lunedì 16 settembre 2013

Lotti, Brunello, L’iperbole del dubbio. Lo scetticismo cartesiano nella filosofia inglese tra Sei e Settecento

Le Lettere, Firenze 2011, pp. 376, euro 35, ISBN 9788860873866.

Recensione di Antonio Allegra – 10/3/2013

È noto che l’impatto del pensiero di Descartes nelle isole britanniche fu assolutamente consistente, e per certi versi decisivo per lo sviluppo successivo di quella tradizione filosofica. Il libro di Lotti ricostruisce in maniera chiara e dettagliata, anzitutto in senso storico, tale impatto, dalle figure celebri (Hobbes o Locke) ad altre che lo sono assai meno (Sergeant o Stillingfleet) o sono rimaste quasi ignote (Howard o Baxter); e così facendo riprende e rivivifica una tradizione di studi italiani sull’argomento, 

che trova un riferimento classico nelle ricerche di Arrigo Pacchi di qualche decennio fa.
La scelta di utilizzare il tema dello scetticismo è assolutamente opportuna – in realtà è l’esito del ruolo dominante che ha l’istanza epistemica da un lato entro la recezione cartesiana, dall’altro entro la discussione filosofica di lingua inglese di quel periodo. È  vero che l’accezione del dubbio, nel contesto britannico, è tendenzialmente moderata, zetetica anziché iperbolica, e risente di vincoli teologici che Descartes, almeno nelle sue non casualmente ambigue formulazioni, vorrebbe mettere da parte; ma il problema della conoscenza è talmente dibattuto nella cultura britannica che il confronto con la posizione cartesiana fa pietra di paragone.  Detto altrimenti, da Hobbes a Locke e a Hume, su cui si conclude non a caso il volume in esame, la sfida scettica rappresenta una chiave entro cui l’opera di Descartes  è riferimento ineludibile proprio nella misura della propria radicalità iperbolica, che funge da provocazione date le sue scottanti risonanze teologiche.
La completezza della ricostruzione di Lotti offre un panorama molto utile del tema, e al tempo stesso permette di correggere a più riprese altre ricostruzioni anche assai importanti (ad esempio, quella di Popkin), e più in  particolare di mostrare le motivazioni peculiari della comprensione (o incomprensione) nei confronti di Descartes. Non è da sottovalutare quanto la posizione cartesiana fosse nuova, almeno nella torsione data ad elementi che pur trovavano nella tradizione precisi antecedenti, e dunque si prestasse ad essere almeno parzialmente fraintesa.
Nell’impossibilità di delineare le singoli posizioni sviscerate nel volume, mi limito a ripercorrerne alcuni tappe (si veda l’indice più sotto per una chiara indicazione del percorso compiuto). Nel caso di Hobbes Lotti ricorda, tra altri aspetti delle sue obiezioni alle Meditazioni, che la stessa celebre argomentazione incentrata sulla materialità del soggetto del cogito dipende dal “tropo scettico del rimando all’infinito” (p. 36): lo scetticismo così, sia pure in una versione di ascendenza tradizionale, è fatto agire contro Descartes, invalidando la sua pretesa di averne addomesticato gli esiti e anzi di averlo utilizzato per una ricostruzione epistemica (e metafisica). Lotti non manca di notare tuttavia che tra posizione scettica da un lato e affermazione della materialità dall’altro vi è uno iato che Hobbes attraversa, rinunciando così alla problematizzazione legittimamente adoperata contro Descartes. È rilevante, al fine di precisare uno scenario generale, che Hobbes richiami nelle sue obiezioni osservazioni compiute anche da altri (Mersenne soprattutto), ove le problematiche scettiche venivano già individuate e colte nelle loro ricadute teologiche. Ma è ancora più significativo che in De Corpore (II, VII, 1) l’autore inglese formuli un’ipotesi annichilatoria, di sapore indubbiamente cartesiano, che indica la pregnanza della problematica scettica nella cultura di cui entrambi gli autori fanno parte. Tuttavia Lotti mostra con grande chiarezza, entro questa analogia per così dire “ambientale”, la diversità irriducibile, metodicamente-metafisicamente motivata, tra i due autori. 
Quanto ai cosiddetti platonici di Cambridge, si tratta come è noto di uno dei vettori fondamentali della recezione cartesiana; ma il tema scettico appare peculiarmente difforme dalla loro prospettiva, perché la fiducia nella ragione è il vero filo conduttore delle loro variegate posizioni, e il senso di tale fiducia è radicalmente diverso da quello che anche Descartes, a suo modo, certamente nutre. Mentre per Descartes, almeno de jure, si deve trattare di un esito metodico-epistemico, per i platonici esso è soprattutto un presupposto teologico-metafisico che rende radicalmente improponibile l’ipotesi (precisamente iperbolica) dell’inganno divino che Descartes imbastisce (e da cui in seguito non fuoriesce con chiarezza, ad avviso dei critici). Questi presupposti si mostrano specialmente nella posizione di More, e contribuiscono a spiegarne la tormentata traiettoria, di entusiastica accettazione e  poi di netta divergenza, rispetto alle tesi di Descartes. Inoltre, anche grazie ad osservazioni mosse da Cudworth, il nesso di scetticismo e volontarismo divino, che rappresenta un celebre topos delle discussioni sul cartesianesimo, è chiaramente individuato e messo sotto accusa da parte dei platonici.
Joseph Glanvill rappresenta un’altra posizione ancora e un’altra possibile interpretazione della scepsi, ricondotta a termini empiristici e scientifici, “ipotetitistici”, all’interno della cultura della Royal Society.  In qualche modo lo scetticismo glanvilliano, di tipo tecnico e puntuale, è finalizzato ad una polemica antidogmatica che certo può trovare nelle formule più popolari di Descartes un’indubbia, ma superficiale, consonanza. 
Già da questi cenni appare che la questione dello scetticismo cartesiano rappresenta, per sua natura, anche una maniera di focalizzare alcuni degli snodi delle ricche controversie dell’epoca. La questione dello statuto della conoscenza scientifica; la lettura che la tradizione platonica (da parte sua non omogenea al proprio interno) dava del cartesianesimo; o le notevoli e tutt’altro che stanche polemiche riproposte da parte di sostenitori dell’aristotelismo nient’affatto ingenui come Sergeant o Lee: tutto ciò accende nuclei speculativi intrecciati reciprocamente e con il tema scettico generale. È merito consistente del volume, proprio grazie alla ricchezza e precisione della ricostruzione, che le posizioni dei grandi vengano ricondotte a questo fittissimo tessuto di polemiche e interpretazioni, talvolta nutrite anche di motivazioni “nazionali” in fieri, che costituiscono uno dei più vivi capitoli di controversie filosofiche in un epoca che di tali controversie si nutriva. Ad esempio, la riflessione di Locke acquista maggior chiarezza, in parte contrastiva, nella misura in cui viene inquadrata non solo rispetto a Descartes ma nel quadro della recezione in corso dell’autore francese; lo stesso vale per Berkeley come per Hume.
In effetti la posizione di Locke, sempre tendenzialmente il frutto di una sedimentazione tematica piuttosto stratificata, mostra chiaramente il proprio debito con la discussione precedente: “Locke nega validità allo scetticismo integrale e non prende in considerazione lo scetticismo iperbolico; 2. Locke adotta una scepsi positiva e costruttiva come metodo di indagine (scepsi zetetica); 3. Locke accoglie conclusioni scettiche per quanto riguarda i limiti effettivi della conoscenza, ma questo scetticismo, relativo ai contenuti del sapere, non intacca l’affidabilità naturale, teologicamente garantita, delle facoltà” (p. 221). Il punto è davvero rivelante, perché da Locke la way of ideas si trovò ad avere a che fare con accuse di inevitabili esiti scettici, che finivano con coinvolgere anche il precedente cartesiano. È certamente lecito riconoscere nel veil of perception una dinamica scettica, così come rimproverare a Descartes di essere rimasto irretito entro un circolo irrisolvibile tra epistemologia e teologia; ma gli eventuali scetticismi cui approderebbero, malgrado loro i due autori, sono profondamente differenti pur se forse simmetrici. Proprio per questo motivo, sembra teoreticamente suggerire Lotti nelle pagine conclusive della sua ricerca, l’esito humiano in cui si conclude la way of ideas anglosassone è profondamente differente, nella propria aporeticità, da quello cartesiano. Anche laddove pure quest’ultimo possa venir giudicato come segnato dall’aporia, in virtù del circolo per cui “l’atto del cogito, nella sua essenzialità formale autoriflessiva, non è eliminabile alla stessa stregua con la quale si sono voluti o potuti eliminare i contenuti del sistema metafisico che su di esso Descartes aveva voluto edificare” (p. 339).
In conclusione, per lo studioso interessato al percorso della filosofia moderna nel suo momento forse maggiormente emblematico e caratterizzante, il volume di Lotti rappresenta una lettura proficua e una miniera di indicazioni che di quell’epoca restituiscono gli snodi.


Indice

Prefazione, di Chiara Giuntini
Introduzione
1. Le prime reazioni allo scetticismo cartesiano
2. I platonici di Cambridge
3. La “scepsci scientifica” di Glanvill e il confronto con Descartes
4. La polemica tra Samuel Parker e Antoine Le Grand
5. I critici aristotelici di Descartes
6. Lo scetticismo nella riflessione di Locke
7. I critici di Locke
8. Discussioni settecentesche
Bibliografia
Indice dei nomi

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