Roma, DeriveApprodi, 2014, pp. 205, euro 17, ISBN
978-88-6548-106-6.
Tra la tentazione
alla dissolvenza – la rarefazione di un pensiero destinato ad alimentare gli
infiniti usi che la sua plasticità intrinseca consente, una duttilità usata e
abusata sul piano scientifico e editoriale – e quella al congelamento – la
trasformazione in auctoritas di un
Foucault piegato a pratiche filologiche e di commento che rilevano una lettura
sterile e di comodo per uno dei filosofi meno autoriali del Novecento –
Sandro Chignola ha scelto la proliferazione. Di fronte al bivio fra lo scrivere “su” o “con”, egli ha deciso di scrivere “oltre”. Da una parte, attraversare una dimensione del prolungamento e dell’avvicinamento, ovvero rintracciare i percorsi che il filosofo francese aveva intrapreso dalla metà degli anni Settanta, fortemente orientati verso un confronto con il mondo antico in vista di un nuovo ingaggio del presente, per cercarne i possibili esiti; dall’altra, rinvenire convergenze e parallelismi con tradizioni del pensiero critico, come nel caso di Marx e Weber, per disegnare scenari epistemologici diversi. Una indagine attenta, mai scontata, che stimola una nuova lettura sia della problematizzazione foucaultiana delle scienze umane e dei loro statuti, che di quella inerente al piano stesso del pensiero filosofico, inteso come critica ed etica al contempo.
Un progetto
ambizioso, che nel libro prende corpo a partire da singoli focus di ricerca, orientati su concetti-chiave della riflessione
del cosiddetto ultimo Foucault,
ciascuno dei quali sviluppati in capitoli che riprendono e amplificano articoli
e interventi prodotti dall’autore negli ultimi anni. Capitoli che concedono al
lettore la libertà di seguire un itinerario di lettura desultorio o unitario,
come lo stesso autore sottolinea nella sua Prefazione, e che, tuttavia, nel
loro insieme contribuiscono a disegnare i contorni di una radicalità che spesso
non si è riusciti a cogliere nel Foucault alle prese con la Patristica, con la
filosofia antica o con i temi orbitanti attorno alla sessualità nel mondo
antico. Per compiere questo viaggio nella proliferazione, nella dimensione
dell’”oltre”, Chignola si è servito in modo sinottico soprattutto dei corsi
condotti da Foucault al Collège de France dalla seconda metà degli anni
Settanta fino alla sua morte e delle interviste ed interventi raccolti nei Dits et Écrits, materiale del quale
l’autore spesso fornisce una lettura originale e produttiva. Testi che, assieme
ad una bibliografia secondaria ampia e aggiornata, fanno del libro non solo un
utile strumento di lavoro, ma anche una importante messa a punto della
radicalizzazione impressa da Foucault nella riflessione sul potere sul finire
degli anni Settanta.
Questa radicalità
è già al centro del primo capitolo. Qui Chignola ha modo di porre in primo
piano temi che percorrono l’intero libro. In primo luogo il rifiuto di
individuare nell’ultimo Foucault una fuga, di interpretare la lunga e
approfondita incursione del filosofo francese nel mondo antico come l’ultimo
messaggio di un disincanto, e al contrario la volontà di leggervi una radicalizzazione
della pratica critica. L’impegno urgente di
rilevare in profondità, sin nei recessi meno conosciuti delle pratiche
del pastorato cristiano e delle scuole filosofiche antiche, il processo
genealogico della soggettività occidentale. Per restituire questa immagine di
ingaggio radicale, l’autore sottolinea la centralità della pratica e dello
sguardo come strumento precipuo dell’euristica foucaultiana: il passaggio dalla
thanatopolitica alla biopolitica, dal
far morire o lasciare in vita al far vivere o respingere nella morte,
che segna la trasformazione delle relazioni di potere dell’occidente moderno, è
rilevabile solo a partire da un processo decostruttivo, che destabilizza gli
universali (il sovrano, il potere, la libertà) e restituisce alle pratiche una
centralità euristica. Solo le pratiche consentono di illuminare il piano
diafano delle continuità, sul quale lo sguardo dell'archeologo e del
genealogista legge la discontinuità casuale dei sistemi di pensiero e dei
giochi di verità. Quindi la domanda centrale per l’analitica del potere è la
seguente: a partire da quale pratica si determina l’inversione fra sovranità e
biopolitica? E solo a partire da questa domanda, consentita a sua volta da uno
sguardo della distanza, che è possibile osservare l’emergere della popolazione
al posto dei sudditi sull’orizzonte dei piani di pensabilità e di governo. E’
ferma convinzione dell’autore che, proprio a partire dalla metà degli anni
Settanta, quando già si era esaurita l’analisi puntuale della società disciplinare,
così splendidamente e terribilmente ritratta in Survellier et punir, che Foucault si pone il problema di “tagliare
la testa al re” (p. 25), ovvero di disfarsi definitivamente della sovranità
hobbesiana e della giuridificazione del potere.
L’urgenza di
questo compito viene indagata da Chignola attraverso un interessante doppio
confronto: Foucault e Marx da una parte, Foucault e Weber dall’altra.
Articolati rispettivamente nel secondo e quinto capitolo, questi confronti
misurano, nell’originale lettura dell’autore, il modello spaziale (l’ellisse)
che il filosofo francese attribuisce al potere quando intuisce la necessità di
superare i concetti di biopotere e di biopolitica. Attraverso l’originale
analisi di Chignola, scopriamo un Marx inaspettatamente vicino
all’antiessenzialismo foucaultiano, con una centralità del corpo e delle
pratiche (le pratiche della fabbrica e della proprietà privata al centro del
primo libro del Capitale) che
permette di individuare nel filosofo di Treviri lo strumento attraverso il
quale Foucault non solo opera il suo famoso réversément
di Clausewitz (è la politica ad essere la continuazione della guerra), non
solo costruisce il modello della società disciplinare, ma radicalizza le sue
stesse categorie in una dimensione ormai di “oltremarxismo” (“è la disciplina
che accompagna, nella progettazione della società degli individui neoliberali,
le retoriche del capitale umano e del singolo come soggetto imprenditore di
sé”, p. 69). Al contempo, questo mettere in crisi e radicalizzare le proprie
categorie ermeneutiche costringe Foucault a confrontarsi con Weber e con il
modello della Lebensführung e dell’Idealtypus. Questo confronto è studiato
da Chignola alla luce della nuova centralità assunta dal concetto di tecniche di sé, che Foucault elabora
almeno a partire dalle Howison Lectures
pronunciate nell’autunno del 1980 a Berkeley. La “svolta” (p. 141) sul piano
dell’ermeneutica del potere costringe il filosofo francese, proprio sulla scia
di Weber, a concepire una ellisse della governamentalità, ellisse segnata da
tecniche di sé e di dominio, da condotte e da governo, in una dimensione
spaziale e cinetica dove le pratiche instaurano un rapporto di continuità con i
giochi di veridizione. Chignola sottolinea come questa nuova sfida genealogica
tracci un percorso “positivo” (un’accezione critica e radicale di positivismo
che già era stata proposta da Veyne, e che l’autore giustamente riscopre), dove
oggetto della genealogia non è più il soggetto, ma la stessa verità: “Ogni
verità è la verità di un gioco di veridizione (che è sempre un gioco di potere)
che l’analisi «evenemenzializza» nella sua singolarità” (p.149). Tracciare la
singolarità del presente attraverso un gioco di finzioni (ovvero condotte,
tecniche del sé, ma anche Idealtypus
ecc.,) che metta nella prospettiva della derivazione le finzioni generate dai
giochi di verità.
Chignola dipinge
in questo modo un Foucault inquieto che, procedendo per scarti e
radicalizzazioni (riavvicinamento a Weber e Marx, concetti di “tecnica di sé” e
di “governamentalità”), decide che è tempo di farla finita con i compromessi e
di pensare seriamente a disfarsi della
“testa del re”. Una radicalizzazione della pratica critica che l’autore
individua in due passaggi fondamentali: governamentalità e parrhēsia. La prima,
nella lettura che ne propone l’autore (in particolare nel capitolo 3),
costituisce un superamento del concetto di biopotere e di biopolitica,
superamento necessario per un Foucault preoccupato per i fraintendimenti che
questi due strumenti concettuali avevano suscitato nel dibattito sulla
sovranità (timori che la lettura distorsiva fattane da Agamben e Esposito
avrebbero poi confermato). Il concetto di governamentalità comporta un doppio
effetto. Da una parte “marginalizza” definitivamente lo Stato, riducendolo a
puro “evento” (p. 78) nel campo delle possibilità. Dall’altra rende necessario
far retrocedere l’indagine genealogica fino all’antichità, dove è possibile
rintracciare sia la derivazione delle nostre attuali soggettivazioni, sia le
possibili controcondotte. In questo passaggio, che costituisce l’asse centrale
del libro, lo studio dell’antichità non solo taglia definitivamente “la testa
al re”, ma risponde con efficacia all’urgenza di delineare una “estetica
dell’esistenza” valida per il presente, ovvero capace di istituire una politica
dei governati. L’autore propone, a questo proposito, una possibile
continuazione delle analisi foucaultiane condotte sulla filosofia antica,
istituendo un interessante confronto fra il koinōnikon
zôon della tradizione stoica e il politikon
zôon di Aristotele (capitolo 4).
Tuttavia è proprio sull’asse della parrhēsia, del parlar franco, che si dipana
l’esito della radicalizzazione foucaultiana. Costituendo il fulcro dell’ultimo
capitolo del libro, il parlar franco, nella lettura che ne fornisce Chignola,
definisce il vero testamento dell’ultimo Foucault. Dopo aver evidenziato
l'attenzione prestata dal filosofo francese alla linguistica di Austin e la
distanza fra lo speech act e la
formulazione foucaultiana della parrhēsia, Chignola individua in questa nozione
la radicalizzazione di una prassi genealogica che colloca già nella
degenerazione antica, e ateniese in particolare, del parlar franco, della
libertà di parola, la derivazione dell”in-differenziarsi
della presa di parola” (p. 184) delle democrazie moderne. Ne deriva la
consapevolezza che “non è compito del governato, governare” (p. 182), e che “la
soggettivazione politica del governato si produce in una presa di parola che
non dice che cosa si debba fare, ma che ingiunge a chi decide e governa di “rendere ragione di ciò che fa” (p. 197).
L’oltre-Foucault
di Chignola ha il merito di descrivere un Foucault poco conosciuto, che
riflette sul pensiero critico di Marx e Weber e che riconosce la necessità di
riarticolare la riflessione su biopolitica e biopotere a partire dal concetto
di governamentalità e di parrhēsia. Un Foucault che non ripiega sull'antico,
che non “ritorna” agli antichi, ma al contrario radicalizza la sua euristica
genealogica rivolgendosi proprio al mondo antico. Ne risulta un quadro molto
articolato del cosiddetto ultimo Foucault, quadro dal quale emerge la radicalità profonda di un pensiero
incapace di procurare illusioni, e al contrario ferocemente capace di svelare
l'immanenza dei rapporti di forza e delle relazioni di potere. Da questa
immanenza deriva la consapevolezza che è il coraggio a costituire un possibile
soggetto etico. Il coraggio di uscire dai giochi degli universali (lo Stato, la
libertà, il potere, il sesso ecc.), dai giochi di verità (la follia, la
criminalità, la sessualità, ma anche la liberazione), e di osservare il proprio
presente per svelarne ogni volta le finzioni, quei giochi di verità che ci
vogliono imprenditori di noi stessi o soggetti di diritto. Il coraggio di osservare
l'irriducibilità fra governati e governanti, e di chiedere ragione, sempre, a
chi governa delle sue azioni e delle sue scelte.
Indice
Premessa
Capitolo 1:
L’impossibile del sovrano. Governamentalità e liberismo.
Capitolo 2:
Fabbriche del corpo. Foucault, Marx.
Capitolo 3: La
politica dei governati. Governamentalità, forme di vita, soggettivazione.
Capitolo 4:
Koinōnikon zôon. Gli stoici e l’altra modernità
Capitolo 5:
«Phanatasiebildern»/«Histoire fiction». Weber, Foucault.
Capitolo 6: Il
coraggio della verità. Parrhēsia e critica.
Indice
dei nomi
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