Torino, Bollati Boringhieri, 2013, pp. 331, euro 30, ISBN 978-88-339-2401-4.
Il volume che Carlo Augusto Viano consegna al lettore è il frutto di una lunga serie di ricerche, i cui primi risultati sono stati presentati al pubblico in un saggio apparso sulla rivista «Quaderni Laici», nel quale egli incominciava a delineare una storia delle metamorfosi che l’idea di coscienza ha subìto nella cultura occidentale (cfr. Coscienza e diritti umani, in «Quaderni Laici» 6/2012, pp. 15-26). Già in quello scritto l’autore affermava che nel campo semantico dischiuso
dal lemma ‘coscienza’ si confrontano e si scontrano i plurimi significati ad esso attribuiti dalle differenti culture che lo hanno impiegato per i loro scopi. Ecco perché, introducendo il libro nato da quelle riflessioni, Viano puntualizza che esso, più che essere una storia esaustiva e unitaria dell’idea di coscienza, è un intreccio delle storie nelle quali è andata comparendo quell’idea (p. 9). E queste storie sono molte e molto diverse tra loro, in quanto si svolgono su palcoscenici lontani, nello spazio e nel tempo. Il libro incomincia presentando al lettore la scena del conflitto combattuto dalle colonie americane per sottrarsi al dominio inglese: in questo contesto si svolse un importante uso pubblico dell’idea di coscienza, la quale fu impiegata dai quaccheri della Pennsylvania per sostenere il loro diritto di sottrarsi all’obbligo coscrittivo, che avrebbe comportato l’uso delle armi contro i nemici del loro Paese (pp. 17-29). Da questa vicenda è nata un’immagine della coscienza che ha avuto larga fortuna: essa rappresenterebbe la ‘sede’ della parte più ‘alta’ di un individuo o di un gruppo di individui, la cui ‘voce’, in grado di fornire dei veri e propri imperativi morali, non può essere disattesa per alcun motivo, anche a costo di turbare l’equilibrio della comunità in cui si vive. Questa immagine è divenuta uno dei simboli più potenti della libertà di coscienza, della cogenza delle sue prescrizioni e del rispetto morale ad essa dovuto. Viano ci ricorda, però, anche un altro aspetto della vicenda, di solito meno citato: i quaccheri hanno rivendicato sì il diritto di non esercitare violenza sugli altri, ma sono stati costretti a pagarne il prezzo. Essi, infatti, rifiutando di combattere per difenderlo, hanno arrecato un danno immediatamente evidente al corpo politico del quale facevano parte, il quale ha preteso da essi una prestazione alternativa a quella che si rifiutavano di fornire. Così, molti accettarono di versare una tassa ingente per pagare la loro defezione dalla leva in un momento in cui la patria chiamava alle armi; altri dovettero cercare qualcuno che li sostituisse, accettando, dietro compenso, di andare in guerra per conto terzi; altri ancora, infine, rifiutarono pervicacemente qualunque forma di compromesso, ritenendolo degradante, accettando con il che di subire l’ostracismo del corpo sociale ed i trattamenti vessatori da esso conseguenti (che potevano arrivare alla violenza fisica ed alla confisca dei beni). I responsabili dell’ordine politico, tra i quali Benjamin Franklin e George Washington, erano divisi tra la necessità di assicurarsi la prestazione di tutti i cittadini in grado di usare le armi e quella di riconoscere un certo grado di autonomia agli stili etici minoritari, evitando così di attirarsi quelle accuse di dispotismo etico che l’opinione pubblica americana riteneva l’eredità più nefasta della vecchia Europa, che doveva rimanere estranea alla giovane America. Alla fine si optò per una soluzione di compromesso: le carte costituzionali dei singoli Stati dell’Unione riconoscevano l’obiezione di coscienza, collegandola però ad una motivazione religiosa, relativamente verificabile da parte dell’autorità politica, la quale si riservava la facoltà di indagare sul tenore e sulla consistenza di essa, che avrebbe potuto anche rivestire carattere fittizio. L’introduzione di questa clausola fungeva quindi da filtro, consentendo di circoscrivere il ricorso all’obiezione di coscienza e di prevenirne una diffusione indiscriminata. Al contrario la costituzione federale evitava accuratamente di menzionare la coscienza, adottando l’alibi che essa fosse una istanza di carattere pre-costituzionale, collocata “su un piano superiore a quello delle norme costituzionali, con le quali si regolano i vincoli esterni dei diritti fondamentali” (p. 23). In questo modo, però, come notava James Madison, anziché risolvere un problema spinoso, se ne sanciva l’istituzionalizzazione latente: il ricorso alla coscienza, infatti, sarebbe potuto ritornare in qualunque momento, e con esso la minaccia di una indisciplina generalizzata potenzialmente destabilizzante. Questo sarebbe stato lo scenario su cui avrebbero avuto luogo, da allora in poi, le vicende della coscienza, dei suoi usi e dei suoi abusi: da una parte l’incoercibile richiamo della voce della coscienza, dall’altra la rottura del patto sociale a cui esso può dare luogo, ed i rimedi adottati per limitarne i danni. Prima di proseguire, una osservazione incidentale: ci si può chiedere perché il libro non segua il medesimo schema del saggio che lo ha preceduto, che incominciava la narrazione, come consuetudine delle ricerche di Viano, dalla storia antica, per poi seguire una scansione cronologica progressiva. Il volume incomincia invece da una scena moderna, correndo il rischio di sconcertare il lettore, il quale si potrebbe sentire un po’ come chi arriva al cinema a film già iniziato. A mio avviso, con questa scelta l’autore vuole comunicare al pubblico che il suo lavoro esplora soprattutto, anche se non esclusivamente, uno specifico versante dell’idea di coscienza, cioè quello dei suoi usi politici, del grado di libertà di cui essa dovrebbe godere e delle conseguenze da essa suscitate. Dunque, da questo libro il lettore non dovrà aspettarsi una trattazione della coscienza quale si è configurata nell’ambito del dialogo tra la filosofia e le neuroscienze, che tanta attenzione sta riscuotendo negli ultimi anni. Fissata la cornice concettuale entro la quale intende muoversi, il volume, dal secondo capitolo in poi, adotta l’andamento storico caratteristico delle opere di Viano, proponendo una genealogia dei luoghi in cui la coscienza è stata chiamata in causa nella cultura occidentale. Secondo lo studioso torinese, essa non avrebbe rivestito un ruolo preminente nel mondo greco, dove sarebbe stata citata soprattutto da oratori, letterati e tragici, i quali la interpretavano come sede di dubbi, scrupoli e rimorsi, a volte fondati, a volte no: una parte dell’esperienza con cui tutti dovevano fare i conti, ma che non aveva caratteristiche speciali, né particolarmente nobili. Neanche i filosofi vi dedicavano grande attenzione, essendo più concentrati sull’orientamento dell’ontologia e della gnoseologia: essi si richiamavano alla coscienza quando esaminavano le modalità con cui un soggetto pensante, nel momento in cui pensa, ha la consapevolezza di sapere sia a che cosa sta pensando sia che sta pensando; la coscienza come consapevolezza dei propri atti conoscitivi e, in generale, “psicologici”, quindi, relativa al carattere concomitante e/o riflessivo di alcuni di essi (p. 42). Di nuovo, senza che a ciò fosse collegata una qualche funzione eminente. E neppure quando si occupavano di etica i filosofi antichi attribuivano un valore speciale alla coscienza. Anzi, Platone, raccontandoci la storia dell’anello di Gige (pp. 30-32), ci dice che un uomo che avesse la certezza di non essere scoperto dai suoi simili, potrebbe potenzialmente commettere ogni sorta di nefandezze. Infatti, non ci sono motivi per pensare che ognuno sia il giudice più adeguato di se stesso; anzi, si potrebbe essere verso se stessi più indulgenti di quanto lo si sia con altri, accrescendo le proprie responsabilità positive e sminuendo quelle negative. Certamente per Platone la giustizia è un ingrediente essenziale della vita umana, ma ha poche possibilità di realizzarsi all’interno di un individuo isolato, privo di relazioni interumane costanti. È la comunità politica il luogo in cui la giustizia può e deve realizzarsi, sotto la guida, severa ma benevola, dei filosofi. Il quadro cambia radicalmente con Paolo di Tarso, il quale propone due novità che influenzeranno la riflessione successiva. Egli introduce l’idea della coscienza come luogo della trasparenza di sé a se stessi, dove i dubbi ed i timori di cui aveva parlato il pensiero greco non hanno accesso: l’unico agente esterno in grado di penetrare in una zona così intima, a parte la persona che la vive, è lo sguardo divino, che tramite essa comunica alla persona la sua volontà. Si formerà così, partendo di qui, l’immagine canonica della coscienza come ‘foro interno’, che sopravvive ancora oggi. Non meno importante sarà l’altro versante della riflessione paolina: chi vive secondo coscienza, quindi rettamente, senza farsi concupire dai falsi idoli, vive secondo la legge (evangelica) senza saperlo, per cui acquista la possibilità di salvarsi anche se non ha conosciuto l’annunzio salvifico gesuano. Scaturisce di qui il tentativo di identificare i lineamenti di una “legge” detta “naturale”, il cui indirizzo sia comprensibile ed attuabile da parte di ognuno, al di là di ogni contingenza. Sarà questa l’eredità che Paolo trasmetterà agli studiosi posteriori: teologi, giuristi, decretalisti e canonisti medioevali si eserciteranno sui suoi passi, provando a districarne i numerosi nodi problematici irrisolti. La coscienza acquisterà così un ruolo di primo piano nella definizione dell’identità del cristianesimo romano: essa, attraverso le travagliate vicende della sinderesi, che qui non è possibile seguire per ragioni di spazio, sarà innestata sulla teoria platonica dell’anima, con la funzione di discernere i fondamenti della legge di natura (pp. 72-94). Per questo nel 1152 Pietro Lombardo poteva scrivere, richiamandosi all’interpretazione della visione di Ezechiele fornita da Girolamo, che la coscienza è una “scintilla superiore della ragione, che, come dice Girolamo, neppure in Caino poté estinguersi, vuole sempre il bene e odia sempre il male” (Sentenze, cit. a pag. 79). E spettava alla Chiesa di Roma orientare la coscienza dei fedeli in tutti i casi problematici: presentandosi quale unica ermeneuta del ‘foro interno’, essa poteva distinguersi sia dai potentati secolari sia dalle sedi apostoliche concorrenti, rivendicando il titolo di una sovranità superiore ad entrambe le istituzioni: di qui avrebbe preso avvio il disegno teocratico del Duecento, secondo il quale il papa era il potestà ‘naturale’ della cristianità. Ma alla coscienza si doveva collegare, paradossalmente, anche lo sgretolamento del cristianesimo costantiniano: attraverso la Riforma si sbriciolano le ambizioni di supremazia universalistica del papato e dell’impero, per lasciare spazio alle nascenti aggregazioni politiche territoriali. La coscienza giunge così nell’Europa dilaniata dalle guerre di religione, che era ben consapevole del suo carattere ambiguo: soprattutto nell’Inghilterra della Restaurazione, filosofi come Hobbes e Locke mettevano in guardia dal ricorso ad essa, specie nelle questioni di etica pubblica, dove il richiamo all’inviolabilità della coscienza poteva servire per sottrarre le proprie ragioni al confronto con quelle degli avversari, giustificando ogni tipo di condotta in base a ragioni che potevano essere arbitrarie (pp. 119-138). Forse anche per questo motivo le carte costituzionali, con la cui redazione si chiudeva la stagione delle grandi contrapposizioni religiose intracristiane, evitavano di menzionare la coscienza, concentrandosi sulle modalità dello scambio tra preferenze individuali ed interesse pubblico. Dopo le rivoluzioni americana e francese, che avevano portato al centro della scena il principio di nazionalità, l’Ottocento sarebbe stato pervaso dall’idea di rintracciare una “coscienza collettiva”, un Io superiore che doveva modellare l’ethos di Stati diventati nazioni, i quali potevano avere bisogno di cittadini disposti a sacrificarsi in nome di un ideale più grande di loro. Ovviamente ogni Paese doveva avere la sua coscienza, per plasmare la quale si serviva delle risorse tipiche della nazionalizzazione delle masse: l’istruzione pubblica ed il servizio militare. Proprio contro quest’ultimo ci si doveva scagliare, però, e proprio in nome della coscienza, ma questa volta di quella individuale. Conclusa la stagione dei conflitti mondiali, infatti, con il suo forte richiamo al dovere della pratica della violenza istituzionalizzata, nelle società opulente del secondo Novecento un numero sempre crescente di cittadini, soprattutto giovani, manifestava avversione per la coscrizione obbligatoria, sia quando essa fosse dovuta al reclutamento in vista di un intervento militare diretto, come in Viet Nam, sia quando fosse finalizzata all’espletamento del servizio militare ordinario. Una vicenda che sembrava dare ragione ai timori di Madison: nata come scelta provocatoria di gruppi dissidenti socialmente marginali, l’obiezione di coscienza alla leva obbligatoria dilagava a macchia d’olio; e non bastava a fermarla nemmeno il vincolo della motivazione religiosa, perché, soprattutto dopo il Viet Nam, essa rivendicava il diritto di rifiutare la violenza istituzionalizzata in quanto tale, senza accampare alibi allotrî. Ma proprio quando finalmente sembrava riportare una vittoria, l’obiezione di coscienza perdeva l’originario slancio etico per diventare una risorsa di comodo a disposizione dei giovani che non volevano affrontare le durezze della vita da caserma: l’ultimo atto della vicenda avrebbe visto gli Stati occidentali rinunciare senza troppi rimpianti alla leva di massa, preferendo invece la costituzione di un esercito di professionisti, ritenuto più solido e più affidabile anche dai vertici delle autorità militari. Nel frattempo la coscienza avrebbe riportato nuove vittorie, insediandosi in cittadelle prima ritenute inespugnabili. Ancora negli Stati Uniti, infatti, ci furono le prime significative aperture della giurisprudenza riguardo l’aborto, interpretato attraverso il filtro della privacy: non essendoci sufficiente consenso riguardo il momento dell’animazione, da sempre oggetto di contese, alla donna spettava il diritto di regolarsi “secondo coscienza”, almeno nei primi tre mesi dal concepimento, durante i quali è più difficile pensare all’embrione come ad un essere a sé stante. Dunque la libertà di coscienza si arricchiva di una determinazione inedita, che rappresentava una svolta: essa poteva includere la libertà abortiva, consentendo alle donne la gestione di uno spazio prima impensabile, nel quale esercitare creativamente la propria autonomia, soprattutto in caso di pericolo per la loro salute e per quella della prole, quando fosse affetta da malformazioni e malattie non curabili. Eppure proprio da qui doveva partire la contro-offensiva delle culture basate sull’eteronomia: così la libertà di coscienza è stata rivendicata per invocare il diritto degli operatori sanitari di sottrarsi alle nuove prestazioni che la loro corporazione era tenuta a fornire in base all’evoluzione del diritto positivo. Tutto ciò è avvenuto con particolare evidenza nei Paesi con autorità religiose potenti e ramificate, che hanno orientato alla loro causa settori significativi dell’opinione pubblica. Per questo Viano incomincia e conclude il suo studio squadernando due momenti opposti della storia della coscienza: i quaccheri americani rifiutarono il dovere di usare violenza su altri e ne pagarono il prezzo; gli operatori sanitari cattolici reclamano il diritto di usare violenza su altri, imponendo ad essi la propria concezione di ‘bene’, ma non ne pagano alcun prezzo, anzi, spesso fanno carriera, grazie alla docilità con cui si conformano alle prescrizioni delle autorità religiose nelle questioni dette “eticamente sensibili”. Nelle pagine finali del suo volume, Viano suggerisce che, data la storia contorta e contraddittoria della coscienza, è probabilmente ingenuo chiedersi quale dei suoi usi sia il più ‘vero’: non è però peregrino chiedersi quale sia il meno strumentale. Sembrerebbe, infatti, che l’uso della coscienza chiami in causa le idealità di chi se ne serve: quando questi, in nome di tali idealità, sia disposto a sopportare conseguenze sgradevoli, le quali, anche quando non ne minacciano l’integrità fisica, si possono tradurre in forme discriminative più o meno accentuate, allora si può ritenere che il richiamo alla coscienza non rivesta carattere fittizio. Quando, invece, l’obiettore può trarre benefici più o meno cospicui dalla scelta di obiettare, è ragionevole sospettare che tale scelta possa celare un calcolo in vista del proprio tornaconto: in questo caso sembrerebbero essere in gioco non incomprimibili afflati interiori, ma meschini interessi esteriori. Emblematico il caso dei professionisti della politica italiana: costoro, ogni volta che sono chiamati a prendere un provvedimento potenzialmente negativo verso un membro della loro corporazione, puntualmente si pronunciano contro tale provvedimento, accampando la giustificazione che hanno agito secondo i dettami delle loro coscienze. “Mai come in questi casi emerge il carattere fittizio del richiamo alla coscienza, perché mai come in questi casi il comportamento di coloro i quali si richiamano alla coscienza è infallibilmente prevedibile in base ai loro interessi, tutt’altro che interiori”. Ci troviamo così di fronte “l’ultimo stadio della scala di finzioni, lungo la quale l’uso della coscienza si degrada” (p. 289). Concludendo questa nota ci si può chiedere se Viano, che negli ultimi anni ha intensificato la sua polemica contro il fideismo ed il clericalismo, sottoscriverebbe l’affermazione di Giovanni Boniolo secondo cui la libertà di coscienza è la caratteristica distintiva della laicità. Ad avviso di Boniolo, infatti, l’essenza della laicità è da ricercare nella “libertà di credenza, di conoscenza, di critica e di autocritica”, che egli raggruppa sotto l’ombrello semantico della “libertà di coscienza” (cfr. G. Boniolo, Introduzione a Laicità. Una geografia delle nostre radici, a cura di G. Boniolo, Torino, Einaudi, 2006, pp. IX-XXVI). Credo che, anche se dovesse respingere la validità di questa proposta, Viano ne condividerebbe l’atteggiamento operativo: essa non sfrutta il versante interiore del richiamo alla coscienza, ma ne puntualizza l’uso pubblico, fatto, in questo caso, di considerazioni intersoggettive che si possono condividere o rifiutare, senza invocare la facoltà di rifugiarsi in una sorta di extra-territorialità teorica, nella quale nessuno può accedere, ma dalla quale si può facilmente avere la tentazione di imporre le proprie convinzioni ad altri, sottraendosi al duro confronto con idee diverse.
dal lemma ‘coscienza’ si confrontano e si scontrano i plurimi significati ad esso attribuiti dalle differenti culture che lo hanno impiegato per i loro scopi. Ecco perché, introducendo il libro nato da quelle riflessioni, Viano puntualizza che esso, più che essere una storia esaustiva e unitaria dell’idea di coscienza, è un intreccio delle storie nelle quali è andata comparendo quell’idea (p. 9). E queste storie sono molte e molto diverse tra loro, in quanto si svolgono su palcoscenici lontani, nello spazio e nel tempo. Il libro incomincia presentando al lettore la scena del conflitto combattuto dalle colonie americane per sottrarsi al dominio inglese: in questo contesto si svolse un importante uso pubblico dell’idea di coscienza, la quale fu impiegata dai quaccheri della Pennsylvania per sostenere il loro diritto di sottrarsi all’obbligo coscrittivo, che avrebbe comportato l’uso delle armi contro i nemici del loro Paese (pp. 17-29). Da questa vicenda è nata un’immagine della coscienza che ha avuto larga fortuna: essa rappresenterebbe la ‘sede’ della parte più ‘alta’ di un individuo o di un gruppo di individui, la cui ‘voce’, in grado di fornire dei veri e propri imperativi morali, non può essere disattesa per alcun motivo, anche a costo di turbare l’equilibrio della comunità in cui si vive. Questa immagine è divenuta uno dei simboli più potenti della libertà di coscienza, della cogenza delle sue prescrizioni e del rispetto morale ad essa dovuto. Viano ci ricorda, però, anche un altro aspetto della vicenda, di solito meno citato: i quaccheri hanno rivendicato sì il diritto di non esercitare violenza sugli altri, ma sono stati costretti a pagarne il prezzo. Essi, infatti, rifiutando di combattere per difenderlo, hanno arrecato un danno immediatamente evidente al corpo politico del quale facevano parte, il quale ha preteso da essi una prestazione alternativa a quella che si rifiutavano di fornire. Così, molti accettarono di versare una tassa ingente per pagare la loro defezione dalla leva in un momento in cui la patria chiamava alle armi; altri dovettero cercare qualcuno che li sostituisse, accettando, dietro compenso, di andare in guerra per conto terzi; altri ancora, infine, rifiutarono pervicacemente qualunque forma di compromesso, ritenendolo degradante, accettando con il che di subire l’ostracismo del corpo sociale ed i trattamenti vessatori da esso conseguenti (che potevano arrivare alla violenza fisica ed alla confisca dei beni). I responsabili dell’ordine politico, tra i quali Benjamin Franklin e George Washington, erano divisi tra la necessità di assicurarsi la prestazione di tutti i cittadini in grado di usare le armi e quella di riconoscere un certo grado di autonomia agli stili etici minoritari, evitando così di attirarsi quelle accuse di dispotismo etico che l’opinione pubblica americana riteneva l’eredità più nefasta della vecchia Europa, che doveva rimanere estranea alla giovane America. Alla fine si optò per una soluzione di compromesso: le carte costituzionali dei singoli Stati dell’Unione riconoscevano l’obiezione di coscienza, collegandola però ad una motivazione religiosa, relativamente verificabile da parte dell’autorità politica, la quale si riservava la facoltà di indagare sul tenore e sulla consistenza di essa, che avrebbe potuto anche rivestire carattere fittizio. L’introduzione di questa clausola fungeva quindi da filtro, consentendo di circoscrivere il ricorso all’obiezione di coscienza e di prevenirne una diffusione indiscriminata. Al contrario la costituzione federale evitava accuratamente di menzionare la coscienza, adottando l’alibi che essa fosse una istanza di carattere pre-costituzionale, collocata “su un piano superiore a quello delle norme costituzionali, con le quali si regolano i vincoli esterni dei diritti fondamentali” (p. 23). In questo modo, però, come notava James Madison, anziché risolvere un problema spinoso, se ne sanciva l’istituzionalizzazione latente: il ricorso alla coscienza, infatti, sarebbe potuto ritornare in qualunque momento, e con esso la minaccia di una indisciplina generalizzata potenzialmente destabilizzante. Questo sarebbe stato lo scenario su cui avrebbero avuto luogo, da allora in poi, le vicende della coscienza, dei suoi usi e dei suoi abusi: da una parte l’incoercibile richiamo della voce della coscienza, dall’altra la rottura del patto sociale a cui esso può dare luogo, ed i rimedi adottati per limitarne i danni. Prima di proseguire, una osservazione incidentale: ci si può chiedere perché il libro non segua il medesimo schema del saggio che lo ha preceduto, che incominciava la narrazione, come consuetudine delle ricerche di Viano, dalla storia antica, per poi seguire una scansione cronologica progressiva. Il volume incomincia invece da una scena moderna, correndo il rischio di sconcertare il lettore, il quale si potrebbe sentire un po’ come chi arriva al cinema a film già iniziato. A mio avviso, con questa scelta l’autore vuole comunicare al pubblico che il suo lavoro esplora soprattutto, anche se non esclusivamente, uno specifico versante dell’idea di coscienza, cioè quello dei suoi usi politici, del grado di libertà di cui essa dovrebbe godere e delle conseguenze da essa suscitate. Dunque, da questo libro il lettore non dovrà aspettarsi una trattazione della coscienza quale si è configurata nell’ambito del dialogo tra la filosofia e le neuroscienze, che tanta attenzione sta riscuotendo negli ultimi anni. Fissata la cornice concettuale entro la quale intende muoversi, il volume, dal secondo capitolo in poi, adotta l’andamento storico caratteristico delle opere di Viano, proponendo una genealogia dei luoghi in cui la coscienza è stata chiamata in causa nella cultura occidentale. Secondo lo studioso torinese, essa non avrebbe rivestito un ruolo preminente nel mondo greco, dove sarebbe stata citata soprattutto da oratori, letterati e tragici, i quali la interpretavano come sede di dubbi, scrupoli e rimorsi, a volte fondati, a volte no: una parte dell’esperienza con cui tutti dovevano fare i conti, ma che non aveva caratteristiche speciali, né particolarmente nobili. Neanche i filosofi vi dedicavano grande attenzione, essendo più concentrati sull’orientamento dell’ontologia e della gnoseologia: essi si richiamavano alla coscienza quando esaminavano le modalità con cui un soggetto pensante, nel momento in cui pensa, ha la consapevolezza di sapere sia a che cosa sta pensando sia che sta pensando; la coscienza come consapevolezza dei propri atti conoscitivi e, in generale, “psicologici”, quindi, relativa al carattere concomitante e/o riflessivo di alcuni di essi (p. 42). Di nuovo, senza che a ciò fosse collegata una qualche funzione eminente. E neppure quando si occupavano di etica i filosofi antichi attribuivano un valore speciale alla coscienza. Anzi, Platone, raccontandoci la storia dell’anello di Gige (pp. 30-32), ci dice che un uomo che avesse la certezza di non essere scoperto dai suoi simili, potrebbe potenzialmente commettere ogni sorta di nefandezze. Infatti, non ci sono motivi per pensare che ognuno sia il giudice più adeguato di se stesso; anzi, si potrebbe essere verso se stessi più indulgenti di quanto lo si sia con altri, accrescendo le proprie responsabilità positive e sminuendo quelle negative. Certamente per Platone la giustizia è un ingrediente essenziale della vita umana, ma ha poche possibilità di realizzarsi all’interno di un individuo isolato, privo di relazioni interumane costanti. È la comunità politica il luogo in cui la giustizia può e deve realizzarsi, sotto la guida, severa ma benevola, dei filosofi. Il quadro cambia radicalmente con Paolo di Tarso, il quale propone due novità che influenzeranno la riflessione successiva. Egli introduce l’idea della coscienza come luogo della trasparenza di sé a se stessi, dove i dubbi ed i timori di cui aveva parlato il pensiero greco non hanno accesso: l’unico agente esterno in grado di penetrare in una zona così intima, a parte la persona che la vive, è lo sguardo divino, che tramite essa comunica alla persona la sua volontà. Si formerà così, partendo di qui, l’immagine canonica della coscienza come ‘foro interno’, che sopravvive ancora oggi. Non meno importante sarà l’altro versante della riflessione paolina: chi vive secondo coscienza, quindi rettamente, senza farsi concupire dai falsi idoli, vive secondo la legge (evangelica) senza saperlo, per cui acquista la possibilità di salvarsi anche se non ha conosciuto l’annunzio salvifico gesuano. Scaturisce di qui il tentativo di identificare i lineamenti di una “legge” detta “naturale”, il cui indirizzo sia comprensibile ed attuabile da parte di ognuno, al di là di ogni contingenza. Sarà questa l’eredità che Paolo trasmetterà agli studiosi posteriori: teologi, giuristi, decretalisti e canonisti medioevali si eserciteranno sui suoi passi, provando a districarne i numerosi nodi problematici irrisolti. La coscienza acquisterà così un ruolo di primo piano nella definizione dell’identità del cristianesimo romano: essa, attraverso le travagliate vicende della sinderesi, che qui non è possibile seguire per ragioni di spazio, sarà innestata sulla teoria platonica dell’anima, con la funzione di discernere i fondamenti della legge di natura (pp. 72-94). Per questo nel 1152 Pietro Lombardo poteva scrivere, richiamandosi all’interpretazione della visione di Ezechiele fornita da Girolamo, che la coscienza è una “scintilla superiore della ragione, che, come dice Girolamo, neppure in Caino poté estinguersi, vuole sempre il bene e odia sempre il male” (Sentenze, cit. a pag. 79). E spettava alla Chiesa di Roma orientare la coscienza dei fedeli in tutti i casi problematici: presentandosi quale unica ermeneuta del ‘foro interno’, essa poteva distinguersi sia dai potentati secolari sia dalle sedi apostoliche concorrenti, rivendicando il titolo di una sovranità superiore ad entrambe le istituzioni: di qui avrebbe preso avvio il disegno teocratico del Duecento, secondo il quale il papa era il potestà ‘naturale’ della cristianità. Ma alla coscienza si doveva collegare, paradossalmente, anche lo sgretolamento del cristianesimo costantiniano: attraverso la Riforma si sbriciolano le ambizioni di supremazia universalistica del papato e dell’impero, per lasciare spazio alle nascenti aggregazioni politiche territoriali. La coscienza giunge così nell’Europa dilaniata dalle guerre di religione, che era ben consapevole del suo carattere ambiguo: soprattutto nell’Inghilterra della Restaurazione, filosofi come Hobbes e Locke mettevano in guardia dal ricorso ad essa, specie nelle questioni di etica pubblica, dove il richiamo all’inviolabilità della coscienza poteva servire per sottrarre le proprie ragioni al confronto con quelle degli avversari, giustificando ogni tipo di condotta in base a ragioni che potevano essere arbitrarie (pp. 119-138). Forse anche per questo motivo le carte costituzionali, con la cui redazione si chiudeva la stagione delle grandi contrapposizioni religiose intracristiane, evitavano di menzionare la coscienza, concentrandosi sulle modalità dello scambio tra preferenze individuali ed interesse pubblico. Dopo le rivoluzioni americana e francese, che avevano portato al centro della scena il principio di nazionalità, l’Ottocento sarebbe stato pervaso dall’idea di rintracciare una “coscienza collettiva”, un Io superiore che doveva modellare l’ethos di Stati diventati nazioni, i quali potevano avere bisogno di cittadini disposti a sacrificarsi in nome di un ideale più grande di loro. Ovviamente ogni Paese doveva avere la sua coscienza, per plasmare la quale si serviva delle risorse tipiche della nazionalizzazione delle masse: l’istruzione pubblica ed il servizio militare. Proprio contro quest’ultimo ci si doveva scagliare, però, e proprio in nome della coscienza, ma questa volta di quella individuale. Conclusa la stagione dei conflitti mondiali, infatti, con il suo forte richiamo al dovere della pratica della violenza istituzionalizzata, nelle società opulente del secondo Novecento un numero sempre crescente di cittadini, soprattutto giovani, manifestava avversione per la coscrizione obbligatoria, sia quando essa fosse dovuta al reclutamento in vista di un intervento militare diretto, come in Viet Nam, sia quando fosse finalizzata all’espletamento del servizio militare ordinario. Una vicenda che sembrava dare ragione ai timori di Madison: nata come scelta provocatoria di gruppi dissidenti socialmente marginali, l’obiezione di coscienza alla leva obbligatoria dilagava a macchia d’olio; e non bastava a fermarla nemmeno il vincolo della motivazione religiosa, perché, soprattutto dopo il Viet Nam, essa rivendicava il diritto di rifiutare la violenza istituzionalizzata in quanto tale, senza accampare alibi allotrî. Ma proprio quando finalmente sembrava riportare una vittoria, l’obiezione di coscienza perdeva l’originario slancio etico per diventare una risorsa di comodo a disposizione dei giovani che non volevano affrontare le durezze della vita da caserma: l’ultimo atto della vicenda avrebbe visto gli Stati occidentali rinunciare senza troppi rimpianti alla leva di massa, preferendo invece la costituzione di un esercito di professionisti, ritenuto più solido e più affidabile anche dai vertici delle autorità militari. Nel frattempo la coscienza avrebbe riportato nuove vittorie, insediandosi in cittadelle prima ritenute inespugnabili. Ancora negli Stati Uniti, infatti, ci furono le prime significative aperture della giurisprudenza riguardo l’aborto, interpretato attraverso il filtro della privacy: non essendoci sufficiente consenso riguardo il momento dell’animazione, da sempre oggetto di contese, alla donna spettava il diritto di regolarsi “secondo coscienza”, almeno nei primi tre mesi dal concepimento, durante i quali è più difficile pensare all’embrione come ad un essere a sé stante. Dunque la libertà di coscienza si arricchiva di una determinazione inedita, che rappresentava una svolta: essa poteva includere la libertà abortiva, consentendo alle donne la gestione di uno spazio prima impensabile, nel quale esercitare creativamente la propria autonomia, soprattutto in caso di pericolo per la loro salute e per quella della prole, quando fosse affetta da malformazioni e malattie non curabili. Eppure proprio da qui doveva partire la contro-offensiva delle culture basate sull’eteronomia: così la libertà di coscienza è stata rivendicata per invocare il diritto degli operatori sanitari di sottrarsi alle nuove prestazioni che la loro corporazione era tenuta a fornire in base all’evoluzione del diritto positivo. Tutto ciò è avvenuto con particolare evidenza nei Paesi con autorità religiose potenti e ramificate, che hanno orientato alla loro causa settori significativi dell’opinione pubblica. Per questo Viano incomincia e conclude il suo studio squadernando due momenti opposti della storia della coscienza: i quaccheri americani rifiutarono il dovere di usare violenza su altri e ne pagarono il prezzo; gli operatori sanitari cattolici reclamano il diritto di usare violenza su altri, imponendo ad essi la propria concezione di ‘bene’, ma non ne pagano alcun prezzo, anzi, spesso fanno carriera, grazie alla docilità con cui si conformano alle prescrizioni delle autorità religiose nelle questioni dette “eticamente sensibili”. Nelle pagine finali del suo volume, Viano suggerisce che, data la storia contorta e contraddittoria della coscienza, è probabilmente ingenuo chiedersi quale dei suoi usi sia il più ‘vero’: non è però peregrino chiedersi quale sia il meno strumentale. Sembrerebbe, infatti, che l’uso della coscienza chiami in causa le idealità di chi se ne serve: quando questi, in nome di tali idealità, sia disposto a sopportare conseguenze sgradevoli, le quali, anche quando non ne minacciano l’integrità fisica, si possono tradurre in forme discriminative più o meno accentuate, allora si può ritenere che il richiamo alla coscienza non rivesta carattere fittizio. Quando, invece, l’obiettore può trarre benefici più o meno cospicui dalla scelta di obiettare, è ragionevole sospettare che tale scelta possa celare un calcolo in vista del proprio tornaconto: in questo caso sembrerebbero essere in gioco non incomprimibili afflati interiori, ma meschini interessi esteriori. Emblematico il caso dei professionisti della politica italiana: costoro, ogni volta che sono chiamati a prendere un provvedimento potenzialmente negativo verso un membro della loro corporazione, puntualmente si pronunciano contro tale provvedimento, accampando la giustificazione che hanno agito secondo i dettami delle loro coscienze. “Mai come in questi casi emerge il carattere fittizio del richiamo alla coscienza, perché mai come in questi casi il comportamento di coloro i quali si richiamano alla coscienza è infallibilmente prevedibile in base ai loro interessi, tutt’altro che interiori”. Ci troviamo così di fronte “l’ultimo stadio della scala di finzioni, lungo la quale l’uso della coscienza si degrada” (p. 289). Concludendo questa nota ci si può chiedere se Viano, che negli ultimi anni ha intensificato la sua polemica contro il fideismo ed il clericalismo, sottoscriverebbe l’affermazione di Giovanni Boniolo secondo cui la libertà di coscienza è la caratteristica distintiva della laicità. Ad avviso di Boniolo, infatti, l’essenza della laicità è da ricercare nella “libertà di credenza, di conoscenza, di critica e di autocritica”, che egli raggruppa sotto l’ombrello semantico della “libertà di coscienza” (cfr. G. Boniolo, Introduzione a Laicità. Una geografia delle nostre radici, a cura di G. Boniolo, Torino, Einaudi, 2006, pp. IX-XXVI). Credo che, anche se dovesse respingere la validità di questa proposta, Viano ne condividerebbe l’atteggiamento operativo: essa non sfrutta il versante interiore del richiamo alla coscienza, ma ne puntualizza l’uso pubblico, fatto, in questo caso, di considerazioni intersoggettive che si possono condividere o rifiutare, senza invocare la facoltà di rifugiarsi in una sorta di extra-territorialità teorica, nella quale nessuno può accedere, ma dalla quale si può facilmente avere la tentazione di imporre le proprie convinzioni ad altri, sottraendosi al duro confronto con idee diverse.
Indice
Introduzione, p. 9
Intoccabili armi, p. 17
Conosci te stesso, p. 30
Coscienze deboli ed eretici, p. 52
La visione di Ezechiele, p. 72
Coscienze tenere, p. 95
La civilizzazione della coscienza, p. 119
La coscienza collettiva, p. 160
Addio alle armi, p. 183
Scienza e coscienza, p. 217
Alle origini della vita, p. 250
Tra la vita e la morte, p. 269
Note, p. 291
Indice dei nomi, p. 327
3 commenti:
Ho letto volentieri anche questa lucidissima ed invitante recensione di Gaetano Vena. Ora, non so se acquisterò e leggerò il libro di C.A. Viano; riconosco però l'importanza del suo tentativo di affrontare un tema tanto complesso e ricco di sfaccettature. Solo due osservazioni fugaci e forse fallaci, poiché è alto il rischio di prendere abbagli parlando di libri senza averli letti in prima persona, quand'anche con la mediazione di ottimi recensori. 1) Viano parebbe distinguere una coscienza come motore interiore profondo (connesso a volani e pistoni morali) ed una pseudo-coscienza come motore superficiale di interessi meschini e grevi (vedi il caso dei medici obiettori nell'Italia di oggi). Io, su questa raffigurazione, ho qualche dubbio. Credo che non si debbano distinguere propensioni morali che agitano la coscienza da propensioni immorali che ne esonderebbero, o che abbiano un'altra sorgente. La coscienza può partorire anche scelte abominevoli che si configurano come scelte morali, cioè di natura morale. Pertanto: i medici obiettori POSSONO fare una scelta immorale che deriva da un moto di coscienza (la LORO coscienza) e di cui sono stoltamente convintissimi, anche nel profondo; e - per analogia - persone pie possono agire in modo superficiale e meccanico (facendo anche del bene) semplicemente aderendo a dettami e regole di cui hanno una coscienza, parziale o scarsa. Tommaso porta l'esempio del fare l'elemosina: si può fare volentieri o malvolentieri; in entrambi i casi è meglio che non farla; tuttavia la piena coscienza di quell'atto morale conduce al fare elemosina volentieri. Tommaso, per farla breve, evita la seguente dicotomia: fare l'elemosina è un atto secondo coscienza; non farla è una nefandezza che non aderisce alla coscienza; perché coscienza può essere anche errore... 2) Viano, dagli esempi di Vena, sembra interessato alle obiezioni di coscienza, agli atti di coscienza che abbiano implicazioni di natura sociale, anzi pubblica, o addirittura politica. Ecco, questo potrebbe essere un limite d'analisi, ed insieme anche una facile tentazione: l'idea che agire secondo coscienza riguardi pochi atti importanti nella vita (la coscrizione, il voto, l'aborto...) conduce infatti ad un'idea di umanità che, per tutto il resto del tempo, nell'opera diuturna della vita ordinaria, non ha responsabilità ed oneri da sostenere. Io invece penso che la difficile scelta dei quaccheri, si ripeta per ciascuno di noi ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni istante. Viano, in fondo, sembrerebbe postulare che l'atto di coscienza riguardi una sfera dell'umano tanto sotterranea ed incrostata dalla meschinità di altri interessi, e spuri alla morale, che una sua rivelazione sia una rara epifania, o sia una pubblica resa, come il rogo d'una strega o la nomina d'un vescovo; e quindi abbia regole a sé. Un'involontaria sacralizzazione della coscienza, mi pare.
Ho letto con interesse il commento di Edoardo Gianfagna, che ringrazio dell'attenzione dedicata alla mia recensione. Leggendo le sue osservazioni, ho dovuto prendere atto di non essere riuscito a rendere con la dovuta chiarezza un aspetto fondamentale del pensiero di Viano. Procediamo con ordine. Secondo Gianfagna, Viano incorre in "un'involontaria sacralizzazione della coscienza", laddove sostiene che essa entri in gioco solo negli eventi 'importanti' della vita, come, per esempio, i casi cruciali della bioetica. Rimarrebbero così fuori tutti gli aspetti 'normali' della vita morale, che interessano la vita di "ciascuno di noi ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni istante". In realtà, secondo Viano, come ho cercato di mostrare, sono precisamente questi aspetti 'ordinari' della vita morale che vanno protetti dall'intrusione di coercizioni surrettizie, le quali trovano un varco proprio attraverso il richiamo alla coscienza. Le filosofie che si servono di questa idea, infatti, si propongono, in genere, di restringere l'esercizio della "vita umana in prima persona" (P. Donatelli) e di conseguenza quello delle scelte morali. Queste ultime possono trovare uno spazio in cui acquistano senso quando ci liberiamo di ipoteche onerose ed arbitrarie, come appunto quelle connesse alla coscienza, ai suoi divieti ed ai suoi tabù. Non è un caso che nel suo Etica pubblica (Laterza, 2002), Viano abbia sostenuto che le filosofie che hanno difeso con maggiore coerenza teorica posizioni etiche progressiste ed antiproibizioniste siano ispirate alle varie versioni dell'utilitarismo, in nessuna delle quali compare il ricorso alla coscienza. Detto questo, se dovessi scrivere ancora per ReF, cercherò di focalizzare meglio gli argomenti portanti dei libri di cui avrò occasione di occuparmi.
Ringrazio con calore il recensore Gaetano Vena, che qui si è speso anche in una replica non dovuta alle mie libere osservazioni; tanto libere da aver spinto la discussione, con ogni probabilità, oltre il merito stesso del libro recensito. Dubito che il recensore abbia da rimproverarsi alcunché in ordine a chiarezza e capacitá di gerarchizzare le idee in analisi; piuttosto, direi che amo mettere alla prova quelle idee, quasi stirandole oltre il necessario. Perchè il necessario è spesso l'ovvio; e l'innecessario è il temuto o il non detto, in tutte le sue accezioni buone e cattive.
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