Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 387, euro 24, ISBN 978-88-581-0665-5
La teoria della lotta di classe si delinea come una teoria generale del conflitto sociale che, attraverso una rottura epistemologica con le ideologie naturalistiche (Le Bon, Mill, Tocqueville, Nietzsche, Bentham), colloca il conflitto in una dimensione storica. Losurdo prende le mosse dal Manifesto dove Marx ed Engels parlano di “lotte di classe” al plurale. Si tratta di un genus che può sussumere sotto di sé differenti species: conflitti interni alle classi sfruttatrici, lotte di emancipazione dei popoli coloniali,
della classe operaia della metropoli capitalistica e delle donne contro la “schiavitù domestica”. Marx ed Engels sono giunti a elaborare una diffusa domanda di riconoscimento il cui punto di partenza sta nell’hegeliana dialettica servo-padrone: è la condanna morale del disconoscimento della dignità umana di un’intera classe, dei popoli coloniali o di metà del genere umano a fungere da mediazione con l’analisi scientifica della realtà storica e a determinare l’appello rivoluzionario.
Quella che Losurdo definisce “lettura binaria del conflitto sociale”, basata sulla contrapposizione esclusiva fra ricchi e poveri, deve essere superata se si vuole comprendere una situazione storica concreta. Insieme alla lettura binaria sorge una teoria che sembra far nascere la coscienza rivoluzionaria dall’evidenza empirica. In realtà questa coscienza ha alla sua base una molteplicità di conflitti (lotta fra le diverse fazioni della borghesia nazionale, scontro fra le diverse borghesie per l’egemonia internazionale, acquisizione di un’autonomia ideologica e politica da parte del proletariato) ed è necessario capire come ognuno di questi si strutturi insieme agli altri all’interno di una totalità storica concreta che può determinare una gerarchizzazione delle lotte di classe. È di fronte alla diffusione dell’ideologia imperialistica anche nei partiti operai, volta a disinnescare la lotta di classe all’interno del paese dominante, che nasce l’originale risposta di Lenin. Ora a definire una coscienza rivoluzionaria è la comprensione di tutti i rapporti di coercizione che caratterizzano il sistema imperialistico e l’invito a unirsi è rivolto ai proletari di tutti i paesi e ai popoli oppressi del mondo intero. Ciò però non implica che tutte le lotte nazionali abbiano una funzione progressiva: le piccole nazionalità sono state spesso utilizzate dallo zarismo e dal bonapartismo e poi dall’imperialismo, quindi il diritto di autodeterminazione di alcune nazioni può entrare in conflitto col diritto di altre e con la lotta contro l’antico regime o l’imperialismo; si chiede pertanto, volta per volta, un’analisi concreta della situazione concreta. Lenin ha il grande merito teorico, secondo Losurdo, di aver superato la lettura binaria della lotta di classe e di aver rotto con l’epistemologia sensistica degli scritti giovanili di Marx ed Engels.
Lenin nel 1919 ricorda come la lotta di classe non sia terminata, ma abbia cambiato le sue forme, considerata la differenza fra la lotta che il proletariato conduce in uno stato capitalista e la lotta economica del proletariato in uno stato in cui il potere politico è nelle mani del proletariato stesso. Secondo Losurdo un importante contrasto si viene a delineare fra marxisti e populisti: questi ultimi si preoccupano esclusivamente della distribuzione della ricchezza dimenticando il problema fondamentale dello sviluppo delle forze produttive. Il “collettivismo della miseria” deve essere superato rapidamente. I bolscevichi comprendono che si trovano ad affrontare due differenti diseguaglianze: l’arretratezza della Russia sul piano economico e tecnologico a livello internazionale rischia di rendere impossibile la lotta contro la diseguaglianza interna. Le due disuguaglianze e le due lotte di classe sono intrecciate, il problema è che la limitazione di una può temporaneamente inasprire l’altra: la necessità di accordare una retribuzione alta agli specialisti borghesi, o aprire le porte ai capitali stranieri, inasprisce le diseguaglianze interne nel tentativo di ridurre il divario rispetto ai paesi più avanzati. Il vero problema sta nell’illusione che una rapida crescita economica possa essere conseguita con le stesse modalità con cui si conducono le battaglie politiche e militari, facendo cioè leva sull’entusiasmo delle masse e sull’illusione che questo entusiasmo possa essere prolungato indefinitamente. Risultato finale sarà un rallentamento economico che porterà all’inasprimento di entrambe le diseguaglianze.
Il pensiero rivoluzionario è esposto a quello che Losurdo chiama “idealismo della prassi” verso il quale tendono a slittare anche Marx ed Engels quando parlano di un futuro mondo comunista in cui mercato, nazione, stato, religione tendono a risultare plasmabili in modo illimitato dalla lotta di classe. Non mettendo però mai chiaramente in discussione la tesi dell’estinzione dello stato, rimane trascurata la questione dei meccanismi giuridici capaci di garantire una reciproca garanzia tra gli individui e il problema del governo della legge nel “socialismo reale” si affaccerà solo con Deng Xiaoping.
Se con la caduta dei paesi socialisti la democrazia internazionale ottiene un successo in Europa orientale, questo si realizza in un quadro mondiale dal significato opposto in cui l’Occidente esercita un diritto d’intervento militare in ogni parte del pianeta. Questa reazione non ha conseguito tutti i suoi obiettivi in quanto vi sono dei processi economici e politici che l’Occidente non può controllare: lo sviluppo della Cina, il riconquistato controllo del proprio patrimonio energetico della Russia, la resistenza all’occupazione in Iraq e in Afghanistan, tutti fenomeni per l’autore espressione del permanente impulso antimperialista scaturito dalla rivoluzione d’ottobre.
Negli anni ‘60 e ‘70 del XX secolo le lotte operaie nei principali paesi imperialisti si intrecciano con le lotte dei popoli coloniali. Hannah Arendt punta a una delegittimazione di queste lotte: l’errore di Marx è di aver convinto le masse che la povertà sia un fenomeno politico e non naturale. Per la Arendt, prima dell’avvento della tecnologia, la miseria di massa dipende dalla natura matrigna, ma, obietta Losurdo, questa tesi ignora che le crisi di sovrapproduzione capitalistiche comportano una distruzione di ricchezza sociale contro la quale la tecnologia è impotente. Inoltre lo sviluppo tecnologico all’interno del capitalismo non implica la riduzione del lavoro o della schiavitù, mentre a metterle in discussione è la lotta di classe che, d’altro canto, influenza lo stesso sviluppo tecnologico in quanto le innovazioni derivano dalla necessità del capitale di aumentare il plusvalore relativo. Rimane quindi indispensabile distinguere fra la macchina e il suo uso capitalistico.
Habermas invece, verso la metà degli anni ’80, sostiene che l’avvento dello stato sociale abbia determinato in Occidente una condizione di “pacificazione” che rende obsoleta la lotta di classe. In realtà, sottolinea Losurdo, il welfare, frutto delle lotte dai lavoratori, ha portato alla reazione delle classi dominanti che dopo il 1989, in una situazione mondiale favorevole alla grande borghesia capitalistica, hanno sferrato un attacco mortale al welfare stesso.
La lotta di classe si manifesta sia nella fase militare che in quella economica della lotta di emancipazione. La convergenza fra lotta di classe e lotta nazionale riprende vigore in Cina con Deng, la cui politica è un tentativo di fronteggiare le forme più dure della guerra economica. Secondo Losurdo, merito della dirigenza cinese è stato di farla finita con il populismo che vede nella ricchezza la contaminazione della purezza rivoluzionaria: alla distribuzione egualitaria della penuria si contrappone una prosperità comune da conseguire tramite la competizione di individui e imprese, il mercato e l’intreccio di industria pubblica e privata, con il settore economico e politico-statale che mantiene un ruolo dirigente. Non si può ignorare il rafforzamento di una borghesia interna, ma le lotte degli operai non vogliono mettere in discussione il potere politico, anzi a questo si appoggiano per piegare l’arroganza padronale. I capitalisti cinesi sono costretti a fare i conti con quella che Mao aveva definito totale “espropriazione politica”, ma solo parziale “espropriazione economica” della borghesia.
La crisi attuale dovrebbe portare a un rilancio delle lotte di classe che è però ostacolato dal populismo. Losurdo delinea un confronto con Simone Weil la quale parla di lotta di classe solo quando la contrapposizione è fra potenti e ricchi da una parte e umili e poveri dall’altra. Se in Marx la lotta di classe è condizione ordinaria del processo storico, in Weil diventa un momento moralmente privilegiato. Quando l’Urss, per evitare la riduzione in schiavitù coloniale perseguita dal nazismo, deve rafforzare il suo apparato produttivo e militare, Weil biasima questo processo che eguaglia tutti i paesi indistintamente nell’assoggettamento dell’operaio alla disciplina di fabbrica. È il trionfo del populismo che vede l’eccellenza morale solo in chi è privo di potere e ricchezza indipendentemente da ogni analisi storica, quando la questione non è combattere le macchine e l’industria, ma il loro uso capitalistico. A una forma di populismo che contrappone all’industria moderna un passato carico di pietas se ne connette una seconda in cui si trasfigurano le vittime del presente, idealizzate come incarnazione dell’eccellenza morale; una variante individua l’eccellenza non in una classe subalterna, ma in un determinato popolo oppresso, mentre un’altra la colloca nella “differenza di genere”. Ciò impedisce la ricomposizione delle lotte di classe: cogliere l’eccellenza morale solo nei popoli oppressi rende difficile la solidarietà delle classi subalterne delle nazioni dominanti e la trasfigurazione della figura femminile rischia di creare una contraddizione permanente con il sesso maschile.
Il testo può aprire importanti fronti di discussione all’interno del marxismo cui Losurdo si richiama. Ci limitiamo a sottolineare uno degli elementi più attuali e su cui l’opera più volte torna: Losurdo è convinto assertore del socialismo della Repubblica popolare cinese e ha più volte paragonato l’esperimento qui condotto a una sorta di enorme Nep. Si potrebbe però obiettare che all’interno di una formazione economica-sociale convivano diversi modi di produzione e che quello capitalistico sia ora dominante in Cina. Va poi ricordato che la Nep sovietica ebbe durata limitata (1921-1929) e che Stalin avviò la collettivizzazione che permetterà lo sviluppo delle forze produttive capace poi di sconfiggere il nazismo, mentre la “Nep cinese” dura da trent’anni. Infine la Nep, come sottolinea lo stesso Losurdo, determinava un controllo del proletariato sulle istituzioni, mentre il Partito comunista cinese accoglie ora anche esponenti del capitale. A metà degli anni ’90 si è approvato il passaggio all’“economia socialista di mercato” che ha permesso una diffusione dei rapporti di produzione capitalistici. Il fatto che una parte dei mezzi di produzione sia di proprietà statale non comporta il socialismo e neppure il fatto che lo stato intervenga con una regolazione dell’economi: ciò che conta è che i rapporti sociali di produzione vedano una sempre maggiore affermazione del capitalismo. Questa predominanza del modo di produzione capitalistico in Cina non è in contraddizione con l’esigenza di sviluppo delle forze produttive richiesta del capitalismo cinese e dalla necessità di indipendenza a livello internazionale e di concorrenza intercapitalistica con le principali potenze imperialistiche. Non è lo sviluppo dell’industria cinese e delle forze produttive da biasimare, ma se mai, come più volte ricorda Losurdo stesso, l’uso capitalistico dell’industria e delle macchine.
Indice
Introduzione. Ritorno della lotta di classe?
1. Le diverse forme della lotta di classe
2. Una lotta prolungata e non a somma zero
3. Lotte di classe e lotte per il riconoscimento
4. Il superamento della logica binaria. Un processo faticoso e incompiuto
5. Molteplicità delle lotte per il riconoscimento e conflitto delle libertà
6. Passaggio a Sud-Est. Questione nazionale e lotta di classe
7. Lenin 1919: «la lotta di classe ha cambiato le sue forme»
8. Dopo la rivoluzione. Le ambiguità della lotta di classe
9. Dopo la rivoluzione. Alla scoperta dei limiti della lotta di classe
10. La lotta di classe alla «fine della storia»
11. Tra esorcizzazione e frammentazione delle lotte di classe
12. La lotta di classe tra marxismo e populismo
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