Traduzione e cura di Annalisa Sacchi, Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 257, euro 20, ISBN 978-88-5751-798-8.
Scopo di questo libro, costruito come una detective story, come acutamente suggerisce la curatrice Annalisa Sacchi, è indagare i rapporti tra teatro e pensiero, o meglio la sparizione della rappresentazione scenica dall’ambito dell’indagine filosofica, quando al contrario le due cose presentano una serie di interessanti parentele. Il primo indiziato di questo “crimine” è ovviamente Platone e la sua esclusione della poesia dalle forme del pensiero nella sua città ideale. La prima parte del libro è infatti dedicata
all’analisi del Simposio. Il Simposio, tra i dialoghi platonici, ha una struttura particolarmente complessa, che si articola in una circolarità di narrazioni stratificate: Apollodoro racconta ad un interlocutore senza nome quanto Aristodemo gli aveva precedentemente raccontato circa il banchetto in casa di Agatone; a sua volta Aristodemo aveva confrontato i suoi ricordi con Socrate, per essere sicuro di essere in possesso di tutti i particolari. Tutte queste precisazioni lasciano sospettare una diffidenza dell’autore verso la trasmissione orale, cioè la narrazione, a differenza di quanto accade, per esempio nel Fedro. Al termine del dialogo, inoltre, mentre Agatone e Aristofane giacciono ormai semi addormentati, Socrate dimostra loro come la filosofia sia in grado di unificare poesia tragica e comica, mentre le due arti, da sole, restano separate. Di questa parte della discussione, tuttavia, non c’è traccia: entrambi i narratori successivi non ne hanno memoria. All’interno del Simposio questa è forse la discussione metateorica vera e propria, come è in qualche modo dimostrato anche dalla conclusione a sorpresa, l’arrivo di Alcibiade, il suo elogio di Socrate come incarnazione di Eros, e la scoperta del secondo aspetto dell’”arte di Eros”, ossia la seduzione.
all’analisi del Simposio. Il Simposio, tra i dialoghi platonici, ha una struttura particolarmente complessa, che si articola in una circolarità di narrazioni stratificate: Apollodoro racconta ad un interlocutore senza nome quanto Aristodemo gli aveva precedentemente raccontato circa il banchetto in casa di Agatone; a sua volta Aristodemo aveva confrontato i suoi ricordi con Socrate, per essere sicuro di essere in possesso di tutti i particolari. Tutte queste precisazioni lasciano sospettare una diffidenza dell’autore verso la trasmissione orale, cioè la narrazione, a differenza di quanto accade, per esempio nel Fedro. Al termine del dialogo, inoltre, mentre Agatone e Aristofane giacciono ormai semi addormentati, Socrate dimostra loro come la filosofia sia in grado di unificare poesia tragica e comica, mentre le due arti, da sole, restano separate. Di questa parte della discussione, tuttavia, non c’è traccia: entrambi i narratori successivi non ne hanno memoria. All’interno del Simposio questa è forse la discussione metateorica vera e propria, come è in qualche modo dimostrato anche dalla conclusione a sorpresa, l’arrivo di Alcibiade, il suo elogio di Socrate come incarnazione di Eros, e la scoperta del secondo aspetto dell’”arte di Eros”, ossia la seduzione.
Tra Simposio e Repubblica, in cui Socrate a più riprese afferma la limitatezza della poesia, sino ad escluderla totalmente dalla città ideale (libro X) come arte unicamente imitativa, c’è quindi una ambivalenza che non è possibile risolvere.
Una parte piuttosto nota, anzi forse la più conosciuta del Simposio platonico è il mito dell’androgino narrato da Aristofane. Il commediografo, a differenza degli altri intervenuti, non presenta una personificazione di Eros, ma approfondisce la dimensione dell’amore come forza e passione e soprattutto come aspetto originario dell’uomo. Infatti, secondo quanto lui stesso racconta, è il desiderio di riunificazione che spinge gli uomini, bipedi per essere stati divisi da Zeus, a ricercare la proprio metà, il completamento che li renderà nuovamente uno; ed è l’unità originaria che determina quello che noi denominiamo orientamento sessuale: uomo/donna (androgino), uomo/uomo (maschio originario a quattro gambe), donna/donna (femmina originaria a quattro gambe). Questa ricerca di unità, che viene ripresa in termini astratti da Socrate come ricerca del sapere, è il filo conduttore principale del pensiero greco, che oscilla tra l’unità di Parmenide e il “panta rhei” di Eraclito. La stessa dinamica permea di sé tutti i dialoghi di Platone, in particolare a partire dalla Repubblica. Questa ricerca di unità, sul piano drammatico, ci riporta alla ricerca della sintesi tra commedia e tragedia che è secondo Rokem il sottotesto del Simposio.
Alla indagine sul Simposio platonico Rokem affianca l’analisi dell’Edipo re di Sofocle, considerato da Aristotele il modello perfetto di tragedia greca, che probabilmente anche Platone conosceva. Edipo è filosofo, in quanto supera l’enigma della Sfinge (anche se non sapremo quai quali erano le risposte sbagliate) e grazie alla conoscenza giunge al governo, al potere politico e alle nozze (con la regina vedova Giocasta). Eppure Edipo è una sorta di anti - Socrate, in quanto non obbedisce al suo invito di conoscere se stesso. Edipo ignora tutto di sé, al punto che non riconosce suo padre Laio nel fatale incrocio delle tre strade, e nemmeno sua madre quando la incontra. Quando ritorna alle sue radici, le cicatrici che porta ai suoi piedi, e quindi alla sua unità, il suo dramma è compiuto. Nella filosofia di Platone, l’incapacità definitiva della poesia di operare la sintesi tra umano e divino con cui si conclude La Repubblica, è ancora apparentemente possibile nel Simposio proprio ad opera di Socrate, l’uomo - satiro, così almeno lo definisce Alcibiade, che però si rivolge alla filosofia, alla metafisica e non all’arte.
Dopo Edipo, Rokem si rivolge alla modernità, di cui l’Amleto di Shakespeare costituisce l’espressione drammaturgicamente più famosa.
Come Edipo rappresenta, a suo modo il prototipo dell’ uomo - filosofo antico, Amleto rappresenta lo stesso elemento nel mondo moderno. Amleto, infatti, rappresenta un nuovo modo di affrontare gli intricati rapporti tra filosofia e performance, che sono confliggenti all'interno della psiche del protagonista, ma si armonizzano, all’esterno, in una ampio sottotesto di metasignificati. Sin dal suo apparire in palcoscenico, il personaggio di Amleto è caratterizzato dal verbo essere, il verbo esistenziale per eccellenza, declinato in vari modi, dall'imperativo con cui Geltrude si rivolge al figlio invitandolo a restare presso la corte, rinunciando agli studi e quindi anche alla filosofia, sino al celeberrimo monologo. Amleto è un uomo di teatro, molto più risoluto nel costruire la sua messa in scena di quanto non lo sia la sua prospettiva esistenziale; non è un buon drammaturgo, le sue battute non sono molto efficaci, ma i suoi discorsi, al contrario, sono molto eloquenti. Amleto è perseguitato dal fantasma del padre, che lo coinvolge in una vendetta che ha il sapore dell’utopia, poiché lo distoglie dagli affari di stato - alla fine la storia irrompe nella vicenda con l’arrivo di Fortebraccio, e con lei l’irrompere del presente “reale”, che non si può volgere verso il passato, perché la storia, per lui ha ormai perso il suo significato: la narrazione delle vicende di Amleto che Orazio, invano, si sforza di conservare, avviene attraverso un’altra messa in scena, l’esposizione dei corpi. Nell’interpretazione di Walter Benjamin (in Il dramma barocco tedesco) la melanconia di Amleto è accostata a quella di Socrate nel Fedone: chi si dedica alla filosofia si dedica di fatto alla morte. Il destino di Amleto è “fatale”, ossia determinato. Nel capitolo successivo viene invece affrontato un dialogo diretto, tra un uomo di teatro e un filosofo che mette in scena se stesso. L’uomo di teatro è Strindberg, il filosofo è Friedrich Nietzsche. Si tratta di uno scambio di lettere avvenuto in pochi mesi tra il novembre 1888 e il gennaio 1889, concluso da Nietzsche con un lapidario biglietto firmato “Il Crocefisso”, che segna anche l’inizio della fase finale della sua malattia. L’esempio preso in considerazione è interessante perché sia il drammaturgo sia il filosofo mettono in scena la propria vita nelle opere: Strindberg, ad esempio in ben tre lavori teatrali (Il padre, La signorina Julie e I Creditori) adombra la sua relazione con Siri Von Essen e la crisi del suo matrimonio con lei; Nietzsche si identifica nella figura di Socrate, il filosofo tragico la cui filosofia nasce dalle ceneri della tragedia classica. (Qui Rokem sostiene che il rapporto tra Nietzsche e Socrate non è di completo rifiuto come comunemente si crede). La Nascita della tragedia non è altro che la autodrammatizzazione del suo autore sotto mentite spoglie. Il percorso di avvicinamento tra i due autori dura qualche mese ed è mediato dalle conferenze che il critico danese Georg Brandes tenne sul pensiero di Nietzsche. Strindberg è entusiasta delle idee del filosofo tedesco in cui sente riecheggiare le proprie. Lo scrittore ed il filosofo condividono, ancora prima dell'inizio della loro corrispondenza, alcune idee: la forte misoginia intellettuale, la critica verso il cristianesimo. La loro corrispondenza rafforza in Strindberg la consapevolezza della rinuncia al teismo, e l'accettazione di un atteggiamento erotico - dionisiaco dell'esistenza. Dalla corrispondenza, che spesso verte sulla possibilità di tradurre le opere di Nietzsche, si deduce che lo scrittore svedese sia stato contagiato, quasi sedotto, dall'esaltazione del filosofo, e dalla sua auto elevazione a nuovo Dio, Anticristo, della modernità. Ma gli ultimi biglietti, firmati "il Crocifisso", dimostrano come la mente di Nietzsche sia ormai sul' orlo di un precipizio da cui non si rimetterà; anche Strindberg, dopo il fallimento di di due matrimoni, subirà un crollo nervoso (la cosiddetta Infernokris) ma riuscirà a rimettersi. La corrispondenza con Nietzsche ha però la funzione di rivelare a Strindberg la valenza letteraria della follia o della sua messa in scena. In un’opera successiva intitolata Il sogno, dove confluiscono elementi e metafore intrise di autobiografismo che il drammaturgo svedese aveva “sperimentato” prima con Siri e poi nei biglietti indirizzati a Nietzsche, ma che ora servono a rappresentare un principio utopico metafisico che visita il mondo, come il fantasma di Amleto, ma un mondo alle prese con il vuoto rappresentato dalla morte di Dio. periodo del tutto incomprensibile, deve essere “saltato” qualcosa. Ne Il sogno, la figura femminile principale, una incarnazione della saggezza assoluta che platonicamente si incarna molte volte, scende dal Paradiso e affronta le vicissitudini dolorose della vita terrestre, si sposa e vede la relazione coniugale sfilacciarsi ed esaurirsi in una ripetizione di atti prima di tornare nel Paradiso da cui proviene. Qui Strindberg consapevolmente allude al saggio di Kierkegaard, La ripetizione, dove l’autore finzionale, Costantin Costantius, sperimenta il consapevole ripetersi di un’esperienza (un viaggio a Berlino) e proprio a teatro, attraverso la sua accidentalità, gli viene al contrario mostrata l’unicità dell’individuo e l’impossibilità della ripetizione. Al contrario, Nietzsche, già nella Nascita della tragedia, compie un percorso diametralmente opposto proprio riflettendo sulla figura di Socrate: la ricerca dell’assoluta individualità passa attraverso la ripetizione, una ripetizione in cui è compreso anche l’atto della rottura totale.
L’ ultima parte del libro analizza invece il rapporto reale e personale, (quello di Nietzsche con Strindberg è stato soltanto epistolare) tra Walter Benjamin e Bertold Brecht. Entrambi, dopo l’avvento del nazismo, condivisero l’esperienza dell’esilio e proprio durante un soggiorno in Danimarca nel 1934, avvenne la discussione concernente il saggio scritto da Benjamin per il decennale della morte di Kafka, funzionale alla composizione di alcuni dei drammi maggiori di Brecht come Madre Coraggio e i suoi figli, Vita di Galileo, L’anima buona del Sezuan, tutti iniziati durante il periodo danese anche se portati a termine in seguito, come anche il saggio sul teatro e sulla sua poetica che venne lasciato incompiuto come il capolavoro di Benjamin sui Passages. Nelle opere di Brecht iniziate in quel periodo (anche se completate successivamente) vi sono personaggi come Madre Coraggio e Galileo che sono “fuori di centro”, in situazioni in cui il fondamento di ciò che sono, il loro universo performativo, è fluido, e viene continuamente ridefinito. Nel suo testo incompiuto L’acquisto dell’ottone, Brecht definisce Modello G (da giostra) il teatro catartico della tradizione aristotelica, mentre il suo teatro è il Modello P, planetario, dove lo spettatore viene chiamato a vedere e a comprendere prima che a giudicare, il suo teatro epico insomma. Entrambi gli autori condividevano con Kafka l’esilio, la mancanza di stabilità e l’insicurezza, Brecht tuttavia dopo il viaggio della guerra e dell’esilio sarebbe tornato nella Germania post bellica a rifondare il suo teatro mentre Benjamin si sarebbe suicidato.
L’ultima parte del libro, intitolata “Costellazioni”, riflette sulla possibilità, presente negli scritti di Benjamin, di creare costellazioni di significati/immagini intorno ad atti performativi, teatrali o di altro genere (il primo esempio è l’esposizione di Guernica di Picasso). La modernità ha cambiato il modo di fruizione degli oggetti d’arte, in particolare ha messo in evidenza la perdita dell’aura dell’opera d’arte, la velocità come nuovo mezzo espressivo (il cinema) che modifica radicalmente il modo con cui si guardano le immagini che non sono più statiche (le arti figurative), ma in movimento. Ma l’avvento di nuove forme di narrazione si ripercuote su quelle tradizionali. Guernica di Picasso è appunto una narrazione il cui autore non è soltanto l’artista che l’ha dipinta, ma il fatto storico che l’ha generata. Un’immagine molto significativa per Benjamin, che aveva con sé l’originale, è l’acquarello di Paul Klee intitolato Angelus Novus, cui il filosofo dedica un celeberrimo passo nella Tesi IX de Il concetto di storia. L’angelo della storia è un Denkbild, un’ immagine in forma scritta dove i rapporti tra immagine e testo diventano visibili. Il risultato è una teatralizzazione del discorso filosofico, già presente nel breviario teatrale di Brecht, che in Benjamin diventa un modo nuovo di risolvere il discorso filosofico in narrazione, dove le immagini presentate attraverso la scrittura diventano concetti. Questo sistema di scrittura si trova oltre che in Benjamin, in Bloch, in Adorno e in Kafka, Musil, Krakauer e Brecht. Teoria e Teatro hanno una comune radice, quella del vedere, del rendere chiaro, del portare alla coscienza ciò che non lo è e naturalmente dell’unire il gesto, l’azione, alla parola. I due campi non sono dunque separati, ma specie nella filosofia e nel teatro dell’ultimo secolo, sono continuamente sovrapponibili.
Nel libro di Rokem, la discussione sulle costellazioni di significati, che hanno in Benjamin l’espressione più nota nei suoi Passages, arriva dopo un cammino non lineare, non dimostrativo, ma costruito a strati attraverso un continuo gioco di rimandi; non un semplice testo di critica teatrale, ma a sua volta un Denkmal (che rende esplicita l’origine e l’utilizzo dello stesso Denkmal).
Indice
Introduzione all’edizione italiana di Annalisa Sacchi
Prefazione
Introduzione
Prima parte: Incontri
1- Il Primo Incontro
2- “Chi va là?”
3- Messe in scena del sé
4- Walter Benjamin e Bertold Brecht discutono Franz Kafka: viaggi d’esilio
Seconda parte: Costellazioni
5- Incidenti e Costellazioni catastrofiche
6- Desideri, Promesse e Minacce
Appendici
Postfazione di Enrico Pitozzi
Nessun commento:
Posta un commento