Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 226, 18 euro, ISBN 978-88-5751-347-8.
Recensione di Luciano Bazzocchi - 07/07/2013
Il libro di Lando è estremamente tecnico. Questo significa che non lo si comprende se, dopo aver letto e compreso il Tractatus di Wittgenstein, non ci si addentra nella nomenclatura specifica su cui Lando si appoggia. Per non cadere in un’analisi ancora più tecnica ed elitaria, è bene partire da alcune osservazioni periferiche, là dove il giovane studioso applica la sua esegesi ad aspetti largamente noti del Tractatus.
Della triade del titolo, “Forme, relazioni, oggetti”, Lando porta in evidenza il primo fattore: nel Tractatus, tutto si riconduce alla forma. Qui sta il merito principale del suo saggio;
non si sottolineerà mai abbastanza come il libro di Wittgenstein sia interamente votato alla esaltazione degli aspetti formali, fino a farne – a torto o a ragione – la chiave solutiva di ogni questione logica e filosofica. Persino gli “oggetti”, cioè le componenti ultime dello “stato di cose” più elementare – “oggetti” che un atomismo di maniera potrebbe pensare come elementi materiali, particelle mereologiche e via discorrendo – costituiscono ciò che Wittgenstein chiama “la forma” del mondo. “Gli oggetti formano la sostanza del mondo. [E ogni] mondo […] deve pur avere una forma. Questa forma fissa consta appunto degli oggetti. La sostanza [dunque, gli oggetti] è ciò che sussiste indipendentemente da ciò che accade. Essa è forma e contenuto. Solo se vi sono oggetti può esservi una forma fissa del mondo” (2.021-22-23-24-25-26). Per meglio intendere: poiché “la forma è la possibilità della struttura” (2.033), la forma dell’oggetto, detto tautologicamente, è la possibilità di occorrere in tutti gli stati di cose in cui l’oggetto appunto può occorrere. Con le parole di Wittgenstein: “Gli oggetti contengono la possibilità di tutte le situazioni. La possibilità del suo occorrere in stati di cose è la forma dell'oggetto” (2.014-2.0141).
Lando cita alcune di queste proposizioni nei Cenni iniziali, ma le analizza molto avanti nel saggio, alle pagine 94, 145, 195 ecc.; esse sono il vero “motore immobile” del suo ragionamento, l’obiettivo a cui giungere e che però motiva tutto il percorso. La loro interpretazione ci sembra obbligata: “la forma degli oggetti […] presiede alla loro combinazione con altri oggetti in stati di cose possibili. […] Dato un oggetto e la sua forma, sono determinati tutti gli stati di cose possibili di cui esso è un costituente” (p. 11. Ovviamente, “un oggetto e la sua forma” è un pleonasmo, dato che un oggetto è la sua forma).
Quando però si accinge a considerare da questa prospettiva, condivisibile e che si può dare per assodata, altre parti del Tractatus, per esempio la teoria dell’immagine, l’intuizione di Lando non appare altrettanto limpida. Egli considera “classico esempio di immagine” qualcosa che in realtà non si ricava dal Tractatus, ma sarebbe suggerito da un accenno dei Quaderni: “un plastico usato presso un tribunale per ricostruire la dinamica di un incidente stradale. Qui i modellini di automobile e le strade di stagnola sono gli elementi di un’immagine” (p. 20). Wittgenstein ha a suo tempo riconosciuto che quell’episodio del 1914, tratto da una rivista, segnò un punto di svolta della sua ricerca in direzione della teoria dell’immagine; ma esso non ne costituisce affatto il punto di arrivo. Gli appunti di diario dal settembre 1914 all’aprile 1915 descrivono il tormentatissimo percorso di pensiero, la cui soluzione per altro non si trova nei Quaderni, ma soltanto nelle prime pagine del manoscritto del Tractatus (Ms104), databili maggio 1915. Il concetto di “immagine logica” o “modello” (“Cfr. la Meccanica di Hertz, sui modelli dinamici”, suggerisce Wittgenstein, 4.04) è soltanto l’esito finale della teoria dell’immagine, e finisce per coincidere col passo successivo: il “pensiero” di un fatto, la sua quintessenza. Altrimenti, a che pro Wittgenstein avrebbe lavorato per un intero anno? Perciò, scambiare l’occasione con la soluzione e pensare che “gli elementi dell’immagine” possano corrispondere ai pezzi di stagnola, o che “i modellini di automobile” possano veicolare i “modelli dinamici” di Hertz, è veramente fuorviante. “(E non dimenticare che l’immagine può avere coordinate verso il mondo molto complesse)”, rammenta appunto Wittgenstein alla fine di tutto il processo (13.6.15, ultima nota di diario sulla teoria dell’immagine).
Nella banalizzazione del plastico, il concetto di “relazione formale” risulta svilito e inconcludente, e non stupisce che a Lando non torni più niente: “Tuttavia, osserva infatti, non sembra in generale vero che i modellini e i pezzi di stagnola siano connessi dalle stesse relazioni che, nell’incidente vero e proprio, connettono le automobili e le strade” (ibidem). Certo che no; ma questo non si può addebitare a Wittgenstein, quanto all’esempio sconnesso messo in campo da Lando. Può darsi che ai suoi occhi esso appaia “un classico esempio di immagine” perché lo ritrova nel manuale di Pasquale Frascolla, il quale gli è stato tutor e gli ha anche confezionato una lusinghiera Prefazione (alle pp. iii-ix); ma non per questo deve abbassare l’attenzione critica. Il caso dei modellini di automobile poteva avere una funzione vagamente introduttiva e didattica, ma non può essere preso in parola in un testo con spiccate ambizioni specialistiche. Ancora più sconcertante è l’obiezione che Lando contrappone alla supposta modellizzazione tramite automobili-giocattolo: i modellini non sono connessi dalle stesse relazioni che vigono tra le auto reali, in quanto “se ad esempio due auto al momento dell’incidente si trovavano a 15 metri di distanza, i loro modellini nel plastico si troveranno ad una distanza plausibilmente minore, determinata dal rapporto di scala del plastico” (ibidem). Confondere i problemi di modellizzazione con una questione di metrica è del tutto spiazzante, perché allora niente potrebbe essere immagine di qualcos’altro se non ne avesse, non solo la stesa “forma”, ma perfino le stesse dimensioni. E’ chiaro che un’obiezione di questo genere è del tutto incongrua rispetto ad ogni “immagine logica”, o a qualunque immagine mentale (cfr. 2.1: “Noi ci facciamo immagini dei fatti”): difficile pensare che tra gli elementi di “un’immagine logica” possano sussistere le medesime distanze metriche [?] dell’originale.
Più convincente risulta invece la confutazione di teorie esegetiche alternative alle tesi propugnate nel saggio; prima fra tutte, l’obiezione mossa al “New-Wittgenstein” di Diamond e Conant e alla rielaborazione proposta da McGinn. Non si può ritenere che il Tractatus sia una finzione ironica, un’ipotesi messa in campo soltanto per dimostrare la sua implausibilità, perché invece il testo risulta estremamente coeso e consequenziale. “Le tesi […] del Tractatus sono specifiche, coerenti e interessanti” (p. 35), e tanto basta: anche se, per assurdo, “il Tractatus fosse davvero stato inteso da Wittgenstein come un ironico nonsense che non comunica nulla, ciò non toglierebbe che è possibile trarre dal Tractatus tesi filosofiche che hanno senso e possono essere utilmente messe a confronto con le posizioni dei filosofi contemporanei sugli stessi argomenti” (p. 34). Tuttavia, dal rigetto della posizione di Cora Diamond, per la quale Wittgenstein si pone contro ogni metafisica, ivi compresa la metafisica del Tractatus, Lando trae non solo la riabilitazione, diciamo così, delle tesi del Tractatus, ma anche la convinzione che tali tesi siano veramente classificabili come “metafisiche”. Ora, se una cosa è certa, questa è il rifiuto wittgensteiniano di qualsiasi metafisica, cioè di qualsiasi pretesa di avanzare delle “proposizioni filosofiche” che si presentino come “vere”, come un’adeguata rappresentazione di come le cose veramente stanno. La filosofia non è scienza, ribadisce Wittgenstein, perciò non può ambire a nessuna verità, a nessuna affermazione ontologica o ontologicamente intesa. Anche quando afferma: “Tutto il mio compito consiste […] nel dare l’essenza di tutti i fatti la cui immagine è la proposizione. Nel dare l’essenza di ogni essere”, si affretta a specificare: “(E qui essere non significa esistere – sarebbe insensato)” (22.1.15). Dunque, il confine dell’insensato non comprende “tutto il [suo] compito”, realizzatosi poi nel Tractatus, ma si situa tra il Tractatus, da una parte, e la sua interpretazione come effettiva ontologia, come tesi metafisica, dall’altra. Pare che né Diamond né Lando colgano l’aspetto dinamico della faccenda: le “delucidazioni” del Tractatus non sono di per sé insensate (contra Diamond), ma inevitabilmente lo diventano se diamo loro una portata ontologica, se le intendiamo come “proposizioni metafisiche” (come Lando largamente intende).
L’uso spregiudicato del termine “metafisica”, a partire dal sottotitolo del volume e dall’intestazione di alcuni capitoli (“Brevi cenni sulla metafisica del Tractatus”, “Ma il Tractatus parla di metafisica?”), non si può considerare innocuo, e certamente non corrisponde alla decisa presa di distanza manifestata da Wittgenstein. Possiamo capire che Lando, appartenente a una corrente esegetica che ha fatto della cosiddetta “ontologia del Tractatus” il terreno privilegiato d’indagine, tenda a dare per scontata la natura sostanziale e ontologica (in senso forte) di “oggetti”, “stati di cose”, “fatti”, ecc. Una volta che, dall’interno del paradigma, ha ora riscoperto che persino il nucleo più solido, l’“oggetto”, non è altro che un grumo relazionale, ovvero la totalità di tutte le possibilità di occorrere in stati di cose, e che a sua volta lo stato di cose “viene radicato nella forma dell’oggetto” (p. 95), non ha potuto fare a meno di afferrarsi ad una interpretazione metafisica del substrato relazionale. Cioè, anziché riconoscere la natura puramente formale delle relazioni (quasi “immagini riflesse nei grandi e piccoli specchi, variamente disposti, della filosofia”, 6.3.15), insiste ad attribuire loro una portata semantica più pesante. Ovviamente, tutto può ridursi a una questione di nomenclatura e di uno stile espositivo che oggi nella filosofia del linguaggio è piuttosto diffuso. Ci chiediamo se sia veramente necessario cavalcarlo con tale insistenza.
La cosa può non essere senza conseguenze. Nel momento in cui l’”oggetto” perde consistenza come atomo costitutivo del sistema e viene anzi a definirsi come “possibilità di occorrere entro” strutture di più alto livello, il suo svanire come entità autosussistente viene temperato dall’ipotesi che si tratti, più propriamente, di “entità insatura”. La tesi per cui “tutti gli oggetti del Tractatus sono insaturi nel senso in cui secondo Frege sono insaturi i concetti […] trova nuova linfa – scrive Lando – alla luce della ricostruzione della teoria delle relazioni e delle forme di questo [mio] libro. […] La forma degli oggetti consiste nella loro disposizione a costituire stati di cose con altri oggetti. Questa disposizione è appunto la loro insaturazione” (p. 171). Dunque, un oggetto sarebbe saturo nel momento in cui compare entro un determinato stato di cose; preso invece a sé, come semplice possibilità di comparire in n stati di cose, sarebbe pur sempre un qualcosa, un oggetto, ma appunto insaturo. Si ha un po’ l’impressione che, cacciata dalla porta, l’”entità” dell’oggetto rientri dalla finestra. Cioè, esso non si risolve interamente, come da ipotesi, nella sua forma, nel suo essere passibile di appartenere a stati di cose differenti: l’oggetto pare rimanere “qualcosa” anche quando è inteso come pura possibilità. Ma “il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose” (1.1). Di oggetti al di fuori di un “fatto” che dia loro vita e senso, non possiamo “farci immagini”; gli stati di cose sussistono, o non sussistono: gli oggetti, no. Ora, di qualcosa che né sussiste, né non sussiste, è improbabile non soltanto farsi un’idea (questo è il motivo per cui Wittgenstein non può fornire, come invece Lando auspicherebbe, esempi di “oggetti”), ma anche solo individuarne le “disposizioni” (saturo, insaturo). Ancora una volta, pare sfugga l’aspetto dinamico: un fatto sussiste, o non sussiste, in quanto evento, accadimento. Il fatto elementare, lo stato di cose, corrisponde a una costellazione dinamica di elementi, che per pura analogia con la scienza fisica Wittgenstein chiama “oggetti”: la loro “essenza” si esaurisce nel vincolare, in virtù della propria forma, la possibilità di costruire un evento e non un altro, oppure il fatto di essere in quella specifica relazione con gli altri oggetti, e non in quella, per esempio, assolta dall’oggetto concomitante. (Comprendiamo meno gli ulteriori vincoli posti da Lando, per esempio la richiesta che ogni ennupla di oggetti dati possa combinarsi in una e una sola maniera entro lo stato di cose, p. 177: non si vede perché taluni oggetti non possano prevedere di combinarsi, pur entro la stessa ennupla, a formare una diversa struttura globale. Nemmeno la chimica pone di queste restrizioni, si pensi alle forme sinistrorse e destrorse di un’identica sequenza di glucosio). Come che sia, cosa resti da fare all’“oggetto insaturo” non si riesce a capire.
Lasciamo al lettore il piacere di scoprire altre peculiarità del volume di Lando; con l’avvertenza che il compito, come è giusto per un testo che dichiara le proprie aspirazioni scientifiche, è piuttosto impegnativo. Esiste una diversa possibilità, e cioè che noi non siamo abbastanza attrezzati per cogliere con più immediatezza il tessuto teorico del libro; possano altri venire e fare ciò meglio. Del resto, è proprio nel seno della discussione filosofica, in un sottile gioco delle parti, che trovano la loro giustificazione certuni testi di esegesi.
Indice
Prefazione
Ringraziamenti
I Il Tractatus, la metafisica e l’importanza delle relazioni
1 Relazioni e forme: la nostra proposta in sintesi
2 Brevi cenni sulla metafisica del Tractatus
3 Due questioni troppo discusse
4 Ma il Tractatus parla di Metafisica?
5 Logica e applicazione della logica
6 La questione della continuità
II Riduzione delle relazioni
7 Dalle forme degli oggetti alla relazione
8 Come ridurre le relazioni?
9 I termini tedeschi per le relazioni nel Tractatus
10 Combinazioni possibili e combinazioni attuali
11 Nessi e non universali: contro la tesi Hintikka
12 La “soluzione” del problema di Bradley
III Conseguenze per la teoria raffigurativa della proposizione
13 A cosa servono (in semantica) le relazioni?
14 Il problema dell’identità di relazione
15 Forma: una nozione composizionale?
16 Forma e composizionalità semantica
17 Il ruolo dei predicati
18 La proposizione è una classe di nomi?
IV Conseguenze per la natura degli oggetti
19 Gli oggetti come entità insature
20 Vincoli sulla natura degli oggetti
21 I punti geometrici di Goddart e Judge
22 I qualia di Frascolla
23 Proprietà combinatori e categorie di oggetti
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