Bari, Dedalo, 2012, pp. 205, euro 15, ISBN 978-88-220-1305-7
Se è vero che a definire una disciplina o un ambito di studi sono le domande più che le risposte, allora in questo caso possiamo riconoscere alle venti domande, che segnano il percorso di questo libro secondo una impostazione comune a tutta la collana, un considerevole valore fondativo. Fondativo non nel senso di inaugurale (la scienza dell’evoluzione non è certo cosa nuova), ma di definizione dello stato dell’arte. Un compito che l’autore assolve nell’insieme in modo pregevole e rendendo un buon servizio
alla diffusione della cultura evoluzionista. Ayala si muove su un terreno non facile, considerando anche l’altro vincolante paletto che la natura dell’opera gli impone: rendere questo excursus argomentativo accessibile a un vasto pubblico. Ciò rende giustificabile una certa semplificazione d’insieme che il lettore esperto avverte, anche se poco o niente si scivola nella banalizzazione. Tuttavia non si capisce perché non si incontrino mai alcuni termini come “exaptation” (introdotta da Stephen Jay Gould ed E.S. Vrba).
alla diffusione della cultura evoluzionista. Ayala si muove su un terreno non facile, considerando anche l’altro vincolante paletto che la natura dell’opera gli impone: rendere questo excursus argomentativo accessibile a un vasto pubblico. Ciò rende giustificabile una certa semplificazione d’insieme che il lettore esperto avverte, anche se poco o niente si scivola nella banalizzazione. Tuttavia non si capisce perché non si incontrino mai alcuni termini come “exaptation” (introdotta da Stephen Jay Gould ed E.S. Vrba).
Inoltre, pur non trascurando gli incroci dei processi di sviluppo con quelli evolutivi, l’autore non fa nessun esplicito riferimento alle dinamiche epigenetiche. In particolare riguardo a queste ultime, nel primo capitolo, Ayala sgombra il campo in modo sbrigativo, identificando questa visione con il lamarckismo: “Questa ipotesi, successivamente detta «ereditarietà delle caratteristiche acquisite», è stata completamente smentita nel XX secolo” (p. 11). Adesso non solo il datatissimo lamarckismo, ma anche la legge della ricapitolazione ontogenetica del buon Ernst Heinrich Haeckel possono essere rivisti, mutatis mutandis, ovviamente, con i nuovi occhi della biologia Evo-Devo, di cui non si trova cenno.
Largo spazio viene dato alla genetica (e alla genetica molecolare, si vedano le domande 7, 8 e 9), fino a introdurre cenni matematici. La modellizzazione matematica dell’evoluzione è una via che appare oggi più che mai feconda. Si veda a questo proposito “Darwin alla prova”, di Gregory Chaitin (Codice edizioni, Torino, 2013), che ha un altro importante punto di contato con il testo di Ayala: gli ultimi tre capitoli sconfinano nella teologia, passando dalla neonata metabiologia.
Per completare questo appunto sulle “assenze”, non sarebbe stato inappropriato, dopo la genetica molecolare (e altri apporti che vanno a confluire nella Nuova Sintesi Evolutiva poco prima di metà Novecento) considerare anche il successivo contributo delle scienze della complessità, dell’autorganizzazione, dell’emergenza e via dicendo (un nome su tutti: Kauffman), che dalla seconda metà del secolo scorso hanno portato e stanno tuttora portando una curvatura decisamente nuova nella teoria dell’evoluzione.
Il lettore è condotto per mano attraverso un territorio tematico esteso e profondo. Sarebbe troppo sommario parlare di completezza, ma certo questo testo compendia e tiene insieme argomenti eterogenei. Qualche sporadica ridondanza, qualche leggera variazione del registro argomentativo, ma il filo rosso che lega il tutto non viene mai smarrito.
Nella prima risposta si presenta il concetto di evoluzione a partire da una breve retrospettiva storica e sottolineando l’importanza crescente che ha assunto nelle scienze biologiche (e non solo biologiche, verrebbe da dire a ulteriore rinforzo), citando, a ragione, Dobzhansky, secondo cui nulla ha senso in biologia se non in prospettiva evolutiva. Tale retrospettiva evidenzia che la scienza dell’evoluzione si è essa stessa “evoluta” (ci sia concesso il gioco di parole).
A chiare note risuona l’esplicita dichiarazione della necessità di tributare ormai “al di là di ogni ragionevole dubbio” una totale fiducia nella teoria evolutiva. Non che ce sia bisogno (le sacche di resistenza sono ormai solo in ambienti non propriamente scientifici), né per amore di un dogmatismo che sarebbe inappropriato e anacronistico, tuttavia non è fuori luogo la precisazione di Ayala: “Probabilmente nessun altro concetto, in nessun campo scientifico, è stato sottoposto a verifica in modo tanto intensivo e confermato in modo tanto convincente quanto l’origine evolutiva degli organismi viventi” (p. 85). Altrove cita a sostegno di tale lapalissiana evidenza il caso delle selezioni plurigenerazionali di allevatori e coltivatori o della coevoluzione di batteri e antibiotici, a dire che l’evoluzione ha un’incontrovertibile evidenza fenomenica e sperimentale.
Le risposte 6 e 11 (peccato siano un po’ distanti tra loro) incrociano la dimensione orizzontale (tassonomica ed ecosistemica) con quella verticale (diacronica, evolutiva) ruotando intorno al concetto di specie e facendo – perché no? – eco al mai obsoleto Darwin.
Si evidenzia poi un aspetto spesso trascurato dell’evoluzione, ovvero come questa riguardi più piani o livelli del mondo vivente: molecolare, di un singolo carattere, di una linea di discendenza, di una popolazione, di un bioma (anche se quest’ultimo termine non si incontra) e come la velocità di alcuni cambiamenti sia significativamente regolare e altrettanto significativamente si differenzi da altre.
Un passaggio cruciale è quello che sposta il discorso dalla generalità dei viventi allo specifico dell’uomo, della cognitività astratta, della cultura, della moralità, del senso estetico. Sono dedicate all’argomento ben otto domande, dalla 12 alla 19, tracciando, con buona pertinenza, continuità e discontinuità della dimensione antropica rispetto al mondo biologico. Tra le righe si avverte però una qualche concessione a una visione lineare, sul calco della “scala naturae” di ben più antica memoria, che fa intendere la dimensione antropica come “superamento” di quella biologica, come ulteriorità, una sorta di valore aggiunto di vago sapore specistico e antropocentrico.
Questo “innalzamento” dallo stato di natura a quello di cultura (che ci ricorda, sia pure con qualche forzatura, i miti della bestia che si solleva e diviene capace di alzare lo sguardo al cielo o, più prosaicamente, la riduzione dell’angolo facciale di kamperiana memoria) è visto soprattutto nelle sue dinamiche causali unidirezionali. La natura offre il punto di partenza e un set di spinte causali, un’eredità che la cultura trascende e nobilita, lasciandosi indietro il retaggio da cui pure proviene. Potrebbe essere meglio evidenziata la circolarità natura-cultura: le reafferenze degli artefatti o dei comportamenti umani legati alle capacità astrattive sull’ecosistema o sulle dinamiche evolutive fanno parte integrante dei bilanci naturali quanto i fatti geologici, meteorologici, o biologici. La realtà non fa distinzioni né opposizioni tra natura e cultura. Casomai si poteva osservare l’emergenza di una situazione semplicemente nuova e diversa, comprensiva dell’elemento culturale, che ne va a fare parte integrante.
Il senso dell’interazione natura-cultura comunque c’è, sebbene si possa avere l’impressione che non sia portato fino in fondo, non sia pienamente esplicitato. Ayala dice in più occasioni (e con buona evidenza e chiarezza) che l’uomo condivide il mondo con tutti gli altri viventi e lo fa senza prescindere dalla propria dimensione antropica, tecnologica e socio-politica.
Se è pur vero che non è possibile omologare o “ridurre” senza riserve la natura umana a fattori biologici, la cornice evoluzionista, nella sua accezione più pregnante, esclude “le magnifiche sorti e progressive”, così come qualsiasi finalismo a priori. A questo Ayala aderisce (ovviamente) in pieno, ma al lettore più attento non sfugge la sua non perfetta coerenza quando si riferisce all’uomo. A pro dell’approccio di Ayala va riconosciuta la capacità di tener conto dei fattori quantitativi (si veda alle pp. 112-113 il paragrafo “Il genoma dello scimpanzé”, in linea con il metodo della metrica delle differenze, che pare la via euristica più promettente in tal senso) e di quelli qualitativi (ripresi più volte) che emergono dalla valutazione della condizione umana rispetto a quella propriamente animale.
L’ominazione (altro termine che non ricorre mai, forse non a caso) viene presentata in tutta la sua complessità e forse nell’impossibilità di essere collocata in un momento preciso, o identificata con un cambiamento puntiforme. Questa sgranatura non sminuisce né confonde un passaggio fondamentale nella storia della vita, ma lo diagnostica secondo una griglia molteplice e articolata più che plausibile. Tra tutti i fattori la comparsa della capacità astrattiva e simbolica, datata tradizionalmente intorno ai 40.000 anni fa (definita da molti autori la rivoluzione del Paleolitico), occupa comunque un posto centrale. La datazione tuttavia non è così precisa: a seconda dei luoghi il ventaglio cronologico si apre all’indietro fino a 100.000 anni fa e oltre.
Autori come John J. Shea (si veda il suo articolo “Un’idea sbagliata sulle origini dell’uomo”, Le Scienze n. 523, Marzo 2012, pp. 48-55) evidenzia come modernità somatica e di comportamento siano comparsi in concomitanza e come sia difficile modellizzare aspetto arcaico vs uno moderno secondo una progressività lineare e ordinata a prescindere dal luogo e gerarchizzando il primo al secondo.
Buona la valorizzazione della dimensione socio-politica e culturale che fa un po’ da antidoto al dilagante psicologismo dell’ultima ora, offrendo una prospettiva ben orientata e un respiro ampio all’impostazione dell’argomento.
Mirabile il passo sulla questione del razzismo trattata a p. 137. L’autore liquida la questione su basi scientifiche: basta prendere in considerazione la variabilità genetica dell’umanità (spesso impropriamente chiamata a sostegno delle tesi razziste) e la conclusione dell’inconsistenza delle pretese di chi vuol “classificare” gli uomini è lampante, senza bisogno di aggiungere altro…
Davvero apprezzabile, infine, è l’ultima domanda, sul rapporto tra evoluzionismo e creazionismo, che per alcuni scienziati “ortodossi” (sarebbe meglio dire “dogmatici”) nemmeno andrebbe posta. Eredi di millenni di tradizione dualista, abbiamo sempre dato per scontata la necessità di porre in reciproca esclusione due visioni, nella fattispecie evoluzionista e creazionista: “tertium non datur”. Ayala ci propone una terza via, plausibile e percorribile in termini tanto scientifici quanto metafisici. Si può essere credenti ed evoluzionisti, non per spirito di arrangiamento e compromesso, o di improbabile sincretismo, ma piuttosto perché dal dialogo e integrazione delle due posizioni entrambe ne escono valorizzate, a patto di abbandonare pregiudizi, sospetti e chiusure.
Una bibliografia essenziale, magari ragionata, sarebbe stata utile, specie in un panorama editoriale così vasto ed eterogeneo, in cui il lettore non troppo esperto può avere difficoltà a orientarsi.
Indice
Cos’è l’evoluzione?
Darwin aveva ragione?
Cos’è la selezione naturale?
Cos’è la sopravvivenza del più adatto?
L’evoluzione è un processo casuale?
Cos’è una specie?
Cosa sono i cromosomi, i geni e il DNA?
In che modo i geni costruiscono i corpi?
Cos’è l’evoluzione molecolare?
Come è nata la vita?
Cos’è l’albero della vita?
Sono davvero una scimmia?
Cosa apprendiamo dalla documentazione fossile?
Cos’è l’anello mancante?
L’intelligenza è ereditaria?
Gli esseri umani continueranno a evolversi?
Posso clonare me stesso?
Da dove viene la moralità?
Il linguaggio è unicamente umano?
Il creazionismo ha ragione?
1 commento:
Sicuramente far scienza per elucubrare non serve. Il metodo scientifico da taluni vien scambiato per più di un raffronto... Ma esso è proprio soggettiva relativa definizione che dipende da una domanda su utilizzabilità della scienza. In realtà scienza è specificamente o generalmente una prassi. Ma se ci si domanda: con quale metodo si può fare qualcosa; allora si può capire se metodo di usare scienza sarebbe adatto. Scienze di esperire, sono prassi e che fanno uso di metodi interni. Ma non sono in pochi ad invertire usi in scienza da usi con scienza; allora invece di capire biologia per far -per esempio- superfici di oggetti piacevoli per vitalità, cercano - ad esempio - di far utilizzare biologia invitando a toccare cose sconosciute... E costoso se son presuntuosi e sciocchi e disamorati della vita, davvero possono essere incontri peggiori di omicidi. E non ve ne sono pochi: alcuni in ultimi tempi hanno pensato di applicar biologia comandando lontananze senza neppure capir situazioni, condizioni, circostanze.
Esempio: nonostante ambiente costituito da motociclo o motocicletta in atto ed in azione di spostamento sia peculiare, caratteristico, altro –se si pensa solo ad ambiente minimo per far motociclismo, se ne comprende – molti pensano di poterne fare deduzioni, scambiando mobilità per motilità, dimenticando di valutare sanità o finanche stessa Sanità di barelle e carrozzine di ospedali ed importunando chi riuscendo pur sempre ad altro per altro in alterità cioè ove pensare a morte e vita è spontaneo, non potrebbe dunque mai trovar vero giovamento da decidere di valutare oppure accogliere regola sanitaria... (Anzi neppure trarne da reagire con forza in mezzo agli importuni: di questo, chi pensa a morte e vita, non ha bisogno per intender aberrazioni altrui difendendosi... Perché come cavaliere non potrebbe esser tale in antipatia verso od a regno animale, così il motociclista ha acquisito disciplina e impiego di cose con annullamento reciproco di rischi e pericoli e non potrebbe mai esser restato inetto a pensar morte (ed ovviamente non saprebbe esser pirata della strada neppure se volesse)...) E chi scambia adesioni, o libere o impossibili ovviamente, a regole sanitarie, per doveri di obblighi e peggio se di légge, non ha capito nessun dei due.
Proprio l'invertir uso e dato di scienza biologica — ne notavo poche ore orsono da notizia di giornalismo – ha costituito ennesimo torto e briga, in tal caso appunto contro libertà del Motociclismo e saggezza per strade.
... Negli eventi del darwinismo sono stati troppi a tentar di sfruttar o far sfruttare dati di scienza paleontologica per trarre o far trarre poteri da emersioni di ossa od altri resti... Con quale risultato? Ebetitudine poi contraddizioni una su altra.
Filosofia, per quanto poca, non giunge mai ad aberrazioni così.
Si nota opportunità di perplessità di recensore, a fronte di grandi complicatezze e quadri intellettuali poco sistematici. Ugualmente di recensione si notano dubbi tanti ma non diverso procedere da autore recensito.
Recensore citava autore che par rimasto pressoché sconosciuto a moltissimi: Ernst Heinrich Haeckel; che di scienza ed evoluzione aveva costruito metodo antropologico specifico per umani evolversi e che aveva studiato filogenesi ed ontogenesi zoologiche cioè non sommatorie evolutive ma reazioni omologhe a divenire estraneo e che rifiutò lungaggini di sorta: difatti fu anche paleontologo, studioso di resti di sole umane manifestazioni energetiche dette "umanoidi"... Non è senso comune ad aiutare intendimento!! Il resto antropomorfie parventi, meramente etologiche, di cui innamorati gli invertiti di dati e usi... Eppure stesso studioso ne catalogò, tal inversioni, tra problemi con universalità... Più futuri che passati.
MAURO PASTORE
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