Torino, Einaudi,
2014, pp. 160, euro 10, ISBN 978-88-06-21637-5
La figura del filosofo, mitizzata o vilipesa che sia, non riesce a scrollarsi di dosso l’aura del «Grande Filosofo» capace di affrontare qualsiasi problema, attraverso dichiarazioni che sfidano più o meno apertamente le credenze comuni. Tale immagine, evidentemente lontana dalla realtà della filosofia contemporanea, è oggi sostenuta e divulgata da media come la televisione; che, con le glorie della filosofia che fu, ha obiettivamente poco da spartire. Ma non si può ridurre il problema a un puro caso di distorsione divulgativa se, come
nota Diego Marconi in apertura del libro qui recensito, persino un fisico come Freeman Dyson lamenta come, da tempo, non si producano «grandi capolavori» nella filosofia (p. 3).
nota Diego Marconi in apertura del libro qui recensito, persino un fisico come Freeman Dyson lamenta come, da tempo, non si producano «grandi capolavori» nella filosofia (p. 3).
Ben
venga, quindi, Il mestiere di pensare,
che sin dal titolo manifesta chiaramente le proprie finalità: spiegare, anche
ai «non addetti ai lavori», cosa significa fare il filosofo di professione
oggi. Un lavoro che, contro la vulgata
summenzionata, è caratterizzato da un notevole grado di specializzazione.
Il
libro di Marconi, quasi un pamphlet
nel quale lo spirito polemico è accompagnato da una capacità argomentativa
estremamente costruttiva, consta di 4 capitoli. Il primo (La filosofia nell’epoca del professionismo) è il più importante per
l’argomento del libro. In esso vengono smontati i vari luoghi comuni circa la
presunta grandezza della filosofia passata rispetto a quella odierna: i grandi
capolavori non appartengono solo al passato; non sempre sono stati più
influenti allora di quanto lo siano oggi; né è vero che la filosofia sia sempre
stata ribelle e visionaria, laddove oggi sarebbe misera e priva di mordente.
Si
tratta di una mistificazione che Marconi, riprendendo le osservazioni di Dyson,
ritrova nell’influenza di Nietzsche, e forse più ancora del suo alter ego letterario: quel Zarathustra
che è «insieme profeta di un mondo nuovo e ribelle all’ordine esistente» (p.
3). Ma il Così parlò Zarathustra, al
di là dei rischi rappresentati dell’assumere a modello una figura letteraria, è
un testo risalente alla fine dell’Ottocento (scritto tra 1883 e 1885); quindi
tutt’altro che antico, e neppure tipico nella storia filosofica.
In
effetti, secondo Marconi, l’idea della filosofia come sapienza che abbraccia
l’intera cultura non corrisponde alla realtà di nessuna epoca: anche i grandi
sistemi generali del passato sono stati costruiti su aree culturali più
specifiche di quanto normalmente si riconosca (alcuni – discutibili – esempi
portati dall’autore: Aristotele si sarebbe occupato soprattutto di scienza,
Bacone di epistemologia e filosofia della scienza, Pascal di apologetica
cristiana, Locke di epistemologia e filosofia politica, ecc…). Per il nostro
autore forse si è tentato di realizzare il «Grande Filosofo» soltanto «per una
cinquantina d’anni all’inizio del XIX secolo, tra Hegel e Spencer, avendo in
seguito qualche eco in pensatori oggi non molto praticati come Wilhelm Dilthey
o Benedetto Croce» (p. 5) .
Nondimeno
– ammette Marconi – la filosofia accademica appare oggi meno comunicativa di un tempo, per quanto il
numero di filosofi di professione sia notevolmente aumentato rispetto al
passato (si confrontino i dati esposti a pp. 8-11), e con esso quello delle
riviste specializzate (pp. 11-12). E’ meno comunicativa per il grande pubblico
(per il quale tuttavia è sempre stata inaccessibile), nonché per il pubblico
colto che non è specializzato nella filosofia (p. 6). Il successo di pubblico
dei festival e di alcuni filosofi-opinionisti arruolati dai media (nei salotti televisivi, ma anche
nelle colonne di giornali e riviste, nei blog
della Rete e quant’altro) sembrerebbe smentire queste affermazioni. Ma
quest’impressione si rivela subito errata: i festival sono un fenomeno, e per
lo più italiano, poco rilevante (p. 50). Mentre i filosofi-opinionisti al
massimo fanno – quando la fanno – buona divulgazione (cosa tuttavia diversa
dall’autentica divulgazione filosofica, che Marconi riconosce nell’esempio di
alcuni libri, pp. 57-80), il che non implica affatto il fornire un qualche
accesso alle pubblicazioni tecniche (p. 7); inoltre, il più delle volte non
fanno neppure divulgazione, comportandosi di fatto come opinionisti generali,
per quanto illustri (pp. 50-57).
La
scarsa comunicazione è conseguenza del processo, già accennato, di specializzazione professionale del
filosofo. Marconi collega tale fenomeno, lo specialismo,
soprattutto al successo della filosofia analitica, storicamente la più
fortunata delle quattro alternative (con il neokantismo, l’ermeneutica e la
storia della filosofia; vedi pp. 19-25) emerse parallelamente al proliferare
della filosofia accademica nel XIX secolo. Una mossa che potrebbe sembrare
parziale, dato l’orientamento del nostro autore (eminentemente analitico): ma
il giudizio di Marconi è, qui, decisamente disincantato. Infatti, se alcuni
autori (Jaakko Hintikka) attribuiscono il successo della filosofia analitica ai
suoi standard di rigore e correttezza, mimetici rispetto a quelli delle scienze
«dure» come la fisica (l’osservazione è di
Carl Schorske), per Marconi è invece soprattutto un dato di fatto stabilito
dall’estrema diffusione di pubblicazioni scientifiche ad essa inerenti.
La
proliferazione di pubblicazioni ha fatto sì che nessun studioso possa
mantenersi aggiornato su un numero troppo alto di percorsi di ricerca,
inevitabilmente sempre più vari e complessi (è interessante notare come, in
quest’opera, Marconi si muova più da storico e – direi – sociologo della
filosofia, per quanto analitico nel metodo). Ne consegue che lo specialismo
diventi quasi inevitabile, e lo scotto da pagare è l’autoesclusione dai grandi
canali della comunicazione. Le alternative sono il dilettantismo, ovvero «la pretesa di contribuire alla crescita
della conoscenza senza tener conto del lavoro degli altri» (pp. 13-14), o l’inventiva tematica, quando cioè
«fidandosi del proprio fiuto si cercano parentele non ovvie tra autori, temi e
problemi apparentemente distanti, o si concepiscono oggetti di ricerca
inusitati» (p. 14). Ma si tratta di alternative ben rischiose, che raramente
danno risultati rilevanti: significativamente, tra questi Marconi cita alcuni
esempi legati a Wittgenstein e Davidson, autori certo non comunemente dotati.
L’opzione
specialistica, invece, consentirebbe a qualsiasi buon studioso di fare
quantomeno un lavoro dignitoso e interessante (p. 15): una figura di filosofo artigiano, quindi (p. 19),
diametralmente opposta a quella del «Grande Filosofo». E qui sorge una
questione importante: al di là del fatto che non tutti gli studiosi propendono
per tale opzione, è proprio vero che la filosofia, disciplina che
differentemente dalle scienze matematiche e naturali ha comunque una propensione
generalista, può permettersi un tale
sviluppo? Come acutamente osserva Marconi, infatti, il grande rischio è la
frammentazione e la dispersione della filosofia in innumerevole ricerche tra
esse impermeabili (p. 25-28). Tali ricerche potrebbero diventare tanto
specifiche da risultare, alla fine dei conti, poco interessanti per la società
e le istituzioni (università in primis)
per i quali lavorano, con il rischio di ghettizzarsi ed infine estromettersi
con le proprie mani (pp. 39-40).
Assumendo
la difesa dello specialismo, in primo luogo nella filosofia analitica (ma non
solo), Marconi nota come le ricerche specializzate siano frammentarie solo in
apparenza (e gli esempi proposti in tal senso sono la distinzione
analitico/sintetico nella filosofia del linguaggio, e il linguaggio privato
nelle Ricerche filosofiche di
Wittgenstein, pp. 29-38), e se i contributi appaiono troppo specifici è solo
perché sono intraparadigmatici,
ovvero «presuppongono un certo insieme di concetti e teorie (un paradigma)» e,
senza pretendere di ridiscuterlo integralmente o presentarne uno sostitutivo,
«hanno senso e importanza, se ce l’hanno, perché rafforzano o indeboliscono il
paradigma» (p. 27). Per questo, i filosofi costituiscono soprattutto una comunità disciplinare di esperti (p. 43)
che approfondiscono aspetti particolari di progetti comuni. Da qui, la
difficile comprensione della loro opera, che è collettiva, e che presenta in
effetti problemi simili, ma non superiori a quelli delle comunità delle scienze
matematiche e naturali. Per esempio, non ha senso accusare la filosofia di
essere scarsamente utile: la sua ricaduta sul mondo reale è né più né meno
paragonabile a quelle della matematica, disciplina che produce un gran numero
di ricerche che sono puramente teoriche (p. 40). Ciò non toglie, tuttavia, che
i filosofi abbiano le loro colpe: sostanzialmente il non aver cercato una
legittimità sociale adeguata, presentandosi piuttosto come una sorta di
«agenzia di conservazione di un certo bene culturale», ovvero i classici della filosofia
(contribuendo alla mitizzazione/mistificazione di cui abbiamo detto); e l’aver
mancato spesso e volentieri il dialogo (fondamentale) con altre discipline
scientifiche contigue, mettendo così a rischio la vitalità stessa del proprio
lavoro (pp. 45-47).
I
restanti 4 capitoli approfondiscono alcune questioni emerse nel primo. Ne L’identità della filosofia analitica
Marconi si interroga, sulla scorta di Hans-Johann Glock (What is Analitytic Philosophy, 2008) e Ansgar Beckermann (Grundbegriffe der analytischen Philosophie,
2004) sulle proprietà che distinguono la filosofia analitica dalle altre. Tra
le altre, la propensione al lavoro comunitario (pp. 74-75) è fortemente
caratterizzante, nella distinzione non tanto tra filosofia analitica e
continentale, quanto tra analitica e tradizionalista.
Essa, quella autenticamente praticata dalla maggioranza dei filosofi europei,
consiste nello «studio scientifico della filosofia tradizionale», posto che
«molti di loro non sono storici della filosofia nel senso stretto e
disciplinare del termine: non fanno ricerca d’archivio, lavorano per lo più su
testi pubblicati e non su manoscritti (…). Ciò che soprattutto fanno è
interpretare i grandi (o, talvolta, meno grandi) filosofi, cioè presentare i loro
pensieri in una luce nuova o parzialmente nuova, con una qualche attenzione (…)
per il valore filosofico intrinseco di quei pensieri (…). Questi filosofi fanno
filosofia – non storia della filosofia – per procura: sono i classici a parlare
per loro, con una voce che è modulata dalla loro interpretazione» (p. 77).
Proprio quel tipo di filosofia – presumo – che può ottenere successo mediatico.
Il
terzo capitolo, Professionisti e no. La
filosofia analitica come stile di lavoro, è un approfondimento della professione
del filosofo analitico. Vengono chiarite le ragioni della «rivalità» tra
analitici e continentali, e ci si interroga circa il progresso in filosofia analitica.
Infine,
negli ultimi due capitoli (Verità,
“verità” e storia della filosofia, e Usi
teorici della storia della filosofia), Marconi passa al vaglio le ragioni
dell’incomprensione tra filosofi teorici e storici della filosofia, alla
ricerca di un dialogo tutt’altro che impossibile. La storia della filosofia è
un grande serbatoio di idee e argomentazioni che possono risultare molto utili
per il teorico (pp. 105-108).
Il mestiere di pensare è un ottimo libro, in cui l’autore
costruisce una penetrante analisi della realtà del filosofo odierno.
Sicuramente, il punto di vista di Marconi favorisce il caso della filosofia
analitica più di altri, per quanto in molti passaggi sembri volersi porre
piuttosto in una prospettiva generale. Tuttavia, la diffusione della filosofia
analitica, congiuntamente all’equilibrio con cui l’autore affronta le altre
prospettive filosofiche (molto belle le pagine sulla storia della filosofia),
rende la lettura molto utile per chiunque sia interessato all’argomento.
Indice
I.
La filosofia nell’epoca del professionismo
1.
Nostalgia
di che cosa?
2.
La
scomparsa della filosofia
3.
La
moltiplicazione dei filosofi
4.
Il
filosofo come specialista
5.
Il
filosofo come artigiano
6.
Conseguenze
dello specialismo
7.
Intermezzo:
questioni solo apparentemente futili
8.
La
filosofia può permettersi lo specialismo?
9.
Filosofi
«continentali», filosofi mediatici, divulgatori della filosofia
10.
Conclusione
II.
L’identità della filosofia analitica
1.
Il
duplice criterio di Glock
2.
Un
criterio più vivido
3.
Analitici
e tradizionalisti
4.
Comunicare
la filosofia analitica
III.
Professionisti e no. La filosofia analitica come stile di lavoro
1.
Il
professionismo filosofico
2.
Problemi
e progresso
3.
Storicismi
4.
Inconvenienti
dello specialismo
IV.
Verità, “verità” e storia della filosofia
1.
Il
conflitto tra storici e teorici
2.
La
storia della filosofia come repertorio di alternative teoriche
3.
Il
disagio riguardo alla verità
V.
Usi teorici della storia della filosofia
1.
Inutilità
o indispensabilità della storia della filosofia?
2.
La
storia della filosofia come repertorio di precedenti
3.
Contro
il feyerabendismo in storia della filosofia
4.
Genealogie
Riferimenti
bibliografici
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