Macerata, Quodlibet, 2012, pp. 320, euro 28, ISBN 9788874625482
L'Autore,
che in un precedente volume (Dover
Decidere, Carocci, Roma, 2010) ha esaminato l’approccio filosofico del
pragmatismo da un punto di vista prettamente teorico-giuridico, affronta ora in
questo nuovo lavoro lo stesso indirizzo da una prospettiva storica e
critico-discorsiva. Si tratta di una raccolta di saggi, nei quali egli cerca,
con accurata preparazione e vigile discernimento, di mostrare, in chiave pragmatista,
la debolezza del dualismo tra conoscenza e azione, puntando sin dall’inizio
l'attenzione all’intreccio esistente tra percezione, pensiero ed azione.
Prendendo
le mosse da tale relazione, l’Autore presenta una trattazione organica delle
possibili diverse articolazioni, tra dimensione pratica (agire) e conoscitiva
dell’esperienza (sapere). In tal senso, sono in dettaglio analizzati sei
possibili “nodi” che intrecciano tra loro il conoscere e l’agire: 1) la
“massima pragmatica” di Peirce, secondo cui per determinare il significato di
un concetto è necessario considerare quali effetti pratici lo stesso abbia; 2)
la “teoria di Ramsey”, per cui l’utilità di una credenza va di pari passo con
la sua verità; 3) il “principio di precauzione”, secondo il quale se non si
hanno delle credenze fattuali certe è necessario adottare nella condotta delle
misure cautelative; 4) le “norme condizionali”, in base alle quali si danno
conseguenze normative in relazione ai fatti; 5) la struttura di un processo
giuridico (civile o penale), in cui si danno conseguenze normative in relazione
ai fatti accertati in un contesto istituzionale; 6) la struttura logica
dell’attività critica, nella quale la critica è sensata solo se il suo oggetto
è conosciuto.
L’altra questione analizzata dall’Autore riguarda la distinzione, da un punto di vista filosofico, tra valori e valutazioni. Von Wright considera le valutazioni come degli atteggiamenti emozionali e soggettivi rispetto ad un oggetto. Da questo assunto, accettando un punto di vista pragmatista, Tuzet cerca, in più punti del libro, di sostenere che la proprietà dell’esser vero sia oggettivamente determinabile, pur non implicando di per sé alcuna conseguenza normativa o valoriale.
Nella prima parte del volume (Esperienza ed inferenza, pp. 21-63) si analizzano alcune connessioni tra le pratiche inferenziali individuali e gli aspetti dell’esperienza.
Nel primo capitolo (Esperienza ed inferenza, pp. 21-40), si sottolinea l’importanza della nozione di esperienza in chiave inferenziale, in riferimento alla quale è possibile distinguere tra accezioni pratiche, conoscitive o percettive. Per poter spiegare ciò, è utile ricordare il caso della “moka leggera” (p. 25). Lo stesso è filosoficamente interessante sotto due profili: da un lato, in esso l’Autore rimanda ad un’esperienza il cui contenuto non è solo intrinseco, ma si è determinato in relazione all’esperienza passata (nell’esempio, che il peso della moka fosse insolito); dall’altro, egli ha inferenzialmente elaborato la sensazione di insolita leggerezza, che è stata accompagnata da almeno due inferenze: a) l’ipotesi che si fosse dimenticato di mettere l’acqua nella moka e b) la previsione che aprendo la moka avrebbe potuto verificare o falsificare l’ipotesi. Tale caso è interessante non solo perché la memoria risale ad un’esperienza più lontana, ma soprattutto perché ad essa è accompagnata la sensazione dell’insolito peso che produce in maniera non riflessa un’inferenza esplicativa ed una predittiva, tesa a verificare o falsificare quella esplicativa. Da ciò deriva che la nozione di esperienza è tanto vaga quanto ricca di implicazioni.
Nel secondo capitolo (L’abduzione percettiva, pp. 41-63), Tuzet si sofferma sul concetto di inferenza ipotetica che spiega e classifica le sensazioni, mettendone in luce le caratteristiche e i limiti. In merito, egli utilizza e sottopone a critica la tesi di Charles S. Peirce, che distingue tra percetto e giudizio percettivo, dove il primo compare nelle premesse dell’inferenza percettiva e il secondo ne costituisce la conclusione.
Nella seconda parte del volume (Norme e valori, pp. 67-177), viene analizzato il ruolo delle norme e dei valori nell’impresa della conoscenza.
In dettaglio, nel capitolo 3 (Sulle scienze normative, pp. 67-88), vengono presentate le principali tesi pragmatiste in merito alle scienze normative (logica, etica ed estetica), mettendole a confronto con il perseguimento di certi fini o valori supremi (il vero, il bene, il bello) socialmente o individualmente eletti (p. 67). In particolare, sono messe a confronto le posizioni “platoniste” di Frege e Husserl con quelle pragmatiste di Peirce e Ramsey.
Nel capitolo 4 (Il principio sociale della logica, pp. 89-109), l’Autore propone una riflessione critica circa la normatività della logica, discutendo l’argomento di Peirce secondo il quale la logica avrebbe un “principio sociale”. In dettaglio, il filosofo americano aveva affermato che per ragionare validamente, gli individui devono porsi nell’ottica della comunità illimitata degli uomini. Inoltre, egli sosteneva altresì che questi ultimi, per essere logici, devono essere sociali, non egoisti (p. 90). Tuzet obbietta che non è spiegato come si possa derivare da una tesi sulla validità del ragionamento una tesi sulla deliberazione pratica, e che le condizioni del ragionamento valido non sono identiche a quelle di una scelta razionale, comportando quest’ultima delle premesse normative che il primo non richiede.
Nel capitolo 5 (Logica e usi del pragmatismo, pp. 109-123), si rende conto della logica utilizzata nella massima pragmatica di Peirce, che generalizzata è espressa nella formula “il significato di x sta nelle conseguenze di x”. Quest’ultima enuncia un metodo logico capace di determinare la significazione reale dei concetti e discriminare le definizioni reali da quelle puramente nominali (p. 114).
Nel capitolo 6 (Ha senso fare previsioni normative? pp. 125-140), Tuzet si sofferma su alcuni punti di tale logica, senza nasconderne i limiti rispetto ai concetti normativi (il cui contenuto non è riducibile a un insieme di previsioni). È opportuno qui ricordare le riflessioni proposte in merito dal filosofo ferrarese Mario Calderoni. Questi sottoscrive il pragmatismo di Peirce e lo distingue da quello di James, che qualifica come una sorta di volontarismo. Infatti, secondo Calderoni, la dottrina jamesiana del Will to Believe tende a subordinare le nostre credenze all’opportunità pratica di acquisirle, mantenerle, eliminarle (p. 128); al contrario, è importante la previsione delle loro conseguenze obbiettive.
Nel capitolo 7 (Sul possibile moto della macchina, pp. 162), l’autore si concentra sulla normatività semantica, e in particolare sul legame tra normatività e possibilità delle condotte regolate. In particolare, ciò che viene chiarito è che il diritto non può essere qualificato, come sostiene ad esempio il giusrealismo scandinavo, come una macchina, intesa quale insieme di movimenti o disposizioni. Quindi, la normatività giuridica è, allo stesso tempo, indipendente e dipendente dalla realtà, in quanto una norma non è riducibile a un fatto e non avrebbe senso se non regolasse qualcosa di ontologicamente e praticamente possibile (p. 162).
Nel capitolo 8 (L’impegno assertivo, pp. 163-177), si analizzano alcuni testi di Peirce, Searle e Brandom, e in particolare l’Autore si sofferma sui caratteri inferenziali di un’asserzione. Peirce definisce l’asserzione, nella sua dimensione pragmatica, come l’azione del parlante con cui questi comunica all’ascoltatore di avere una certa credenza, cioè di trovare che una certa idea si imponga in una determinata occasione. Conseguentemente, il filosofo americano sostiene che l’asserzione sia un atto che rende responsabili di quanto asserito, e vada pertanto distinta da una proposizione, che si può esplicare nel “contenuto” di un dubbio, di una domanda, di un’asserzione, di un ordine (p. 164). Searle, invece, seguendo la tradizione lockiana, concepisce l’asserzione quale espressione di una credenza, cioè come uno strumento mediante il quale il parlante comunica un suo stato mentale (p. 171). Infine, Brandom spiega il rapporto tra credenze e asserzioni, sostenendo che il contenuto di una credenza e in generale di qualsiasi stato intenzionale, possa essere spiegato solo analizzando la relazione tra tale stato e le performances linguistiche individuali all’interno di una pratica inferenziale che comporta degli impegni discorsivi.
Nella terza parte del volume (Azione e verità, pp. 181-286), l’Autore tratta del valore pratico della verità.
In particolare, nel capitolo 9 (Verità asimmetrica, pp. 181-196), Tuzet analizza la concezione “asimmetrica” della verità, che esprime la relazione che più rappresentazioni possono avere con lo stesso fatto, e consiste nella loro proprietà di corrispondere ad esso. In virtù di questo, tali rappresentazioni si dicono vere (p. 194). Si tratta, secondo Tuzet, di una definizione della verità come corrispondenza, ma senza la pretesa che ad ogni fatto corrisponda una e una sola rappresentazione vera. Pertanto, la corrispondenza si pone come condizione della verità, in cui la verificabilità ne è la principale conseguenza: una è la realtà, molti sono i mezzi semiotici per esprimerla e i mezzi epistemici per accertarla.
Nel successivo capitolo 10 (La vita e il valore della verità, pp. 197- 214), l’Autore difende la tesi secondo la quale la verità, o è eterna, o è immortale. A tal fine, distingue tra questi due tipi di verità. Egli attribuisce poi particolare importanza ai valori concernenti la verità, che in quanto permanente, si determina per il suo carattere conoscitivo, pratico e morale.
Nel capitolo 11 (Quante e quale verità? pp. 215-229) Tuzet afferma che esistono due sensi del termine “vero”: uno semantico, l’altro eidetico, a differenza di quanto invece sostenuto da Amedeo Conte, per il quale è possibile rinvenire tre sensi dello stesso termine: a) semantico, secondo cui “vero” è un predicato di enunciati; b) eidetico, secondo cui “vero” si applica a ciò che corrisponde ad un concetto; c) epistemico, secondo cui “vero” si applica in relazione alle nostre conoscenze della realtà (p. 215).
Nel capitolo 12 (Che successo ha la verità? pp. 231-255), l’Autore analizza gli scritti di Frank Plumpton Ramsey sul tema della verità e sulle loro implicazioni pragmatiste. In particolare, il logico inglese propone una teoria della verità come “ridondanza”, senza opporla ad una teoria della verità come corrispondenza: anzi, quest’ultima va a costituire il nucleo della prima, apportando importanti sviluppi ad una concezione della verità ispirata alle opere di Peirce e James (p. 232). Successivamente, Tuzet insiste circa la connessione esistente tra verità di una credenza e successo di un’azione, sostenendo che se non si tratta di una connessione concettuale, rappresenta comunque una connessione empirica di grande rilevanza (p. 249).
Nel capitolo 13 (La giustificazione pratica delle credenze, pp. 257-270) l’Autore si propone di discutere una tesi criticata da Engel: quella secondo cui la giustificazione delle credenze può essere di natura pratica, ossia una giustificazione che dipende dalla posta in gioco di tipo pratico nella situazione in cui si trova il soggetto che intrattiene una certa credenza (p. 258). A tal fine, egli sostiene che, almeno in certi contesti, il criterio di giustificazione delle credenze sia di natura pratica. In più, egli precisa che in alcuni contesti specifici (come ad esempio quello giuridico), ci siano dei casi in cui una conoscenza viene attribuita ad un soggetto senza considerare la giustificazione che questi abbia o meno per una certa credenza vera, ma in base alla posta in gioco, o agli interessi pratici della situazione.
Infine, nel capitolo 14 (L’abduzione pratica, pp. 271-286) l’Autore analizza i caratteri dell’inferenza abduttiva con cui si elaborano i propositi dell’azione, nel tentativo di individuare i mezzi migliori per il conseguimento dei fini individuali o collettivi. Nei processi sociali l’abduzione pratica (di tipo economico, politico o giuridico) riveste un ruolo importante: è il mezzo inferenziale per trovare i modi di realizzare certe finalità sociali (p. 283).
Tuzet ha contribuito con quest’opera, con competenza e chiarezza nell’esposizione, a ricostruire, in chiave storica e critico-discorsiva, il dualismo esistente tra dimensione conoscitiva e dimensione pratica, attraverso un pragmatismo di stampo analitico. Egli si sofferma altresì sul modo in cui, dato un quadro di riferimento, sia più corretto intendere il tema dei valori. L’analisi che egli delinea rimanda ad una serie di pertinenti riflessioni concernenti il pragmatismo “emotivista” o “espressivista”, incline a qualificare i valori non come entità a sé stanti, ma come risultati delle valutazioni individuali. Concludendo, se da un lato egli insiste sulla necessità di rispettare, a livello di analisi filosofica, le distinzioni concettuali, dall’altro sottolinea come queste ultime debbano essere coltivate senza essere prese per confini reali, in quanto il mondo è imprescindibilmente composto da un intreccio tra fatti e norme, con il quale è necessario misurarsi.
Indice
Introduzione
Parte I. Esperienza e inferenza
Esperienza e inferenza
L’abduzione percettiva
Parte II. Norme e valori
Sulle scienze normative
Il principio sociale della logica
Logica e usi del pragmatismo
Ha senso fare previsioni normative?
Sul possibile moto della macchina
L’impegno assertivo
Parte III. Azione e verità
Verità asimmetrica
La vita e il valore della verità
Quante e quale verità?
Che successo ha la verità?
La giustificazione pratica delle credenze
L’abduzione pratica
Abbreviazioni e bibliografia
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