Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 164, euro 16, ISBN 978-88-15-24426-0
Nata nel Settecento con Baumgarten, che riprendendo temi leibniziani la formulò come riflessione filosofica sul sensibile, l’estetica si è sviluppata declinandosi secondo varie e numerose prospettive. Nell’Ottocento Hegel l’ha plasmata come filosofia dell’arte (nel senso più preciso di filosofia della storia dell’arte, cfr. le Lezioni di estetica), preferendo cioè come suo peculiare oggetto di studio la dimensione dell’artificiale a quella del naturale. Una scelta, quella operata dal maestro dell’idealismo tedesco, che doveva essere influente:
così, nonostante la complessa storia della disciplina, l’estetica è tuttora per molti sinonimo di filosofia dell’arte.
così, nonostante la complessa storia della disciplina, l’estetica è tuttora per molti sinonimo di filosofia dell’arte.
Il rapporto, così stretto, con la sfera dell’arte ha avuto i suoi pro e i suoi contro: se da un lato i concetti dell’estetica hanno avuto un accesso facilitato al dibattito pubblico, dall’altro sono spesso stati travolti dalla divulgazione, divenendo formule ad effetto più che temi di approfondimento. Ritengo che il concetto di morte o fine dell’arte (e già l’oscillazione tra «morte» e «fine» è densa di complicazioni, invero non considerate dallo stesso Vercellone) sia proprio tra quelli che hanno patito questa situazione, svalutandosi attraverso l’infinita ripetizione degli «esperti», sino ad apparire un abusato luogo comune. Un bel problema, perché in realtà il tema della morte/fine dell’arte si è articolato, a partire dall’originaria formulazione hegeliana (fine dell’arte), attraverso riflessioni molto importanti, estremamente importanti per questioni proprie dell’arte (tutta, e contemporanea in particolare), ma non solo.
Ben venga, dunque, questo studio di Federico Vercellone, che sinteticamente, e svolgendone lo sviluppo in senso cronologico, affronta la questione della fine/morte dell’arte nelle sue principali formulazioni (non provenienti esclusivamente dalla filosofia, come è giusto che sia), mettendone in luce parentele e peculiarità, e attualizzandone i contenuti alla realtà contemporanea.
Il saggio si articola nel modo seguente: dopo la canonica introduzione, che anticipa la struttura e i temi del saggio, il primo capitolo tratta la formulazione originaria del problema, che come noto risale all’Hegel dell’Estetica. Viene chiarita la genesi del concetto di fine dell’arte hegeliana, ricostruendola attraverso l’opera del maestro di Stoccarda, a partire dal suo confronto critico con il romanticismo. Di fronte alla crisi della bellezza e dell’arte, divenuta quest’ultima assoluta in senso letterale (ovvero absoluta sciolti i suoi legami con i suoi fondamenti antichi – il vero e il buono propri della bellezza) e sottoposta a un processo di «secolarizzazione» che minaccia di allargarne i confini sino a esautorarne le competenze, la strada della cultura tedesca si biforca: i romantici, interpretando negativamente il fenomeno, prospettano una nuova mitologia (si veda la cit. di Schlegel a p. 28) che rinnovi i fondamenti del fare artistico e, in sintesi, inverta il processo di decadenza che lo riguarda; mentre Hegel sviluppa un lungo percorso speculativo che, dalla critica della mitologia della ragione (nel Programma di sistema dell’idealismo tedesco, analogamente a quanto fatto da Schelling del Sistema dell’idealismo trascendentale) condurrà, nell’Introduzione all’Estetica, a formulare l’idea di fine dell’arte (p. 36) intesa quale suo superamento. Incapace di soddisfare la spiritualità umana, poiché non più capace di integrare l’idea con il sensibile, l’arte è vicenda del passato, che passa ora il testimone alla filosofia.
Come si diceva poco sopra, Vercellone ha il merito di svolgere storicamente il problema della fine/morte dell’arte, riuscendo però a inquadrarlo in relazione alla nostra attualità dell’arte e dell’estetica. Per cui, se ad esempio la prospettiva romantica di una «nuova mitologia» viene inquadrata, attraverso la critica hegeliana, come anticipazione dell’arte di massa novecentesca, e quindi come processo di tecnicizzazione del mito attraverso l’arte, il percorso di Hegel si presenta in quell’enigmaticità di sviluppo che prelude a molte delle tante, differenti soluzioni presentate nel resto del volume.
Ancora nel primo capitolo, alla discussione della prospettiva hegeliana viene subito fatta seguire quella di Nietszche, nel quale un tema analogo sembra innervare tutto il percorso filosofico che gli è proprio. Un itinerario complesso, come avvisa Vercellone (p. 42), che, attraversandone tutta la produzione, confluisce in una prima fase nella grande riflessione contenuta nella Nascita della tragedia dallo spirito della musica, originata dalla concezione della cultura moderna come cultura della mera rappresentazione: una cultura della mascherata che attraverso l’estetizzazione fine a se stessa di ogni cosa, ha perso di vista quelle capacità mitopoietiche e fondative proprie dell’autentica cultura espressiva, appartenente all’età tragica dei Greci. Ma la riflessione nietzscheiana sull’arte non si arresta qui, restando un motivo della sua ricerca sino a collegarsi ai suoi temi più famosi, quali la volontà di potenza e (altra delle grandi morti simboliche dell’Ottocento, cfr. p. 7) la morte di Dio. Secondo Vercellone, in Nietzsche la caratterizzazione illusionistica dell’arte è una manifestazione chiara del nichilismo che connota la realtà tutta, anticipando per molti versi le riflessioni recenti e seminali di Hans Belting, autore trattato nel seguito del saggio.
Il secondo capitolo è ripartito in tre paragrafi distinti. Il primo confronta le interpretazioni di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, due distinti sviluppi dell’originaria formulazione hegeliana: se per Croce la «fine dell’arte» dipende da una contraddizione implicita nel sistema del filosofo tedesco, per Gentile essa è il destino ineludibile dell’arte, votata all’autotrascendenza perpetua. Si prosegue con un secondo paragrafo dedicato alle riflessioni di alcuni protagonisti delle avanguardie artistiche, segnatamente Filippo Tommaso Marinetti, poeta fondatore del futurismo, e Marcel Duchamp, protagonista del movimento Dada e inventore del ready-made, tipo di produzione artistica che risulterà rivoluzionario per l’arte contemporanea: se per Marinetti e i futuristi ad essere finita e morta è l’arte «passatista» delle accademie, passaggio necessario per mettere il sigillo a qualcosa che viene considerato come definitivamente superato (la polemica è volta soprattutto alla predilezione italiana per il Rinascimento) e poter guardare finalmente oltre, con Duchamp e Dada ha luogo quel processo di avvicinamento/unificazione tra realtà e arte che svilupperà, con successi e contraddizioni, lungo tutto il crinale dell’espressione artistica novecentesca, sino al presente. Infine, il terzo e conclusivo paragrafo è dedicato al pensiero di Adorno, che prende posizione sul problema nella sua postuma Teoria estetica, tentando «un’estrema difesa dell’autonomia dell’arte che ha il suo corrispettivo filosofico nella concezione dell’estetica come filosofia speciale, per l’appunto come filosofia dell’arte» (p.72), contro lo sviluppo dell’industria culturale e delle sue fantasmagorie, criticata dal maestro della Scuola di Francoforte coerentemente al suo progetto filosofico generale; infine, lo stesso paragrafo si conclude con ampi cenni a temi analoghi in Walter Benjamin.
Con il terzo capitolo, non a caso intitolato «Il Novecento oltre il Novecento», iniziamo ad avvicinarci al presente attraverso alcuni «classici recenti». E’ il caso di Giulio Carlo Argan: il grande storico dell’arte torinese prende atto (analogamente a quanto fa Adorno in filosofia) della fine dell’arte attraverso la sua trasfigurazione come prodotto industriale. Diversamente, nel secondo paragrafo, la tendenza artistica denominata «concettuale» vede proprio nel dissolvimento estetico dell’opera una chance per il rinnovamento artistico: è particolarmente significativo l’apporto di Joseph Kosuth, in un saggio intitolato significativamente L’arte dopo la filosofia. Diversamente, il terzo paragrafo critica, secondo prospettive differenti (Debord, Perniola, Bubner, Fumaroli e Baudrillard), il complesso tema dell’estetizzazione del mondo. Nel quarto paragrafo sono confrontate le distinte posizioni sulla fine/morte dell’arte di Hans Belting e Arthur C. Danto, accomunate però dal cogliere l’originaria diagnosi hegeliana in un’ottica positiva: l’arte deve morire perché rinasca in modo utile ai nuovi tempi, così in Belting (Il culto delle immagini, e La fine della storia dell’arte) la fine dell’arte diventa liberazione dell’immagine, un tempo autenticamente performative (è, per il Belting, soprattutto il caso delle icone dei santi nel Medioevo), poi limitate dalla chiusura in una visione estetica ed artistica di esse; per contro, secondo Danto l’arte ha raggiunto, soprattutto con l’opera dell’artista pop Andy Warhol, quell’emancipazione dall’estetizzazione che solo può liberare il contenuto che le è proprio (coincidente in buona parte con quanto espresso dalla svolta concettuale del Novecento, come visto sopra a proposito di Duchamp).
Il capitolo quarto affronta alcune «Prospettive» (come da titolo) piuttosto recenti e innovative, soprattutto nel panorama italiano. Gli autori coinvolti, come fautori dei visual studies e del pictorial turn quali W.J.T. Mitchell e Gottfried Boehm, che hanno riportato l’immagine stessa al centro dell’interesse filosofico, sino ad autori classici (Merleau-Ponty, Heidegger…) sino alla ripresa di classici moderni già citati (Debord, Baudrillard, Belting), nonché la trattazione di alcune opere di arte contemporanea rende questo capitolo – come spesso accade, con i saggi di taglio storico, con i capitoli conclusivi che riguardano il passato recentissimo – il meno «riassumibile» di tutti.
Ciò che emerge dal quarto capitolo, nonché dalle finali e canoniche «conclusioni» del saggio, è che la tematica della fine/morte dell’arte, isolata per primo da Hegel nell’Ottocento, ha costituito una formulazione consapevole di una trasformazione profonda in corso (e tuttora, mentre leggete), ripresa non a caso continuamente nell’estetica e nella storia dell’arte successiva. Le sue diverse declinazioni, nonché le loro diverse interpretazioni del fenomeno (più o meno positive o negative), sono il marchio della sua complessità.
Concludendo, il saggio di Vercellone è, come si è accennato, un’utile guida al tema trattato, che ha inoltre il pregio di «guardare oltre», al presente… nonostante il suo taglio prettamente storico. Quest’ultimo rende alcuni passaggi difficoltosi, costringendo a ripetizioni e riprese che una suddivisione tematica, forse, avrebbe potuto evitare (per es. collegare meglio Danto al concettualismo e a Duchamp). Inoltre, complice lo scarso spazio a disposizione, il saggio tratta pochissime (e ben note) soluzioni provenienti dal «mondo dell’arte», e soprattutto latita per quanto concerne la filosofia analitica dell’arte angloamericana, dove, di fatto, l’unico autore citato è Danto.
Indice
Introduzione
I. L’Ottocento e la «fine dell’arte»
1. Il romanticismo e Hegel.
2. L’arte come «passato».
3. Nietzsche, il programma originario.
4. Nietzsche, l’immagine, la fine trionfante dell’arte.
II. Il secolo lacerato
1. La «morte dell’arte» in Croce e Gentile.
2. L’avanguardia artistica e la morte come rigenerazione dell’arte.
3. Adorno e la cultura dei fantasmi.
III. Il Novecento oltre il Novecento
1. Il dibattito italiano.
2. L’arte concettuale.
3. La fine dell’arte come estetizzazione del mondo.
4. Un funerale liberatorio. Belting e Danto.
IV. Prospettive
1. Oltre la morte dell’arte. La rinascita dell’immagine.
2. Interattività.
Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi
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