mercoledì 9 ottobre 2013

Gadamer, Hans-Georg, Che cos’è la verità. I compiti di un’ermeneutica filosofica

Prefazione di Stefano Marino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 257, euro 10, ISBN 978-88-498-3431-4.

Recensione di  Giacomo Borbone - 09/02/2013

L’ermeneutica, com’è noto, ha radici antiche ma soltanto a partire dall’‘800 si è assistito ad un vero e proprio sviluppo filosofico di tale disciplina, culminato poi nel ‘900 con le opere di Martin Heidegger e Hans-Georg Gadamer. Ed è proprio quest’ultimo colui il quale ha dedicato i suoi maggiori sforzi speculativi alla teoria dell’ermeneutica, concretizzatasi nel corposo e complesso volume uscito nel 1960 e da quel momento in poi diventato una pietra miliare del pensiero filosofico del ‘900, ossia Wahrheit und Methode (Verità e metodo). Il volume che qui presentiamo, curato da Stefano Marino,

comprende quattro saggi gadameriani scritti in varie occasioni, ma tutti incentrati sull’importanza dell’ermeneutica per la pratica filosofica. L’ermeneutica è legata ai fenomeni della comprensione e interpretazione di testi, ma nella prospettiva gadameriana ciò non implica tanto un problema metodologico quanto invece un problema ontologico che investe la dimensione del mondo. Difatti, mentre l’ermeneutica antica era rinvenibile nella retorica, con l’ermeneutica moderna si passa invece dall’arte del discorso all’arte del comprendere; questa differenza viene trattata da Gadamer nel primo dei saggi raccolti in questo volume, ossia Ermeneutica classica e filosofica. In questo senso, come specifica Gadamer, molto importante è stato il contributo di Heidegger, il quale “elaborò il concetto di un’«ermeneutica della fatticità» e, con ciò, di contro all’ontologia fenomenologica di essenze di Husserl, formulò il compito paradossale di interpretare, a dispetto della sua impensabilità, ciò che Schelling chiamava «l’immemorabile» dell’«esistenza»; anzi il compito di interpretare l’esistenza stessa come «comprensione» e «interpretazione», ossia come un progettarsi sulla base delle proprie stesse possibilità. Venne qui raggiunto un punto, in cui il senso metodico strumentale del fenomeno ermeneutico doveva condurre a una svolta nel dominio dell’ontologia. Il «comprendere» non indica più un atteggiamento del pensiero umano fra gli altri, da disciplinare metodicamente e da trasformare in procedimento scientifico, bensì costituisce la motilità fondamentale dell’esserci umano” (pp. 72-73).
In questo modo Gadamer, sia pur in maniera velata, critica il punto di vista secondo il quale la verità sarebbe esclusiva delle sole scienze naturali e del loro metodo matematico, poiché ciò che Gadamer intende per verità non è imbrigliato unicamente nella morsa del sapere oggettivante incarnato dalla tecnoscienza; al contrario, egli parla di verità in un senso molto più ampio, ossia in termini di esperienza. Difatti la concezione ermeneutica della verità proposta da Gadamer non è una teoria della verità, bensì una teoria dell’esperienza della verità. Tale snodo problematico, cioè il problema della verità in relazione al confronto/scontro tra scienze naturali e scienze dello spirito, viene affrontato da Gadamer nel secondo saggio del volume, intitolato Che cos’è verità?  
In questo frangente, Gadamer riabilita la validità delle scienze umane per quel che concerne il problema della verità, in polemica con coloro i quali tendono a ritenere la verità appannaggio delle sole scienze naturali. L’importanza e la fecondità della scienza non vengono messe in discussione da Gadamer il quale afferma, al contrario, che dobbiamo proprio alla scienza “il fatto di esserci liberati da svariati pregiudizi e di esserci ricreduti circa molte illusioni. In maniera sempre rinnovata, la pretesa di verità della scienza consiste nella messa in discussione di pregiudizi non provati e, in questa maniera, in una migliore conoscenza del reale, di ciò che è, rispetto a com’era conosciuto in precedenza” (p. 108). Ciò che Gadamer in effetti sottopone a critica è la tendenza, da parte del metodo scientifico di ascendenza positivistica, ad uniformare a sé ogni ambito del sapere. Ecco perché, più avanti, Gadamer afferma che “quanto più il procedimento scientifico va estendendosi a tutto ciò che esiste, tanto più è divenuto incerto se, in generale, muovendo dai presupposti della scienza, venga accolta in tutta la sua ampiezza la questione concernente la verità. Con preoccupazione, ci domandiamo: fino a che punto dipende proprio dal procedimento scientifico che vi siano così tante domande per le quali sentiamo di dover sapere la risposta e che pur tuttavia essa, la scienza, ci vieta? Essa proibisce tali domande, però, in quanto le discredita, ossia ne spiega l’insensatezza, e questo avviene perché, per la scienza, ha un senso solamente ciò che soddisfa il suo proprio metodo di ricerca e di verifica della verità” (pp. 108-109). Secondo Gadamer, dinanzi a tale situazione, diventa quindi giocoforza necessario “tracciare i limiti della specializzazione scientifica e della ricerca metodica di fronte alle domande decisive della vita” (p. 109). 
Questa problematica riappare nel terzo saggio intitolato Dalla parola al concetto. Il compito dell’ermeneutica in quanto filosofia, col quale Gadamer riprende il delicato rapporto tra tecnoscienza e cultura. Gadamer ricorda che fu proprio Hegel a voler elevare al concetto “sino a formare un tutto unitario, la scienza moderna e tutto quel che, come la metafisica o la religione, non si risolve nella scienza” (p. 143). Gadamer, tuttavia, non ritiene valida una tale sintesi tanto da affermare, a proposito delle scienze sociali, che esse vengono guidate “congiuntamente verso qualcosa d’altro. Ad esempio, attraverso i modelli esemplari della storia, attraverso l’esperienza, attraverso il disegno del destino e, in ogni caso, attraverso un altro tipo di esattezza rispetto a quella della fisica matematica” (pp. 145-146). Oltre alla matematica, sostiene Gadamer, esistono altre forme di precisione legate piuttosto al “coglimento di ciò che è giusto” (p. 146), ed è per tal motivo che l’ermeneutica viene da egli ritenuta “non tanto una dottrina metodica delle scienze dello spirito, quanto piuttosto una visione di fondo su ciò che, in generale, significano il pensare e il conoscere per gli uomini, nella vita pratica, persino quando lavoriamo coi metodi scientifici (ibidem). Il comprendere, pertanto, non implica il fatto di essere d’accordo con ciò che si comprende o con colui che si comprende; piuttosto, comprendere significa “soppesare e prendere attentamente in considerazione ciò che l’altro pensa!” (p. 154). D’altronde, specifica più avanti Gadamer, “trovandosi di fronte a un altro essere umano (in una situazione politica o nel caso di un testo), è solo quando arriviamo al punto di comprendere che, allora, diviene possibile, in generale, mettersi d’accordo l’uno con l’altro” (p. 155).
Il quarto scritto presente nel volume, ossia Dialogo retrospettivo sulla raccolta delle opere e la sua storia degli effetti, riproduce un’intervista rilasciata da Gadamer a Jean Grondin, all’interno della quale sono rinvenibili non soltanto alcuni temi fondamentali del pensiero del filosofo tedesco, bensì anche alcuni snodi concettuali particolarmente significativi: ad esempio, il rapporto di Gadamer con la fenomenologia husserliana ed il problema del linguaggio. Per quel che concerne il primo snodo Gadamer ammette che egli sentiva “di essere soprattutto un fenomenologo, per il quale l’obiettivo sono le cose stesse e il ‘mondo della vita’, anziché – come per il neokantismo – il fatto della scienza” (p. 167). Tuttavia, come nota Stefano Marino nella sua prefazione (cfr. pp. 35-36), il tema relativo al rapporto tra Gadamer e la fenomenologia husserliana è alquanto intricato poiché, se da un lato il pensatore tedesco ritiene che l’ermeneutica poggi non poco su di un fondamento fenomenologico, dall’altro egli rimprovera ad Husserl sia un travisamento del concetto di “vita” (letto in chiave meramente gnoseologica) sia la scarsa attenzione dedicata al problema del linguaggio (essenziale, invece, all’interno della speculazione gadameriana). In ogni caso, tale problematica costituisce un terreno poco o per nulla battuto dalla recente critica filosofica, per cui sarebbe interessante approfondirne gli aspetti storiografici e filosofici. 
È assai rilevante infine, a proposito del linguaggio, che Gadamer cerchi di chiarire il senso della sua celebre affermazione, Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache, cioè l’Essere che può venir compreso è linguaggio. Tale affermazione gadameriana è in effetti stata oggetto, soprattutto in Italia, di forti accuse, tra le quali quelle di idealismo del linguaggio e di panlinguismo. A detta di Stefano Marino, il modo in cui Gianni Vattimo ha veicolato il pensiero di Gadamer è stato determinante per un’interpretazione di tal fatta, visto e considerato che è stato proprio il teorico del pensiero debole a rimproverare a Gadamer il forte legame tra nichilismo ed ermeneutica. A tal proposito Jean Grondin fa presente a Gadamer che ciò che sembra emergere dal suo capolavoro Verità e metodo è che “l’universo linguistico sarebbe cioè privo di confini” (p. 178). 
Gadamer, che in altre occasioni si era magari espresso in maniera un po’ ambigua, questa volta si dimostra più chiaro che mai, al punto da affermare in maniera lapidaria: “Ma no, questo non l’ho mai pensato e nemmeno detto, che cioè tutto sia linguaggio. L’essere, che può venir compreso, è linguaggio. In questo vi è una limitazione. Ciò che, quindi, non può venir compreso, può rappresentare un compito infinito: quello di trovare la parola che, perlomeno, arrivi un po’ più in prossimità della cosa” (p. 178).


Indice

Prefazione di Stefano Marino: “Un altro sapere”: la verità extrametodica dell’ermeneutica

Cap. I
Ermeneutica classica e filosofia

Cap. II
Che cos’è verità?

Cap. III
Dalla parola al concetto. Il compito dell’ermeneutica in quanto filosofia

Cap. IV
Dialogo retrospettivo sulla raccolta delle opere e la sua storia degli effetti

Note

Glossario

Indice dei nomi

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