giovedì 5 febbraio 2015

Marconi, Diego, Il mestiere di pensare

Torino, Einaudi, 2014, pp. 160, euro 10, ISBN 978-88-06-21637-5

Recensione di Alessandro Bruzzone - 27/05/2014

La figura del filosofo, mitizzata o vilipesa che sia, non riesce a scrollarsi di dosso l’aura del «Grande Filosofo» capace di affrontare qualsiasi problema, attraverso dichiarazioni che sfidano più o meno apertamente le credenze comuni. Tale immagine, evidentemente lontana dalla realtà della filosofia contemporanea, è oggi sostenuta e divulgata da media come la televisione; che, con le glorie della filosofia che fu, ha obiettivamente poco da spartire. Ma non si può ridurre il problema a un puro caso di distorsione divulgativa se, come

 nota Diego Marconi in apertura del libro qui recensito, persino un fisico come Freeman Dyson lamenta come, da tempo, non si producano «grandi capolavori» nella filosofia (p. 3).
Ben venga, quindi, Il mestiere di pensare, che sin dal titolo manifesta chiaramente le proprie finalità: spiegare, anche ai «non addetti ai lavori», cosa significa fare il filosofo di professione oggi. Un lavoro che, contro la vulgata summenzionata, è caratterizzato da un notevole grado di specializzazione.
Il libro di Marconi, quasi un pamphlet nel quale lo spirito polemico è accompagnato da una capacità argomentativa estremamente costruttiva, consta di 4 capitoli. Il primo (La filosofia nell’epoca del professionismo) è il più importante per l’argomento del libro. In esso vengono smontati i vari luoghi comuni circa la presunta grandezza della filosofia passata rispetto a quella odierna: i grandi capolavori non appartengono solo al passato; non sempre sono stati più influenti allora di quanto lo siano oggi; né è vero che la filosofia sia sempre stata ribelle e visionaria, laddove oggi sarebbe misera e priva di mordente.
Si tratta di una mistificazione che Marconi, riprendendo le osservazioni di Dyson, ritrova nell’influenza di Nietzsche, e forse più ancora del suo alter ego letterario: quel Zarathustra che è «insieme profeta di un mondo nuovo e ribelle all’ordine esistente» (p. 3). Ma il Così parlò Zarathustra, al di là dei rischi rappresentati dell’assumere a modello una figura letteraria, è un testo risalente alla fine dell’Ottocento (scritto tra 1883 e 1885); quindi tutt’altro che antico, e neppure tipico nella storia filosofica.
In effetti, secondo Marconi, l’idea della filosofia come sapienza che abbraccia l’intera cultura non corrisponde alla realtà di nessuna epoca: anche i grandi sistemi generali del passato sono stati costruiti su aree culturali più specifiche di quanto normalmente si riconosca (alcuni – discutibili – esempi portati dall’autore: Aristotele si sarebbe occupato soprattutto di scienza, Bacone di epistemologia e filosofia della scienza, Pascal di apologetica cristiana, Locke di epistemologia e filosofia politica, ecc…). Per il nostro autore forse si è tentato di realizzare il «Grande Filosofo» soltanto «per una cinquantina d’anni all’inizio del XIX secolo, tra Hegel e Spencer, avendo in seguito qualche eco in pensatori oggi non molto praticati come Wilhelm Dilthey o Benedetto Croce» (p. 5) .
Nondimeno – ammette Marconi – la filosofia accademica appare oggi meno comunicativa di un tempo, per quanto il numero di filosofi di professione sia notevolmente aumentato rispetto al passato (si confrontino i dati esposti a pp. 8-11), e con esso quello delle riviste specializzate (pp. 11-12). E’ meno comunicativa per il grande pubblico (per il quale tuttavia è sempre stata inaccessibile), nonché per il pubblico colto che non è specializzato nella filosofia (p. 6). Il successo di pubblico dei festival e di alcuni filosofi-opinionisti arruolati dai media (nei salotti televisivi, ma anche nelle colonne di giornali e riviste, nei blog della Rete e quant’altro) sembrerebbe smentire queste affermazioni. Ma quest’impressione si rivela subito errata: i festival sono un fenomeno, e per lo più italiano, poco rilevante (p. 50). Mentre i filosofi-opinionisti al massimo fanno – quando la fanno – buona divulgazione (cosa tuttavia diversa dall’autentica divulgazione filosofica, che Marconi riconosce nell’esempio di alcuni libri, pp. 57-80), il che non implica affatto il fornire un qualche accesso alle pubblicazioni tecniche (p. 7); inoltre, il più delle volte non fanno neppure divulgazione, comportandosi di fatto come opinionisti generali, per quanto illustri (pp. 50-57).
La scarsa comunicazione è conseguenza del processo, già accennato, di specializzazione professionale del filosofo. Marconi collega tale fenomeno, lo specialismo, soprattutto al successo della filosofia analitica, storicamente la più fortunata delle quattro alternative (con il neokantismo, l’ermeneutica e la storia della filosofia; vedi pp. 19-25) emerse parallelamente al proliferare della filosofia accademica nel XIX secolo. Una mossa che potrebbe sembrare parziale, dato l’orientamento del nostro autore (eminentemente analitico): ma il giudizio di Marconi è, qui, decisamente disincantato. Infatti, se alcuni autori (Jaakko Hintikka) attribuiscono il successo della filosofia analitica ai suoi standard di rigore e correttezza, mimetici rispetto a quelli delle scienze «dure» come la fisica (l’osservazione è di Carl Schorske), per Marconi è invece soprattutto un dato di fatto stabilito dall’estrema diffusione di pubblicazioni scientifiche ad essa inerenti.
La proliferazione di pubblicazioni ha fatto sì che nessun studioso possa mantenersi aggiornato su un numero troppo alto di percorsi di ricerca, inevitabilmente sempre più vari e complessi (è interessante notare come, in quest’opera, Marconi si muova più da storico e – direi – sociologo della filosofia, per quanto analitico nel metodo). Ne consegue che lo specialismo diventi quasi inevitabile, e lo scotto da pagare è l’autoesclusione dai grandi canali della comunicazione. Le alternative sono il dilettantismo, ovvero «la pretesa di contribuire alla crescita della conoscenza senza tener conto del lavoro degli altri» (pp. 13-14), o l’inventiva tematica, quando cioè «fidandosi del proprio fiuto si cercano parentele non ovvie tra autori, temi e problemi apparentemente distanti, o si concepiscono oggetti di ricerca inusitati» (p. 14). Ma si tratta di alternative ben rischiose, che raramente danno risultati rilevanti: significativamente, tra questi Marconi cita alcuni esempi legati a Wittgenstein e Davidson, autori certo non comunemente dotati.
L’opzione specialistica, invece, consentirebbe a qualsiasi buon studioso di fare quantomeno un lavoro dignitoso e interessante (p. 15): una figura di filosofo artigiano, quindi (p. 19), diametralmente opposta a quella del «Grande Filosofo». E qui sorge una questione importante: al di là del fatto che non tutti gli studiosi propendono per tale opzione, è proprio vero che la filosofia, disciplina che differentemente dalle scienze matematiche e naturali ha comunque una propensione generalista, può permettersi un tale sviluppo? Come acutamente osserva Marconi, infatti, il grande rischio è la frammentazione e la dispersione della filosofia in innumerevole ricerche tra esse impermeabili (p. 25-28). Tali ricerche potrebbero diventare tanto specifiche da risultare, alla fine dei conti, poco interessanti per la società e le istituzioni (università in primis) per i quali lavorano, con il rischio di ghettizzarsi ed infine estromettersi con le proprie mani (pp. 39-40).
Assumendo la difesa dello specialismo, in primo luogo nella filosofia analitica (ma non solo), Marconi nota come le ricerche specializzate siano frammentarie solo in apparenza (e gli esempi proposti in tal senso sono la distinzione analitico/sintetico nella filosofia del linguaggio, e il linguaggio privato nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, pp. 29-38), e se i contributi appaiono troppo specifici è solo perché sono intraparadigmatici, ovvero «presuppongono un certo insieme di concetti e teorie (un paradigma)» e, senza pretendere di ridiscuterlo integralmente o presentarne uno sostitutivo, «hanno senso e importanza, se ce l’hanno, perché rafforzano o indeboliscono il paradigma» (p. 27). Per questo, i filosofi costituiscono soprattutto una comunità disciplinare di esperti (p. 43) che approfondiscono aspetti particolari di progetti comuni. Da qui, la difficile comprensione della loro opera, che è collettiva, e che presenta in effetti problemi simili, ma non superiori a quelli delle comunità delle scienze matematiche e naturali. Per esempio, non ha senso accusare la filosofia di essere scarsamente utile: la sua ricaduta sul mondo reale è né più né meno paragonabile a quelle della matematica, disciplina che produce un gran numero di ricerche che sono puramente teoriche (p. 40). Ciò non toglie, tuttavia, che i filosofi abbiano le loro colpe: sostanzialmente il non aver cercato una legittimità sociale adeguata, presentandosi piuttosto come una sorta di «agenzia di conservazione di un certo bene culturale», ovvero i classici della filosofia (contribuendo alla mitizzazione/mistificazione di cui abbiamo detto); e l’aver mancato spesso e volentieri il dialogo (fondamentale) con altre discipline scientifiche contigue, mettendo così a rischio la vitalità stessa del proprio lavoro (pp. 45-47).
I restanti 4 capitoli approfondiscono alcune questioni emerse nel primo. Ne L’identità della filosofia analitica Marconi si interroga, sulla scorta di Hans-Johann Glock (What is Analitytic Philosophy, 2008) e Ansgar Beckermann (Grundbegriffe der analytischen Philosophie, 2004) sulle proprietà che distinguono la filosofia analitica dalle altre. Tra le altre, la propensione al lavoro comunitario (pp. 74-75) è fortemente caratterizzante, nella distinzione non tanto tra filosofia analitica e continentale, quanto tra analitica e tradizionalista. Essa, quella autenticamente praticata dalla maggioranza dei filosofi europei, consiste nello «studio scientifico della filosofia tradizionale», posto che «molti di loro non sono storici della filosofia nel senso stretto e disciplinare del termine: non fanno ricerca d’archivio, lavorano per lo più su testi pubblicati e non su manoscritti (…). Ciò che soprattutto fanno è interpretare i grandi (o, talvolta, meno grandi) filosofi, cioè presentare i loro pensieri in una luce nuova o parzialmente nuova, con una qualche attenzione (…) per il valore filosofico intrinseco di quei pensieri (…). Questi filosofi fanno filosofia – non storia della filosofia – per procura: sono i classici a parlare per loro, con una voce che è modulata dalla loro interpretazione» (p. 77). Proprio quel tipo di filosofia – presumo – che può ottenere successo mediatico.
Il terzo capitolo, Professionisti e no. La filosofia analitica come stile di lavoro, è un approfondimento della professione del filosofo analitico. Vengono chiarite le ragioni della «rivalità» tra analitici e continentali, e ci si interroga circa il progresso in filosofia analitica. 
Infine, negli ultimi due capitoli (Verità, “verità” e storia della filosofia, e Usi teorici della storia della filosofia), Marconi passa al vaglio le ragioni dell’incomprensione tra filosofi teorici e storici della filosofia, alla ricerca di un dialogo tutt’altro che impossibile. La storia della filosofia è un grande serbatoio di idee e argomentazioni che possono risultare molto utili per il teorico (pp. 105-108).
Il mestiere di pensare è un ottimo libro, in cui l’autore costruisce una penetrante analisi della realtà del filosofo odierno. Sicuramente, il punto di vista di Marconi favorisce il caso della filosofia analitica più di altri, per quanto in molti passaggi sembri volersi porre piuttosto in una prospettiva generale. Tuttavia, la diffusione della filosofia analitica, congiuntamente all’equilibrio con cui l’autore affronta le altre prospettive filosofiche (molto belle le pagine sulla storia della filosofia), rende la lettura molto utile per chiunque sia interessato all’argomento.


Indice

I. La filosofia nell’epoca del professionismo
1.     Nostalgia di che cosa?
2.     La scomparsa della filosofia
3.     La moltiplicazione dei filosofi
4.     Il filosofo come specialista
5.     Il filosofo come artigiano
6.     Conseguenze dello specialismo
7.     Intermezzo: questioni solo apparentemente futili
8.     La filosofia può permettersi lo specialismo?
9.     Filosofi «continentali», filosofi mediatici, divulgatori della filosofia
10.   Conclusione

II. L’identità della filosofia analitica
1.     Il duplice criterio di Glock
2.     Un criterio più vivido
3.     Analitici e tradizionalisti
4.     Comunicare la filosofia analitica

III. Professionisti e no. La filosofia analitica come stile di lavoro
1.     Il professionismo filosofico
2.     Problemi e progresso
3.     Storicismi
4.     Inconvenienti dello specialismo

IV. Verità, “verità” e storia della filosofia
1.     Il conflitto tra storici e teorici
2.     La storia della filosofia come repertorio di alternative teoriche
3.     Il disagio riguardo alla verità

V. Usi teorici della storia della filosofia
1.     Inutilità o indispensabilità della storia della filosofia?
2.     La storia della filosofia come repertorio di precedenti
3.     Contro il feyerabendismo in storia della filosofia
4.     Genealogie

Riferimenti bibliografici

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