Roma-Bari, Laterza, 2014,
pp. 97, euro 14, ISBN 978-88-581-1102-4
La crisi del welfare state ha determinato, specie negli ultimi anni, un radicale
indebolimento dei legami sociali, modificando i rapporti di solidarietà e di
fiducia tra le generazioni. Un pregevole contributo per un ripensamento
storico-filosofico e sociologico sulle condizioni di possibilità per un nuovo
patto, più equo e lungimirante, tra le generazioni ci viene offerto dal volume
di Remo Bodei, articolato in tre sezioni: “Le tre età della vita”;
“Generazioni” ed “Ereditare e restituire”.
Il nucleo della prima sezione ruota intorno alla divisione della vita umana, mutuata da Aristotele (Retorica), in tre fasce di età: giovinezza, maturità e vecchiaia. Questa tripartizione, «estesa metaforicamente anche al ciclo vitale delle nazioni e delle civiltà» (p. 5), funge, per Bodei, da «pietra di paragone per confrontare preliminarmente i mutamenti avvenuti nella nostra attuale scansione delle età della vita» (p. 8).
All’interno di questa articolazione
(storicamente prevalente rispetto a quella quadripartita in base alle stagioni
dell’anno e ad altre scandite, come nelle stampe popolari, in sei o otto fasi),
la preferenza viene assegnata alla maturità, in quanto «simbolo di pienezza, di
glorioso mezzogiorno, di culmine della parabola dell’esistenza e di raggiunto,
felice equilibrio tra memoria del passato e proiezione nell’avvenire» (p. 6).
Secondo Shakespeare, infatti, essa «è tutto», mentre per Oscar Wilde, «essere immaturi
significa essere perfetti» (p. 6), nel senso di essere aperti ai cambiamenti.
Bellezza, energia, inesperienza,
impeto e desiderio caratterizzano la giovinezza. La vecchiaia, invece, spesso è
segnata dal sentimento della malinconia, ma soprattutto dal rallentamento
fisico e mentale («etimologicamente il vecchio è “imbecille”, in quanto ha
bisogno di appoggiarsi a un bastone, in
baculo», ibidem), che induce a
conservare i ricordi più antichi meglio di quelli più recenti («legge di
Ribot», 1881, p. 13). E se i giovani aspirano ad acquisire e accumulare beni
materiali e immateriali, i vecchi, invece, «vivono sotto il segno
dell’agostiniano metus amittendi,
della paura di perdere tutto («nous ne vivons que pour perdre», Madame de
Lambert, Traité de la Vieillesse, p.
8), sperimentando, con il deperimento delle energie del corpo e dello spirito,
«un’inarrestabile emorragia di vita» (p. 7).
Rispetto ai celebri elogi della
vecchiaia come età della saggezza (da Cicerone a Mantegazza), Machiavelli,
invece, è stato il primo a capire che i vecchi, a causa della loro minore
capacità di adattarsi al nuovo, restano indietro nella decodificazione delle
trasformazioni sociali e culturali. Inoltre, già Durkheim aveva osservato che
il progressivo livellamento delle età e dei costumi aveva comportato un minor
rispetto per i vecchi e per gli antenati (p. 12).
La suddivisione della vita in tre
stadi è rimasta immutata fino alla fine del Seicento, allorché, terminate le
grandi epidemie di peste e di lebbra, la popolazione europea cominciò ad
aumentare e i bambini non morivano più in tenera età come prima. Di qui il
riconoscimento dell’infanzia come momento autonomo dello sviluppo dell’uomo,
indipendente dalla giovinezza. Se gli antichi, da Cicerone ad Agostino, sino a
Cartesio, avevano una concezione negativa dell’infanzia, è solo a partire dalla
seconda metà del Settecento, e in particolare nell’età romantica, che essa è
stata rivalutata, esaltata e idealizzata. Con i Tre saggi sulla teoria sessuale di Freud (1905), e con la psicoanalisi,
l’infanzia appare, invece, come l’età del conflitto e della lacerazione, non
più l’età dell’innocenza e del paradiso perduto.
Nella società del terzo millennio
assistiamo a una dilatazione dell’età della giovinezza e della vecchiaia, a cui
corrisponde un sostanziale restringimento della maturità. I giovani,
soprattutto per ragioni economiche, non riescono a essere indipendenti,
ritornando a casa dopo la laurea (vengono chiamati per questo “generazione
boomerang”, p. 71), e i vecchi, grazie a una maggiore longevità, aspirano ad
una seconda giovinezza dopo il pensionamento.
L’allungamento dell’età media ha
avuto come conseguenza negativa quella della crescita delle demenze senili, in
particolare dell’Alzheimer, che copre il 50% dei casi. Il resto si suddivide
tra la malattia di Pick (caratterizzata dall’agitazione psicomotoria) e le
demenze di origine vascolare, tumorale, infettiva o traumatica. «Si calcola che
il 30% dei vecchi di 85 anni siano affetti dal morbo di Alzheimer (in Italia ne
sono attualmente colpite circa mezzo milione di persone e, a livello mondiale,
si prevede che nel 2050 ne soffrirà un individuo su 85)» (pp. 22-23). Questa
malattia si caratterizza soprattutto per il progressivo declino delle facoltà
superiori: la memoria (pregressa, semantica e procedurale), l’intelligenza e la
volontà. In sostanza, nello stadio più grave, il malato di Alzheimer non sa più
chi è, e la sua identità personale (termine coniato da John Locke nella seconda
edizione del Saggio sull’intelletto umano
del 1694) può essere tutelata solo se viene conservato il filo della memoria
del passato e la preoccupazione per il futuro. E in assenza di una fede
religiosa o ideologica, oggi la morte appare insensata, e la vecchiaia, sempre
più solitaria, ancora più drammatica.
In seguito ai recenti sviluppi della
ricerca genetica vivere più a lungo e in buona salute non è più una chimera.
Attraverso il progetto SENS (Strategies for Engineered Negligible
Senescence), il genetista e bioingegnere britannico Aubrey de Grey sostiene
infatti che «nell’arco di decenni o entro questo secolo potremmo (…)
progressivamente giungere a vivere duecento e più anni e, in una prospettiva di
lunga durata, addirittura mille. A partire dallo slogan “L’età è curabile”, nel
dipartimento di genetica dell’università di Cambridge, de Grey ha ideato,
ipotizzato o elaborato una panoplia di procedure per sconfiggere la vecchiaia,
grazie alla riparazione del degrado delle cellule (tra queste l’uso di cellule
staminali cui sono stati tolti i telomeri)» (pp. 29-30). «Tramonta la ‛natura
umana’ così come l’abbiamo finora
conosciuta – scrive Bodei – e, grazie alle biotecnologie, si altererà forse, in
un imprevedibile futuro, anche l’attuale scansione delle età della vita» (p.
31).
Nella seconda sezione Bodei si
concentra sul tema del rapporto tra le generazioni dall’antichità ad oggi. Per
Aristotele (Oikonomica) e Dante (Divina Commedia e Convivio), il trentacinquesimo anno di età segnava lo spartiacque
tra la fine della giovinezza e l’inizio della maturità e con esso il dovere di
assistere la propria famiglia per ricambiare l’amore e l’educazione ricevute.
Nell’antica Grecia, per esempio, esisteva l’eranos, un sistema di versamento volontario di
contributi per assicurarsi la sopravvivenza in caso di imprevisti. A Roma
c’erano le sodalitates o collegia opificium, una sorta di cassa
di mutuo soccorso per artigiani o operai appartenenti a corporazioni, Per chi
moriva senza lasciare testamento le risorse potevano essere attinte dai beni
che talvolta distribuiva lo Stato. I poveri e gli invalidi di guerra godevano,
già dal Cinquecento, grazie alle Poor
Laws di diversi paesi, di aiuti e benefici elargiti dalle istituzioni
ecclesiastiche o politiche (p. 39). Dobbiamo aspettare la fine del XIX secolo
per vedere introdotte tra il 1884 e il 1889, grazie a Bismarck, le
assicurazioni di malattia e di vecchiaia. In Italia la previdenza sociale
inizia a costituirsi a partire dal 1898, anno della «Carta della mutualità», e
dal 1900, quando Giolitti promosse l’istituzione e la distribuzione del
«chinino di Stato» (per evitare la trasmissione del plasmodio, responsabile
della malaria, che Giovan Battista Grassi imputava alla zanzara anofele) (pp.
41-42).
Dopo aver toccato il vertice negli
anni Sessanta e Settanta del XX secolo, il welfare
state ha iniziato il suo declino, accentuatosi con le politiche
neoliberiste di Margareth Thatcher e Ronald Regan, e, soprattutto, con la crisi
finanziaria ed economica del 2007/2008, che ha costretto gli Stati a perseguire
politiche di estremo rigore, tanto da indurci a una sorta di “frugalità
infelice” (p. 44). «L’incertezza del futuro spinge quindi, oggi, per un verso a
mettere la sordina ai desideri di maggiore godimento di beni e servizi e, per
un altro, a far riscoprire valori immateriali di felicità (convivialità,
amicizia, cultura, sport) non misurabili, come si dice, mediante il PIL, bensì
mediante il FIL, ossia la «Felicità Interna Lorda» (pp. 45-46).
Se è vero, per dirla con Agostino e
Hannah Arendt, che ciascuno di noi, nascendo, rappresenta «una novità
inimitabile, inizia una nuova storia» (p. 47), è altrettanto vero che ogni
individuo condivide con i propri coetanei le vicende del suo tempo. Pertanto
occorre distinguere tra «generazioni in senso biologico, come distanza temporale
tra genitori e figli, e generazione come insieme di coetanei che condividono
determinate esperienze storiche» (p. 47). «Tutte le generazioni sono, inoltre,
più o meno compatte e in continuità o discontinuità con quelle loro
contemporanee non solo in base agli spazi geografici e politici in cui crescono
e si sviluppano, ma anche all’incisività delle istituzioni che le educano e le
indottrinano, alle leggi che le disciplinano e alle mode che le attraversano»
(p. 55). Nel mondo occidentale, dopo la «generazione eroica», che ha vissuto
l’esperienza delle due guerre mondiali e la violenza dei regimi totalitari, è
venuta quella «pratica», di chi è nato intorno al 1945, che ha prediletto
lavori sicuri e redditizi al mestiere delle armi. In tempi più recenti si è aggiunta
la «generazione X», caratterizzata dall’ondata dei baby boomers, nati tra il 1964 e il 1979, che hanno attraversato
trasformazioni epocali: la fine del colonialismo e la guerra fredda, la
dissoluzione dell’impero sovietico e l’egemonia degli Stati Uniti.
L’espressione «generazione X» è stata usata per definire la gioventù britannica
dei punk, generazione perduta,
segnata dal nichilismo e dal rifiuto dei valori tradizionali, che rivendicava
l’omosessualità e legami sentimentali non sanciti dal matrimonio. Questa
generazione è stata la prima, purtroppo, ad avere conosciuto l’AIDS. Dopo la
generazione X i sociologi hanno parlato di una «generazione Y» (o dei Millennials), definita come Generation Golf (quella di chi, negli
anni Ottanta, ha goduto di un certo benessere), Shampoo Generation (in cui il rapporto tra genitori e figli non era
più quello ispirato alle contestazioni del Sessantotto), o, ancora, Fun Generation, Fear Generation o Generation
Me. Fra gli aspetti distintivi di quest’ultima generazione ci sono quelli
di essere cresciuti con la televisione commerciale e i reality shows, e di aver assistito allo sviluppo delle nuove
tecnologie (dalle biotecnologie alla mappatura del DNA, sino all’esplosione del
digitale e dei social networks) (pp.
56-59).
La forte denatalità in Europa, Nord
America e Australia, l’impoverimento diffuso e l’accentuato divario fra gli
stati più bisognosi e quelli più agiati della popolazione, hanno certamente
messo in questione il ruolo sociale della famiglia e delle figure genitoriali.
Già negli anni Settanta Christopher Lash aveva osservato con rammarico la
disgregazione dell’istituto familiare, legata, secondo lui, a «una
disarticolazione di quei legami che univano amore e potere, sentimenti e
istituzioni, affetti e regole. La famiglia è ormai diventata più porosa e
permeabile ai mutamenti, meno isolata, più simile al resto della società. I
genitori, a loro volta, si sono “proletarizzati” ed è stato proprio
l’indebolimento della loro autorità ‛verticale’ a provocare una accresciuta
legittimazione dei rapporti egualitari, ‛orizzontali’ (il matrimonio quale companionship e la maggiore vicinanza
tra genitori e figli)» (pp. 62-63). Analogamente diminuisce anche la distanza
tra insegnanti e allievi con il risultato che «la scuola perde spesso di
importanza come fattore di crescita consapevole degli studenti e principale cinghia
di trasmissione culturale (e non solo biologica) fra le generazioni» (p. 63).
L’analisi non è nuova, ma già presente nella Repubblica di Platone, in cui però l’annullamento delle differenze
apriva la strada alla tirannide. Nell’Emilio
di Rousseau, invece, l’equiparazione del bambino e dell’adolescente all’adulto
era alla base della stessa democrazia. La crisi del ruolo del padre, inoltre,
era stata messa in evidenza da Alexis de Tocqueville nel secondo volume de La démocratie en Amérique (1840).
Con l’allungarsi della vita media,
da un lato, cresce il numero delle generazioni all’interno di ogni famiglia,
ma, dall’altro lato, diminuisce il numero degli appartenenti alla generazione
successiva, che dovrebbe favorire possibili eredi. In questo contesto il
contributo dei nonni alla solidarietà familiare è fondamentale, soprattutto dal
punto di vista economico. «La famiglia diventa l’ammortizzatore principale
degli effetti negativi provocati dall’abbassamento delle prestazioni del welfare state, dalle crisi economiche e
finanziarie e dalla mancanza di lavoro, soprattutto per i giovani» (p. 71).
Il ricambio generazionale, del
resto, è nell’ordine naturale delle cose, come sostiene Hegel: «la nascita dei
figli è la morte dei genitori» (p. 72). E Bodei chiosa: «Ciascuno di noi – vale
la pena ricordarlo – è il risultato di una interrotta sequenza di viventi» (ibidem). Eppure vi sono famiglie che si
sono estinte per la mancanza di figli, per la scelta di non avere discendenti,
per morte naturale o per la loro uccisione in giovane età o in guerra.
La terza e ultima sezione verte sul
tema della trasmissione di beni materiali, di relazioni, di valori morali,
politici, culturali e affettivi, e perfino di debiti, da una generazione
all’altra. Essa è stata regolata, nel corso della storia, dai costumi o da
leggi che hanno avuto una lenta evoluzione. Il testamento, pertanto,
rappresenta l’atto giuridico tradizionale per il passaggio di proprietà tra
generazioni. «Il testamento, in effetti, non consente soltanto una mera
trasmissione di cose, ma costituisce un patto tra le generazioni firmato e
suggellato dalla morte, un ponte gettato verso il futuro di chi ci sopravvive,
quando le persone che abbiamo conosciuto non si vedranno più comparire o
svolgere le loro consuete occupazioni» (p. 84).
Scriveva Goethe in una massima del Faust: «Ciò che hai ereditato dai padri,
conquistalo per possederlo» (p. 85). Le cose materiali che abbiamo ereditato
dai nostri antenati, nonni o genitori sono cariche di tracce e impronte,
simboli e significati della storia, individuale familiare e collettiva, che
saranno poi rielaborati dalle generazioni successive. La solidarietà familiare
valorizza così, nel processo di trasmissione dei beni, quella cultura del dono
e della gratuità, che nella simbologia antica, ad esempio nel De beneficiis di Seneca, è raffigurata
dalle Grazie o Cariti, e contrasta con la cultura del do ut des, dell’individualismo, tipico delle nostre società
occidentali. Oggi, infatti, sembra prevalere lo stato d’animo che Tocqueville
attribuiva agli americani: «In mezzo a questo continuo fluttuare della sorte,
il presente prende corpo, ingigantisce: copre il futuro che si annulla e gli
uomini non vogliono pensare che al giorno dopo» (p. 93).
Dov’è allora quello slancio verso il
futuro che aveva affascinato Hölderlin e molti esponenti dell’età moderna? Chi
farà rinascere la fiducia fra le generazioni? «Come potranno, genitori e figli,
sentire l’orgoglio di restituire più di quanto hanno ricevuto? Quale patto
intergenerazionale potrà fondarsi nell’ambito delle diverse, e in parte
inedite, modalità di convivenza (coppie di fatto, coppie omosessuali, famiglie
composte da un solo genitore, numero crescente di unioni tra persone di
differenti etnie, famiglie con figli nati attraverso la fecondazione
artificiale eterologa, ossia con donatore di seme o di ovocito esterno alla coppia)?
Come incideranno, infine, su questo eventuale patto l’annunciata scarsità di
giovani europei nel prossimo ventennio e il mutamento che, a causa delle
successive ondate di giovani migranti, interverrà nella composizione delle
“coorti” e nell’incontro-scontro di valori e tradizioni differenti?» (p. 94).
Questi gli interrogativi impellenti a cui la politica, l’economia e il diritto
sono chiamati a dare risposte solerti ed efficaci. Del resto già nel De monarchia Dante faceva valere il
principio che nella vita bisogna non solo prendere ma soprattutto rendere e,
ispirandosi al suo maestro Brunetto Latini, autore del Tesoretto (incompiuto) e del Tresor
(in provenzale), mostrava come la cultura non rappresenti un tesoro privato,
individuale, perché chi tesaurizza unicamente per sé è paragonato a una
vertigine che ingoia e non restituisce nulla. Pertanto, come auspica Bodei, ci
sarebbe bisogno «più che di giustizia commutativa, di semplice scambio di
equivalenti», di «una giustizia redistributiva allargata, che renda a tutti,
materialmente o simbolicamente, parte di quanto ciascuno ha di volta in volta
ricevuto o preso da altri» (p. 96).
Eppure, anche se non potremmo
restituire più di quanto abbiamo ricevuto, come Platone, Dante, Leonardo,
Einstein e altre personalità illustri della storia mondiale, «ciascuno di noi
lascia il mondo in condizioni diverse da come lo ha trovato e da come, secondo
le sue capacità, avrebbe potuto cambiarlo in meglio» (p. 97).
Indice
I. Le tre età della vita
II. Generazioni
III. Ereditare e restituire
3 commenti:
In recensione: campionario di convenzioni sociali di massa ma senza tutta la avvedutezza, perché alquanto improntato a statistica senza tutta la rigorosa attinenza a statuto scientifico suo proprio cioè questo non di dati su accadimenti ma su eventualità, oltre che (il campionario) con impronta da studi e catalogazioni scientifiche sociologiche.
— Statistica scientifica non è in statistiche stesse ma in organizzazione interna di esse stesse — ...
Purtroppo erranza diffusa tra le masse (eterogenee, non si confonda con menzioni di solo volgo, plebe, gente non facoltosa, moltitudini ignoranti e senza potere) ne fraintende e pensa a realtà di accadere inesistente e costruisce descrizioni di mondanità irreale volendone credere e farne sembrare, con uso deviato del credito, in cui vera fiducia si realizza o raggiro si consuma... Televisioni di Stato e giornali sono state invase da comunicative adatte per falsa realtà e falsa statistica...
Invece argomento di lavoro recensito ne evita senza prescindere, per sociologia della concretezza non altra logica; viceversa lo psicologizzare del recensire, che non prescinde, ma evita, per doppia distanza da quelle credenze, però... con ridotto distacco da esse medesime.
MAURO PASTORE
Vitalità sociale-extrasociale e cosalità extrasociale-sociale, ciò la tematizzazione di autore recensito, cui recensore non appone rigorosa distinzione tra restante parte degli extra.
Difatti neutralità sociologica, capace di affermare quanto studiato anche entro altre attive illusioni non di socialità e tra illusioni sociali pure, perde affermabilità se manca, a chi ne ripete o riformula, distinzione tra non socialità di extrasocialità.
Però tal limite recensivo non va confuso per ultrasocializzante imitazione. Difatti recensione resta usufruibile filosoficamente; e se elencativa di essa par priva di filosoficità di intenti, è pur vero che in anno 2014 poteri sociali in Italia ed anche Europa erano esautorati e condizioni di vita sociale allo stremo a causa di perdurare di errori ed ossessioni di massa che odiernamente si ritrovano ma senza gli effetti antropici, travolti da controeffetti etnici; datoché stupidaggini di massa erano a scopo di rifiutare ambientalità europea e di ricreare ambientalità mediterranea vetero-tardo-antica ma non è stato realizzato tal scopo; proprio ed anche perché poteri etnici vi facevano convergere acmi dei soprusi non estremi delle illusioni fino a farne incappare in controreazioni ambientali continentali... Né dissidio antropologico è accaduto perché genere umano ha iniziato a mutarsi non etnie a meno dissomigliarsi... Ciò anche per restante politica di ispirazione religiosa e da non trascurabile spiritualità, in particolare cristiana ed anticattolicista, che lottando strenuamente per far sopravvivere Stato politico ne aveva condotto verso sistemazioni interne che hanno radicalizzato i contrasti sociali fino a definire una bioetica e una tanatologia fuori dalle razionalizzanti non razionali etiche della morte e dentro logiche vitali individuali-collettive non molteplici-uniche... nondimeno, a ciò oppostosi Falso Stato ed Antistato.
...
MAURO PASTORE
Il (succitato) campionario, in recensione, si ritrova oggi investito da minori antipoteri ma accadendo in maggiori contrarietà, in situazioni di parastatalità clandestinamente o non lecitamente od inavvedutamente accresciute o non diminuite. Esempi non minimi e odierni (non dico di un oggi, che non so):
Ordine dei Carabinieri non ancora destituito ufficialmente nonostante costituzione di Guardia Forestale con stessa competenza,
Polizie non ancora limitate a luoghi di effettiva necessità non solo supposta, peggiori di tutti essendo casi di Polizie Locali,
Servizi Postali attuati con veicoli senza garanzie possibili con clima europeo più continentale ormai inadatti o forse-adattabili ma solo a vie interne di inerenze non pubbliche non strade cioè attuati con ciclomotori a due ruote (non biciclette non motocicli non motociclette);
(...);
stessa situazione, cioè (e non insomma), di un Parastato che è: | Falso Stato - Antistato |, il quale — entrato peraltro in appariscente tilt:
a causa di virus influenzale cui reazioni di massa favolistiche datoché vanamente tossicologiche anziché opportunamente climatologiche; e per paralisi interna non da esterno di vari (non tutti... ) sport, cui (!!... ) differire abnorme di durate gravitazionali (cui scansioni degli orologi e di cronometrie) da durate biologiche, () assieme a spirito di competizione eccessivo, ha reso i relativi ambienti sociali da generalmente insani a del tutto insavi sino ad umana intollerabilità — non ha diminuito invadenza, attuata per 'autodeficienza', spaventosamente uguale a inanità di: o eccessivamente potenziate od insufficientemente destinate mobilità - automobilità (entrambe non motilità (!), queste ultime cui motociclismo, non automobilismo), mostrando matrice convenzionale in pregiudizio di sola 'automacchinalità' (esiste invece anche 'motomacchinalità'), pregiudizio che discende da una fatalità non partecipatività ed in stesso coesistere universale, alle quali masse di non veri cittadini e non veri abitanti (ovvero solo residenti o stanziati) quindi affidano convivenza non autentica, etnofobica e senza vere certe aspettative, le quali ultime criminosamente stesse masse tentano di estendere ad (altre) moltitudini e (altri) singoli...
Dunque, siamo in tempi di climi più forti ma di cittadinanze false vaste anzi oramai più vaste... però con illusioni statistiche di massa sempre piú autoinganni per masse; in particolare, faccio esempio che non può e non potrebbe mai riguardarmi direttamente, tempi in cui concetto di medicina se non più assente di prima negato fino a demenze innumerevoli e intromesse in Stato, ove purtroppo senza tutto l'effettivo necessario discendere di Sanità e Civiltà -non rispettivamente- da Cultura e Igiene... eppure con durate più brevi non per stagionalità ma per evi cui giornate offrono meno occasioni di errori e più fretta (cui motilità tecnologicamente più adatta)...
Questo il quadro odierno (odierno non significa sempre: di oggi), ma cui lavoro recensito non trova continuità neppure in eguaglianza; e con drammi divenuti: o falsi, o tragedie in atto!
Sicché - continuo con un esempio precedente - è solo convenzione sociale, sia il reputare medicina genetica la più "potente" che il reputare tecniche genetiche metodi di "lunga vita" (al contrario, è vero che non possono esserlo!!).
...Poiché illudendosi di risultanze ma altre, allora stesse risultanze possono svanire; anche addentando un 'frutto di mare' consegnatosi per cibo ma adatto ad altre condizioni mentali e fisiche; sicché giovinezza riconquistata potendo terminare anche solo per un boccone in più, di cui - ovvio ma non sempre evidente - nessuna scienza poteva né potrebbe né può né potrà mai notare temibilità!!
MAURO PASTORE
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