i due principali sistemi totalitaristi del novecento: il nazismo che nella sua essenza è “una forma di biopolitica parossistica rovesciata in senso tanatopolitico” (p. 62) e il comunismo che “di per sé non ha una connotazione biopolitica. Anche se nel comunismo ci possono essere elementi biopolitici, come in tutti i regimi tardo-moderni, esso si rapporta alla categoria di storia e non a quella di vita” (p. 62). Questo passaggio alla vita non si riduce al vitalismo solo grazie al “recupero della categoria di singolarità” (p. 63). La seconda direzione è allora quella che dalla categoria di persona porta alla categoria di singolarità. La persona “si determina sempre nel rapporto di prevalenza e di dominio rispetto a una entità non-personale” (p. 61) e risulta essere, infine, “il dispositivo teologico-politico per eccellenza” (p. 62). La singolarità, al contrario, è ciò che resiste al principio d’individuazione, è “pre-individuale” (p. 57; il riferimento, ricorrente, è a Simondon) e come tale permette di piegare il ricorso all’impersonale verso una biopolitica affermativa. La nozione di singolarità contiene in sé il riferimento a tutte quelle figure dell’eccedenza che Esposito definisce significativamente, con Bataille, “passioni affermative” (p. 56).
Il secondo capitolo della prima parte – La comunità come concetto ontologico – è dedicato alla sintesi di una sorta di “controstoria” della filosofia politica. Questa controstoria si manifesta radicalmente nel passaggio – meglio dire nell’opposizione – tra Hobbes e Bataille. L’opposizione rappresenta alla perfezione il carattere antinomico che attraversa il lessico della comunità. Mentre la teologia politica cerca in tutti i modi di eludere quest’antinomia attraverso il ricorso “ai miti della riappropriazione” (p. 72), Esposito, condensando delle tesi esposte con più agio in Terza persona, propone di ancorare il concetto di comunità all’ambigua costellazione di significati del munus: “l’unico modo di pensare la comunità fuori da queste tendenze regressive è quello di desostanzializzarla attraverso l’idea di munus e di finitezza, ripensando il rapporto tra possibile e impossibile – «la comunità di coloro che non hanno comunità», come scriveva Bataille” (p. 73).
L’intervista successiva – dal titolo L’immunità come soglia – si limita a riassumere quelle che Esposito definisce le “due tesi fondamentali” (p. 80) del suo volume Immunitas. La prima tesi concerne la progressiva estensione del “dispositivo immunitario” che da “esigenza di esenzione o di protezione, originariamente attinente soltanto all’ambito medico e giuridico” è divenuto addirittura “il punto di coagulo, reale e simbolico, dell’intera esperienza comunitaria” (p. 80). La seconda tesi è invece legata all’esito contemporaneo cui è giunta questa estensione. Il dispositivo immunitario finisce così per giungere al limite di una certa soglia oltre il quale “l’immunità, necessaria a proteggere la nostra vita… finisce per negarla” (p. 80). Queste due tesi sono per Esposito fondamentali e persistenti all’interno dell’intero suo percorso. Ma, acutamente, egli sottolinea che vi è una differenziazione tra la sua produzione precedente al volume Communitas e quella ad esso successiva. Questa differenza concerne in modo particolare il “quadro teorico di riferimento” (p. 82). Se all’inizio l’indagine sul dispositivo immunitario aveva un intento prevalentemente “decostruttivo” (p. 82), adesso “si è progressivamente sovrapposta, senza peraltro escluderla o sostituirla del tutto, un’altra movenza di pensiero, di carattere più affermativo, che va nel senso della proposizione di Deleuze secondo cui il compito primario della filosofia è quello di costruire concetti adeguati agli eventi che ci coinvolgono e ci trasformano” (p. 82). Con un’interessante trasposizione dal piano teorico di riferimento alle fonti storiografiche, Esposito chiarisce che a questa differenziazione del quadro teorico corrisponde una messa ai margini di Derrida e del pensiero della decostruzione per privilegiare in modo particolare Foucault e, dietro di lui, Nietzsche e Heidegger.
La seconda parte del volume raccoglie delle interviste che sono prevalentemente dedicate al passaggio, per meglio dire alla soglia tra filosofia e politica. Nella prima brevissima conversazione il tema centrale che emerge è quello dello scarto tra dispositivi sovrani e dispositivi biopolitici. Da un lato infatti l’ambizione della biopolitica è di destabilizzare il lessico teologico-politico, precisamente partendo dal tema della sovranità. D’altro lato però questa destabilizzazione non avviene mai in forma definitiva. I dispositivi biopolitici sono situati all’interno della contingenza teologico-politica. La biopolitica tratta sempre “della relazione tra politica e vita biologica, ma in una forma che conserva un rapporto sempre teso e forte con il regime precedente. La stessa categoria di sovranità, sia da Foucault sia dagli interpreti successivi, è pensata in relazione dialettica, di divergenza e implicazione, con quella della biopolitica” (p. 94). Questa relazione dialettica è ciò che permette di esibire uno dei nuclei essenziali della politica contemporanea, la mutazione tipica del liberalismo della biopolitica in tanatopolitica. Tale mutazione ha, secondo l’autore, tre differenti risposte. Una prima è quella che risale all’esercizio politico del nazionalismo e poi del razzismo, “il canale di passaggio che fa sì che una politica della vita diventi una politica dell’etnia, della razza e infine della morte” (p. 95). Una seconda, di natura teorica, è legata all’idea che quando la vita diventa valore assoluto, essa è disposta a sacrificare altra vita per se stessa. Una terza risposta è invece più propriamente politica e concerne il nesso tra biopolitica e democrazia. Secondo Esposito la democrazia (che qui non coincide per nulla con la democrazia liberale) è ciò che più difficilmente si può contaminare con la biopolitica, poiché l’una si basa sul principio dell’uguaglianza, l’altra su quello della differenza. È il sacrificio della democrazia al liberalismo che ha invece portato all’egemonia dei dispositivi biopolitici. Scrive Esposito a questo proposito: “democrazia e biopolitica per certi versi si oppongono, almeno concettualmente, anche se oggi si può, e anzi si deve, cercare di immaginare qualcosa come una democrazia biopolitica. Invece sia il totalitarismo sia il liberalismo hanno a che vedere con la biopolitica, sia pure in modo diverso: se nel totalitarismo a gestire, comprimere, e a volte sopprimere, la vita è lo Stato, nel liberalismo il padrone della propria vita diventa il singolo individuo” (p. 96).
Nella conversazione successiva – La filosofia contemporanea non può che farsi politica – Esposito chiarisce i termini del suo rapporto di prossimità e distanza con alcuni passaggi del pensiero di Giorgio Agamben. In particolare, secondo Esposito, l’elemento di continuità ha da rintracciarsi nella costante attenzione all’ordine del negativo, senza anticipare le tappe del passaggio da una biopolitica sulla vita ad una biopolitica della vita (che è quello che invece Esposito rimprovera a Negri). L’elemento di distanza consiste invece nel fatto che Agamben interpreta la biopolitica, seguendo Heidegger, in chiave prevalentemente ontologica, mentre per Esposito, sulla scia di Foucault, la biopolitica va intesa prevalentemente in senso genealogico.
La penultima intervista di questa seconda parte approfondisce una questione già sfiorata precedentemente: L’esaurimento del concetto classico di democrazia. Secondo Esposito, infatti, “non viviamo più in regimi classicamente democratici, bensì in regimi post-liberali di tipo biopolitico” (p. 119). La crisi della democrazia è dunque un’occasione per ripensare in forma euristica l’antinomia di democrazia e biopolitica. Solo lavorando su una democrazia biopolitica possiamo infatti non soltanto rivalutare il concetto della democrazia aldilà della sua forma moderna e, infine, del suo esito contraffatto nei regimi post-liberali, ma anche cercare di fare passi avanti nella costruzione di una biopolitica affermativa (cioè una politica della vita) contrapposta ad una biopolitica negativa (una politica sulla vita).
L’ultima conversazione (Aprire un orizzonte su ciò che è negato) è dedicata all’intreccio di filosofia e cinema. Sono due i nuclei tematici più rilevanti. Il primo segnala una certa rarefazione biopolitica all’interno di buona parte del cinema contemporaneo (da Godard a Cronenberg). Questa rarefazione finisce per segnalarci “l’originaria connessione di vita e politica e quindi anche di cinema e politica” (p. 129). Il secondo, invece, si occupa del tema del potere nel cinema, letto in prospettiva biopolitica. Osserva Esposito - riferendosi al film Moloch di Sokurov – che “c’è il tema dell’immagine, ma è molto presente anche quello del corpo e del suo interno (Hitler si lava continuamente le mani, sostenendo che egli non mangia cadaveri di animali). Probabilmente questo atteggiamento si determina laddove il potere, rappresentato come vuoto, si riempie; laddove invece il potere si presenta come assoluto pieno, l’immagine ha un effetto di svuotamento” (p. 138).
La terza parte del volume si apre con una suggestiva ricostruzione delle tappe principali del concetto di persona. Esposito passa in rassegna innanzitutto il concetto cristiano di persona, caratterizzato dal “rapporto asimmetrico che lega antinomicamente unità e separazione” (p. 142). Il diritto romano accentua in modo netto e rigoroso questo carattere asimmetrico della persona cristiana. Nel diritto romano si procede per biforcazioni continue, come se vi fosse “una dialettica continua tra personalizzazione e spersonalizzazione” (p. 143). Ciò vuol dire che “la categoria di persona comprende al proprio interno quella di non-persona” (p. 143). Questa dialettica finisce per sistematizzarsi, successivamente, attraverso il carattere di appropriazione che lega l’io al proprio corpo. Per uscire da questo carattere bisogna evadere dalla categoria della persona: “Solo una cosa può essere proprietà di qualcuno. Potrebbe non essere appropriato, né appropriabile, solamente un corpo umano che non appartenesse al soggetto, ma che fosse esso stesso tale. In questo caso non potremmo dire, come comunemente facciamo, di avere un corpo, ma semmai di esserlo. Perché sia così, bisognerebbe, a mio avviso, pensare la persona nella forma dell’impersonalità” (p. 145). Esposito chiarisce, a tal proposito, quanto sia stato condizionato dal pensiero di Blanchot e di Weil.
Nella conversazione successiva (Una biopolitica affermativa) l’autore esplicita quale sia a suo parere “il compito filosofico della nostra generazione” (p. 157). Esso consiste, innanzitutto, nel riconoscere che non si dà più alcuna possibilità di uscire “dall’orizzonte, simbolico e materiale, della vita” (p. 157) e dai suoi dispositivi biopolitici. Accertata questa irreversibilità, si tratterà allora di trovare forme e pratiche della filosofia e della politica capaci, aldilà della crisi della democrazia e della presunta universalità dei diritti, non più di adoprarsi sulla vita ma di essere al servizio di essa.
Le ultime due interviste (French Teory e Italian Thought e Per una politica dell’immanenza) si occupano di un tema più recente di Esposito, la rinascita d’interesse nei confronti della filosofia italiana (cui il filosofo ha dedicato il volume Pensiero vivente). Esposito giustifica la novità della filosofia italiana per contrapposizione alla tradizione francese. Mentre quest’ultima si è occupata prevalentemente del tema della coscienza e della sovranità statale, la prima si è da sempre esposta all’intreccio tra storia, vita, politica e, così, al cosmopolitismo filosofico. Quest’esposizione ha permesso all’Italian Thought di sviluppare “una tendenza all’esteriorizzazione” (p. 167). Perché questa tendenza potrebbe risultare decisiva per la filosofia contemporanea? Perché, secondo il Nostro, essa ci permette di oltrepassare il modello della filosofia della storia per andare verso una “teoria della crisi storica” (p. 167) che era presente addirittura già in Vico. In questo modo si può provare a praticare insieme biopolitica e geofilosofia, pratica necessaria poiché “un’immagine critica dell’Occidente può venirci solo dal suo esterno” (p. 167).
L’ultima parte del volume raccoglie brevi conversazioni suscitate a partire da argomenti d’attualità. Nella prima conversazione – I filosofi e il presente – Esposito solidarizza con l’esposizione politica di alcuni suoi colleghi (Zizek in particolare), sostenendo la necessità di trovare “un punto d’incontro tra filosofia e politica” (p. 183). Inoltre il filosofo corregge un tema centrale della discussione politica contemporanea (soprattutto italiana), quello della violenza di Stato. Secondo Esposito non c’è reale pericolo di “una reazione incontrollata da parte dello Stato”: “Gli Stati non sono mai stati così deboli come oggi. Il pericolo, semmai, viene dall’ordine economico mondiale e in particolare da una finanza che attraversa gli Stati, ben superiore alla loro forza” (p. 184).
Nella seconda conversazione (Verso un superamento della crisi autoimmunitaria globale) Esposito riprende parzialmente la sua diagnosi - contenuta in Bíos - della crisi contemporanea come “crisi autoimmunitaria”. In particolare viene sottolineata la privazione di esteriorità come carattere decisivo del mondo contemporaneo. Proprio per questo si deve cercare di eludere la profezia di Kojève, che appare meglio di altri aver anticipato il senso profondo della crisi attuale. Essa sarebbe dovuta all’”esaurirsi del negativo dal mondo” (p. 189). Contro questa lenta cancellazione Esposito propone di nuovo l’alleanza tra geofilosofia e biopolitica.
Infine, nell’ultima conversazione (Il rifiuto della rappresentanza) Esposito è invitato a prendere posizione su alcune tra le proposte innovative dal punto di vista sociale e politico oggi in discussione. In primo luogo egli nega al dono la possibilità di rappresentare un paradigma di reale innovazione della struttura sociale, pur manifestando simpatia per la proposta del Movimento Anti-utilitarista. Successivamente l’autore accoglie con entusiasmo alcune proposte – dal reddito di cittadinanza come “diritto di esistere” (p. 200) fino alle reti virtuali come “una realizzazione possibile di relazioni non assoggettate” (p. 201) – che sarebbero, a suo dire, pienamente riconducibili al sistema di una biopolitica affermativa.
In conclusione, questo volume ha i pregi e i difetti che convengono ad una raccolta di conversazioni. Da un lato non apporta alcuna sistematica novità teoretica e, anzi, tende alla ripetizione dei nodi argomentativi. Dall’altro lato, però, la lettura di questo volume è utile per lavorare su alcuni “margini” della filosofia di Esposito, in particolare per comprendere con dovizia e con chiarezza l’itinerario complessivo, i suoi elementi di continuità (da Machiavelli fino alla recente ripresa della filosofia italiana), i suoi elementi di discontinuità (l’abbandono del decostruttivismo per una maggiore attenzione riservata alla biopolitica), le prese di distanza e le approssimazioni rispetto ad alcuni maestri del pensiero (Heidegger e Derrida da un lato, Spinoza, Foucault dall’altro). Infine, mi pare che anche in queste pagine emerga come il nodo che resta ancora irrisolto (o meglio: da risolvere) è quello di una più estesa e organica delineazione della biopolitica affermativa. Questo volume restituisce con ottima evidenza, a mio avviso, quanto Esposito non solo ci tenga a tale delineazione, ma anche quanto ormai i suoi sforzi siano avanzati nel tentativo di strutturare in forma definitiva questa svolta del suo percorso. E rende anche il lettore curioso di sapere come andrà a finire.
Indice
Fonti delle interviste
Introduzione: Roberto Esposito nell’ambito del pensiero politico contemporaneo: una lettura attraverso le interviste, di Matías Leandro Saidel
Termini della comunità
Il munus da cui non siamo esonerati: pensare il comune nell’ambito del bíos
La comunità come concetto ontologico
L’immunità come soglia
Variazioni sul bíos
Biopolitica e filosofia
La filosofia contemporanea non può che farsi politica
L’esaurimento del concetto classico di democrazia
“Aprire un orizzonte su ciò che è negato». Conversazione sul cinema con Roberto Esposito
Per una politica dell’immanenza e dell’impersonale
Politiche della vita sul margine dell’impersonale
Una biopolitica affermativa
French Theory and Italian Thought
Per una politica dell’immanenza
Interventi sull’attualità
I filosofi e il presente
Verso un superamento della crisi autoimmunitaria globale
Il rifiuto della rappresentanza. Filosofia e politica dell’impersonale
Bibliografia minima di Roberto Esposito
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