Com'è possibile raggruppare dei fagioli secondo determinati criteri e distinguerli così da quelli che rimangono?
Cos'hanno in comune dei segmenti di retta le cui lunghezze siano potenze negative di 2 e un gavagai?
Cosa c'è di strano nell'affermare che «L'enunciato “Napoli è a sud di Milano” corrisponde ai fatti»?
Per quanto le precedenti domande possano apparire balzane, sconnesse o addirittura sardoniche, La sentenza di Isacco provvederà a fornire risposte assolutamente convincenti e soddisfacenti. In ogni caso, il lettore dovrebbe rincuorarsi al sapere di non aver sbagliato libro e lasciar da parte lo stupore: ciò che preme a Paolo Valore è davvero svolgere una ricerca con l'obbiettivo di comprendere cosa (non) sia il concetto di verità.
Al pari delle domande, sembrerà altrettanto strano che un testo il cui compito è “dire la verità senza essere realisti” si trasformi ben presto (addirittura già nel “Prologo”) in una discussione più critica che costruttiva, che si ripropone di dire ciò che la verità non è e non ciò che è. Tuttavia, come avverte l'Autore, principale oggetto dell'indagine è l'analisi di posizioni insoddisfacenti intorno all'idea corrispondentista che la verità consista nell'accordo con la realtà.
È in questo senso che la figura di Isacco Israeli Ben Solomon diviene punto di riferimento per le argomentazioni di Valore: medico egiziano, autore di un testo sulle urine e (almeno a detta di Maimonide) incompetente in campo filosofico, secondo Tommaso d'Aquino Isacco avrebbe per primo definito la verità come adaequatio rei et intellectus. Così, da questa definizione formale, la ricerca si incammina verso la discussione dei problemi più generali legati alla teoria della corrispondenza. Questa, infatti, pretende di risolvere il concetto di verità superando i semplici confini del dominio formale della logica per addentrarsi nell'extra-logico e consentire «di discriminare tra le proposizioni ben formate non contraddittorie, ciò che di fatto si trova ad essere vero» (p. 40).
Ad ogni modo, per comprendere fino in fondo le ragioni delle critiche di Valore, va tenuta in conto l'avvertenza preliminare contenuta nella “Nota” al libro: vale a dire, che tutte le osservazioni dipendono dall'assunzione di un punto di vista ben preciso, legato ad una certa interpretazione del programma trascendentale kantiano. A tal proposito, un'osservazione che non è presente nel libro ma che pare significativa: l'esempio dei fagioli di James ripreso da Putnam (al quale si è accennato nelle prime domande), oltre ad essere un chiaro rimando al concetto fregeano di “somiglianza di famiglia”, ricorda senza alcun dubbio il famoso gruppo di oggetti rossi, succosi e commestibili in cui Lotze invita a raccogliere, dimostrandone l'invalidità ai fini della comprensione, ciliegie e carne. Guarda caso, in Substanzbegriff und Funktionsbegriff Cassirer riprende quell'argomento e dimostra qualcosa di simile alle idea di Valore che «la somiglianza tra fagioli [o la differenza fra una bistecca ed una ciliegia] dipende dal criterio che scegliamo di adottare. Purtroppo, nel caso dell'adaequatio, non possiamo stabilire un criterio a priori di somiglianza rappresentazione-realtà [..]. Ma, senza criterio, come è possibile dire che la rappresentazione “riproduca” in qualche modo la realtà, ovvero sia simile [..] ad essa?» (p. 104).
Un discorso simile, mutatis mutandis, potrebbe essere svolto anche nel caso della seconda questione indicata precedentemente. Si considerino le teorie T1 e T2, riferite al Mondo M; si assuma che il principio che determina il criterio di corrispondenza medesima sia indipendente rispetto al portatore di verità (così come implica la teoria corrispondentista); l'analisi di Valore mostra che la conseguenza di tale posizione è l'inintellegibilità del modello descrittivo del Mondo. Non solo: non essendo possibile ricostruire la relazione di corrispondenza se non secondo la completezza e la coerenza del modello, ne segue che la traducibilità di una teoria nell'altra può non essere equivalente. In questo modo, insomma, si dovrebbe «complicare nuovamente il modello, aggiungendo che non soltanto c'è più di un linguaggio corretto che funziona ma c'è anche più di un modo corretto di applicare un singolo linguaggio al Mondo» (pp. 110-111).
Così come potrebbero esistere differenti criteri per raggruppare i fagioli, possono addirittura esistere modelli plausibili che non riconoscono i fagioli come oggetti. In altre parole: nel descrivere un mondo M costituito solamente da una linea retta, T1 e T2 potrebbero ricorrere ai concetti di punto o di segmento. Ecco quindi cosa hanno in comune dei segmenti di retta le cui lunghezze siano potenze negative di 2 e un gavagai: riducendo il Mondo ad una dimensione noumenica sensu kantiano, non si può nemmeno essere certi che la traduzione degli oggetti di T1 in T2 sia conforme alla realtà che si vuole descrivere.
Potrà facilmente essere obiettato che il caso del mondo M costituito da una linea retta sia una semplice astrazione, un deus ex machina costruito per mostrare la fallacia di un certo approccio corrispondentista. La verità, può essere sostenuto, non appartiene soltanto ai filosofi: è una nozione familiare, e una buona teoria non dovrebbe limitarsi a prenderne in esame un aspetto particolare.
Tuttavia, dopo aver individuato almeno quattro differenti significati della nozione di verità (come autenticità, come pienezza di senso, come protoenunciato, come adeguatezza), Valore avverte che l'indagine si occupa solamente dell'ultima accezione: al filosofo non compete infatti sapere cosa è vero e cosa non lo è, bensì comprendere cosa significhi essere vero, cioè «cosa comporti per una credenza vera il fatto di essere vera e che differenza ci sia tra una credenza [..] e una credenza vera, cioè una credenza adeguata» (p. 14).
Sebbene insomma Valore abbia già in parte risposto all'obiezione, è pur vero che il richiamo ai fatti non è soltanto una genuina ingenuità del senso comune. Si pensi ad esempio alla riproposizione dello schema aristotelico in funzione realista a cui ricorrono Moore e Russell, secondo cui «una credenza è vera se c'è un fatto cui essa corrisponde, falsa altrimenti» (p. 90): intuitivamente, non vi sarebbe alcun problema ad accettare. ad esempio, che l'enunciato “Napoli è a sud di Milano” è vero se e solo se Napoli è a sud di Milano.
Ma si provi, come invita l'Autore, a riflettere sul concetto di fatto: si tratta di una nozione chiara? Nominalismo e realismo assumono tale termine con lo stesso significato? Il concetto di fatto equivale a quello più neutro di realtà? Discutendo tali questioni, l'analisi di Valore si sviluppa secondo due direzioni ben precise: in primo luogo, dopo aver fornito il lettore degli strumenti necessari per incamminarsi verso la riflessione logica sul concetto di verità (vale a dire discutendo le nozioni di simbolo, immagine, segno, quantificatore, nesso, analiticità e sinteticità, paradosso, contraddizione e contrario), riprende le analisi svolte nel quarto capitolo intorno all'intervento di Tarski. L'obbiettivo di questa prima serie argomentativa è infatti dimostrare che, per quanto il corrispondentista si appelli (erroneamente) alla teoria semantica di Tarski, non riuscirebbe a trovarvi come assunzione primitiva il riferimento a elementi extra-linguistici o extra-logici. In questo modo, seguendo un'interpretazione più secondo lo spirito che secondo la lettera, Valore dimostra che la dottrina tarskiana non convalida affatto la teoria della corrispondenza: d'altronde, «il fatto che Tarski intendesse rendere ragione della concezione aristotelica non dovrebbe contare come un argomento per valutare se la sua definizione è o meno un esempio di corrispondenza e, soprattutto, se egli sia riuscito o meno nel suo proposito “filosofico”» (p. 91n.). Preso atto che «l'idea della corrispondenza può rinunciare al supporto di Tarski, e ciononostante vantare le pretese filosofiche che l'hanno caratterizzata fin dal suo esordio» (p. 95), la seconda strategia argomentativa intende dimostrare la contraddittorietà del ricorso all'ambito fattuale. Considerando due enunciati qualsiasi, è chiaro che il fatto corrispondente alla verità del primo è diverso da quella del secondo. Cosicché, la corrispondenza deve assumere la forma “enunciato-fatto”. Valore si preoccupa pertanto di fornire un'esposizione semplificata dell'argomento della fionda (o del Grande Fatto) per concludere che, in verità, un enunciato non può corrispondere a un fatto senza con questo corrispondere a tutti i fatti: «ogni volta che un enunciato corrisponde al fatto descritto da un'espressione che ha la forma “il fatto che p”, allora esso corrisponde al fatto descritto da “il fatto che q”, se p e q sono enunciati equivalenti dal punto di vista logico oppure se un termine singolare è stato rimpiazzato da un altro termine singolare che ha la medesima estensione» (p. 97).
Secondo Valore, insomma, gli argomenti del regresso all'infinito, dell'impossibilità di decidere per un criterio, della inconoscibilità del mondo, della non necessaria relazione fra corrispondentismo e teoria semantica della verità e, infine, quello del Grande Fatto, costringono alla scelta fra due posizioni filosofiche. Si potrebbe, da un lato, accettare che la verità del portatore di verità dipenda da un fattore di verità indipendente. Questa strada, tuttavia, porterebbe alla conseguenza che «per salvare la adaequatio ci troviamo costretti ad ammettere di non possedere, in principio, un criterio di verità. Dato che non si dà accesso indipendente, la corrispondenza diventa una posizione vuota, che non consente in alcun modo di determinare tra ciò che è vero e ciò che non lo è» (p. 107). Insomma, mantenere in vita la teoria corrispondentista equivarrebbe ad assumere una posizione di scetticismo radicale: ha davvero senso? D'altro canto, si potrebbe abbandonare definitivamente la definizione di verità in termini di corrispondenza: «Non si tratta di una gran perdita, a dire il vero. Quel che, in chiusura, può essere necessario sottolineare è che possiamo tranquillamente continuare a usare “verità” e “vero” senza necessariamente postulare una corrispondenza di qualche tipo con una res extralinguistica e/o extramentale» (p. 111).
Per chiudere: come si può evincere dai riferimenti, nella sua analisi l'Autore fa riferimento a un numero considerevole di pensatori e dottrine, rendendo il volume estremamente ricco oltre che decisamente interessante. Aristotele, Agostino, Kant, Frege, Moore, Russell, Tarski, Davidson, Quine, Gödel, Putnam sono soltanto alcuni degli interlocutori di Paolo Valore, la cui intenzione rimane comunque dibattere sempre con la voce fuori campo del realista Isacco.
Che l'argomentazione giunga, attraverso un cammino differente, al medesimo risultato ottenuto da Kant (e dalla scuola di Marburgo) – vale a dire, che il problema della verità è il problema della realtà, ma entrambi sfociano nel (e dipendono dal) problema del significato – non indebolisce la rilevanza dell'intervento dell'autore, anzi. La sentenza di Isacco. Come dire la verità senza essere realisti è davvero un libro di valore.
Indice
Prologo
Nota
1. Noli quaerere
1.1 Una nozione familiare e sfuggente
1.2 La domanda di Pilato e i limiti del filosofo
1.3 La competenza minimale
1.4 Tutta la verità
1.5 Nient'altro che la verità
1.6 Struttura e scopo della presente indagine
2. I cretesi? Brava gente
2.1 Paolo di Tarso e un paradosso apparente
2.2 L'essenza della verità?
2.3 Ciò che è contrario e ciò che è contraddittorio
2.4 Epidemide mente
2.5 Paradossi autentici
2.6 Sintesi
3. L'intelletto e la cosa
3.1 I requisiti di una teoria della corrispondenza
3.2 Simboli, segni, immagini
3.3 Adaequatio rei et intellectus
3.4 La riproduzione dei nessi di congiunzione
3.5 Un'altra verità...
3.6 ...non necessariamente distinta
3.7 Sintesi
4. Dire la verità
4.1 La concezione semantica
4.2 Perché semantica? (1)
4.3 Di nuovo l'antinomia del mentitore
4.4 Perché semantica? (2)
4.5 Sintesi
5. I problemi della concezione semantica
5.1 Obiezioni e risposte
5.2 L'equivalenza estensionale
5.3 L'irruzione empirica
5.4 Tesi di equivalenza e corrispondenza ai fatti
5.5 Sintesi
6. I problemi della teoria della corrispondenza
6.1 Il Grande Fatto
6.2 Il criterio
6.3 Coincidenza e regresso all'infinito
6.4 L'eccedenza
6.5 L'accesso indipendente
6.6 Il Mondo
6.7 Sintesi
2 commenti:
Da Indice accluso in recensione, trapela umorismo e da riferirne a solo stesso indice, basta per intuire - possibilmente, a chi possibile intuizione - esito nichilista di pensiero in pubblicazione recensita stessa.
Ironia finale di recensore va a vuoto, sia perché non se ne trova un senso, di scherzosità annichilente in finir di essa, se si intende scopo del nichilismo tematico in pubblicazione stessa, sia perché scherzo non è bello dato cognome di autore e soprattutto perché sottinteso, non solo sottintendibile, tono scherzoso di recensore, allontana dal comprendere che davvero anticorrispondentismo è logicamente una affermazione razionale riferibile a schemi di base costituiti da relazioni e rapporti di valori tra valori, di valore a valore, di valori con valore, di valore per valori.
Esso dunque, anticorrispondentismo, è una confutazione della funzione avvalorativa del corrispondere di verità a realtà.
Tuttavia, appunto, tale confutazione a sua volta ha propria riferibilità limitata, a divenire entro cui ritorni dello stesso non a divenire del medesimo cui esistere in quanto tale...
Difatti, non sempre si dice il vero per avvalorare.
Senza dubbio una vicenda di pensiero antico-medioevale-moderno aveva – da principio di non contraddizione a principio di individuazione a principio pratico – elaborato una teoria non intellettuale di pensabilità intellettuale necessitando intervento di filosofia ed aggiornata, per evitare disorganizzazione culturali e non solo culturali. Forma negativa ne è stato ed in parte ne è, anticorrispondentismo; forma positiva: intuitivismo... Questa ultima resta affermazione filosofica psichica che offre chiave di senso non solo mentale per successione di ordetti tre principi logici, mentre anticorrispondentismo resta negazione utile a difendere essi tre da erranze ad essi inerenti, da esterno o interno di razionalità, che è culturalità e storicità, di essi tre stessi.
...Ma medesima vicenda era più significante dei tempi storici coinvoltine, tanto che formulazione completa di intuitivismo poteva accadere in ulteriore temporalità storica, invece forma lìmitata negativa era di termini epocali cui terminare del negato stesso e pure del suo differente ed opposto.
In storia di Occidente e di Ovest, tal termine era stato impresso da Est contrapposto in Guerra Fredda, militare economica, cui Oriente non in intero blocco nemico; col suscitare negazione in fatalità esiziale, determinata da intrusione criminale stalinista e da coincidenze sfortunate; cui dal blocco occidentale, ugualmente non totalità in blocco, v'era 'apertura di nuovi tempi', in certi accadimenti creativa in stessa politica culturale. Da ciò, teorie filosofiche postmoderne della intuizione...
Ma cosa determinatamente si negava e poi cosa si affermava determinatamente? Si negava un principio non solo non contraddittorio ma anche di storia non contraddicibile, cui non era vera assolutezza e cui non contraddizione limitata e provvisoria e relative individuazioni pure e cui pratiche conseguenti troppo poco durevoli e troppo confinate; si affermava vera assolutezza e vere incontraddittorietà di base a partire da individuazioni successive cui assolutezza precedente solo intuita e cui razionalità programmatica non effettiva e dunque per pratica da iniziare ancora; ciò accaduto con postmodernità.
Forma esclusiva di negazione, di anticorrispondentismo cioè esclusivo, era obsoleta poi inservibile poi passata quindi non più realtà effettivamente tale, dopoché autore (recensito) né 'annotava' contenuto non indipendente e non solo interno. Dato che terminarsi epocali non in un sol tempo ed ancora in atto anche se non determinanti e comunque importanti - recensione, per non definitorietà ma definitezza e non precisazione di quale esito positivo in nullità, sia di esistenza singola o realtà lìmitata, non rendeva, in ogni caso, giustizia a lavoro recensito, né per un futuro ne dava -neppure per nostro.
MAURO PASTORE
Procedo a valutare, a discettare, circa particolarità recensive e non solo:
Pezzettini di prosciutto e ciliege son classificabili non ad intuizione ma ad intelletto rispettivamente quali frutto di opera e frutto di natura. In tal senso trovasi corrispondenza di cosa ed intelletto, purché se ne riferisca a divenire non naturale ed a presente non innaturale.
Per un medico del medioevo arabo e di ebraismo era annoverabile precettistica iginenista non filosofica solo popolare neanche di filosofia spicciola, far notare a gente malsana opportunità di non sputare prosciutto a torto e solo polveri e non dove ciliege... Novero così non era per corso filosofico occidentale né per chi di altra storia naturale; era utile per nuovi inurbati e molto civili, tra cui ebrei e giudei, per i quali erano impensabili pochezze civili europee ma pur sempre destinazioni ma provvisorie o precarie, per cui non si voleva rinunciare a cognizioni civili non integrabili da non voler cambiare in altre e cui difficoltà diverse dagli altri.
Per medioevali non in episodi di esso ma in Evo stesso, aveva senso accomunare ciliege diverse perché non si era certi che non se ne trovasse poi una eguale a entrambe, in trasformazioni naturali verso Modernità; ma non aveva senso che questione intellettuale evitasse di sùbito prendere pezzetti di carne rossa seccati ai bordi di un sentiero, poiché forte divenire ambientale favoriva prosciuttificazione di resti di carni commestibili (non bistecchificazione!!) .
La Modernità non è più criterio determinante unico di discernimento; perciò risultano sue pensabilità concettualizzabili o da concettualizzare in interezza o interamente.
MAURO PASTORE
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