Bologna, il Mulino, 2013, pp. 206, euro 18, ISBN 9788815238634.
Prima di addentrarsi nel merito delle proposte dei filosofi spagnoli contemporanei – due su tutti: José Ortega y Gasset e l’allieva María Zambrano –, tanto profondi e significativi quanto sottovalutati (perlomeno dagli studiosi e storici europei di filosofia), Giuseppe Cacciatore dedica il capitolo introduttivo di questo volume (Sulla filosofia spagnola) alla celeberrima figura del Don Chisciotte (Di alcuni pensieri filosofici sul Chisciotte) – un approccio quasi obbligato per chi voglia confrontarsi con la cultura spagnola.
Paradigmatiche le riflessioni di autori (non solo iberici) che col romanzo di Miguel de Cervantes hanno maturato la loro stessa visione del mondo nonché una lucida coscienza della spagnolità (ma anche dell’umanità intera, della sua peculiare e drammatica condizione) e del loro ruolo al suo interno, come Miguel de Unamuno, José Ortega y Gasset, Américo Castro, Salvador de Madariaga, María Zambrano, Carlos Fuentes, ma anche Benedetto Croce, Luigi Pirandello, Thomas Mann.
Il loro lavoro intellettuale si nutre continuamente degli stimoli proposti dall’immortale Cavaliere, che più che un personaggio di narrativa è divenuto nei secoli vera e propria incarnazione dello spirito castigliano. Cacciatore stesso definisce questo suo capitolo iniziale sul Cavaliere dalle Triste Figura la chiave dell’intero volume, senza cui forse la particolare poetica spagnola, che riguarda anche e soprattutto la filosofia sviluppata in quest’aera territoriale, non riuscirebbe ad emergere adeguatamente. Il Chisciotte, infatti, lungi dal rintanarsi in narrazioni fine a se stesse, di un’irrealtà che smarrisce le radici di quella fervida immaginazione sempre volta alla speranza dell’uomo spagnolo, ci parla della Spagna e dei suoi abitanti, della concretezza delle sue aspirazioni. Questo romanzo possiede una forte valenza filosofica, ma si tratta di una filosofia “nuova”, distante dai dettami “classici” sviluppatisi contemporaneamente negli altri paesi europei. A tal proposito Cacciatore parla di «una originale ed autonoma filosofia dell’ingegno e della fantasia, dell’ambiguità come forma espressiva del moderno, della capacità di tenere insieme la finzione romanzesca e la storicità dei tempi vissuti, della riforma critica e poetica della razionalità astratta e della metafisica» (p. 23). Per Cacciatore, Cervantes contribuirebbe sì a fondare la modernità, ma non allo stesso modo dei suoi illustri contemporanei europei, non nell’apologia del progresso e della secolarizzazione, bensì in quel legame ancora incerto, perché in divenire, tra la tradizione medievale e il nuovo e sconosciuto mondo della razionalità, tra simbolo e storia, sacro e ironia, in una dimensione, dunque, ancora dominata dall’incompiutezza; e tuttavia, come afferma Thomas Mann, «è qui depositata tutta l’essenza della natura umana» (p. 33). È forse per questo il Chisciotte non passa mai di moda? Quest’ambiguità tra realtà e finzione è la grandezza di Cervantes, la sua genialità, poiché è l’unica via d’accesso al reale, alla concretezza di una Spagna decadente e tenuta in scacco dal potere dell’Inquisizione, in grado di sovvertire l’ordine insofferente e rivelarne gli aspetti celati dal manto oppressivo, per ridonarli alla luce. Ragione poetica in luogo della logica razionale per “spiegare” il mondo e la vita: questa la capacità di Cervantes; «l’universale fantastico della poesia e dell’invenzione [è] capace […] di cogliere l’individuale attraverso le circostanze e le relazioni, le analogie e le differenze, ma, ancor più, [è] capace di dare corpo e sostanza a mondi lontani e ad esperienze estranee, di dare vita a ciò che non è ancora e che si muove in germe al nostro presente» (p. 39).
Cacciatore prosegue presentando al pubblico italiano, come già accennato, due dei più celebri filosofi spagnoli del Novecento, eppure ancora poco conosciuti e considerati (perlomeno rispetto ai loro più famosi contemporanei europei): José Ortega y Gasset e María Zambrano. Nel volume è riservato anche un piccolo spazio alla figura di Xabier Zubiri, filosofo basco, messo a confronto col filosofo tedesco Wilhelm Dilthey, oltre che a un capitoletto che tratta di analogie e differenze tra Ortega y Gasset e Zambrano da una parte e Benedetto Croce dall’altra, e per concludere un’appendice dedicata alle affinità tra Gianbattista Vico e Ortega.
La “filosofia” del Chisciotte ha di certo influenzato i pensieri di questi due filosofi, di cui sono testimonianza gli scritti a lui dedicati, impegnati nelle particolari sfide del loro tempo. Sia Ortega che Zambrano si trovano dinanzi alla crisi della ragione astratta e, tuttavia, ancora dominante; il loro intento, perseguito attraverso sentieri non sempre paralleli, è quello di proporre all’uomo e al pensiero contemporanei un’integrazione tra ragione, vita e storia: ampliare le vedute limitate dal puro razionalismo, aprendo così la strada per la concezione di un uomo molteplice, intero, non soffocato dalle pretese di fittizi monismi e assolutismi. Quello di Ortega non a caso è un razio-vitalismo, una ragione “problematica” che si volge all’individualità concreta dell’essere umano nel suo farsi, lungi dalle certezze del compiuto e del “vero”, perché è il reale e la vita stessa che sono per noi problematici. Non c’è verità unica per tutti, immutabile e astratta, ma verità conosciuta attraverso la propria prospettiva vitale, figlia delle circostanze storiche. Ortega intende «la vita non come fatto, ma come “faccenda” […]. Tale prospettivismo, proprio in quanto fondato su un’idea di vita che non riconosce altra essenza che la storia, funge da efficace antidoto, da un lato contro il monismo dogmatico di una ragione pura e rarefatta e, dall’altro, contro il particolarismo di una ragione relativa, o meglio, relativizzata, che affermando l’irriducibilità dei punti di vista, e con essa la loro essenzialistica compattezza, perde ogni rapporto con la verità» (p. 52). La profonda crisi dell’epoca di Ortega, tutta ragione, appunto, e niente vita, troverebbe respiro nella (ri)valorizzazione della cultura, considerata dal filosofo madrileno come una zattera della vita a cui l’uomo deve aggrapparsi per ridare senso a questa. Perché la vita è naufragio e provoca l’agitarsi dell’uomo per non affogare lo sforzo della cultura contro lo smarrimento e l’ignoto. E tuttavia il naufragio è necessario, perché è la verità stessa dell’esistenza e la coscienza di ciò ci rende più forti, e forse più uomini.
Anche María Zambrano non può fare a meno di confrontarsi con la crisi culturale, ancor prima che socio-politica, del suo tempo, e anche lei, come il suo maestro Ortega, pone l’accento sulla vita, sul suo farsi, lasciata fuori dal recinto razionale della filosofia e della cultura dominanti. Per la filosofa spagnola vi è un’opposizione originaria, nel mondo come nel pensiero, tra filosofia, la certezza, e poesia, l’insicurezza e il relativo, ed è solo quest’ultima che tenta di rimanere attaccata alla concretezza delle cose. È necessaria una nuova filosofia che ripensi il razionalismo occidentale, una ragione poetica che riesca a rimanere aderente alle cose senza perdersi nell’astrazione deformante. Questo per valorizzare l’imprevisto, l’irriducibile, l’eccedenza, l’inspiegabile, tutte proprietà vitali che la ragione astratta ha tentato di neutralizzare ma che nella concretezza riemergono senza posa. Tale ragionamento porta Zambrano a un doveroso ripensamento della stessa concezione della storia, che come per Dilthey, non può limitarsi a una semplice ricostruzione del passato, ma porta con sé tutte le eccedenze, tutto il suo compiersi. Scrive Cacciatore: «quel che sembrava mera tecnica di rappresentazione sintetica degli eventi riacquista senso, nella misura in cui la storia, insieme al necessario lavoro di ricostruzione storiografica, mette in essere la possibilità di sempre nuove e creative costruzioni» (p. 87). La storia è utile all’uomo per conoscersi, per ritrovarsi, per scorgere il senso del suo divenire. Non è un fatto dato, un evento compiuto, bensì una possibilità di senso, che cela in sé la coscienza dell’uomo delineatosi all’interno della società in cui vive, oltre al movimento presente e al futuro avvolto di speranza. Di qui la necessità della democrazia quale dimensione ideale in cui poter esprimere la propria persona, cosciente dell’impossibilità di fissarsi nell’istante, di adagiarsi nell’evento dato. «Lo stare della persona nel tempo, dunque, significa anzitutto la coscienza del legame sociale che viene dal passato, ma anche l’individuazione dei percorsi che spingono verso il futuro» (p. 98). La democrazia, dunque, permette all’uomo di sfuggire dall’unica immagine del mondo, per abbracciarne molte, come sono le molteplicità a lui interne, in continuo divenire. In definitiva, ci dice Zambrano, soltanto in un ordine “disordinato” come quello democratico potrà esprimersi realmente la molteplicità della realtà umana.
Merito della filosofia spagnola contemporanea (e non solo contemporanea – basti pensare, appunto, al Chisciotte) è pertanto quello di rammentare all’uomo la dimensione concreta della sua esistenza: che non è vissuto, passato che sta lì, immobile, a guardarci, ma vivencia, «esperienza vissuta nelle plurali articolazioni del Sé» (p. 122).
La raccolta di saggi di Cacciatore è qualcosa che mancava nell’accademia italiana, perlomeno in questi ultimi anni, di sicuro molto utile agli studiosi interessati alla filosofia spagnola contemporanea che ne vogliano approfondirne gli snodi teoretici fondamentali.
Indice
Presentazione (Fulvio Tessitore)
Introduzione (Giuseppe Antonio Di Marco)
Prologo
Nota al testo
I. Di alcuni pensieri filosofici sul Chisciotte
II. La «zattera della cultura». Filosofia e crisi in Ortega y Gasset
III. María Zambrano: la storia come «delirio» e «destino»
IV. Ortega e Zambrano su Croce
V. Il pensiero «insulare» di María Zambrano: mito, metafora, immaginazione dell’umanità originaria
VI. Vita e storia tra Zubiri e Dilthey
Appendice. Vico e Ortega. Note in margine alla critica della ragione problematica
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