Milano-Udine, Mimesis, 2014, pp. 209, euro 18, ISBN 8857524833
Il libro di Caterina Botti intende
indagare il contributo della riflessione femminista nella filosofia morale e
nella bioetica, rielaborando alcune delle idee contenute in Madri cattive (C. Botti, Il Saggiatore,
Milano 2007). Quel che interessa l’autrice è, fra l’altro, la costruzione di un
paradigma teorico sviluppato sul solco del pensiero femminista che risulti
interessante per la teoria morale e sia applicabile alle questioni della
bioetica, superando i limiti di molti approcci attuali. La tesi fondamentale di
Botti è che la riflessione femminista sia importante
in relazione alla teoria
morale in virtù del ripensamento che essa ha inaugurato non solo della
soggettività, ma «della stessa istanza etica» (p. 34).
Una prima considerazione
sull’approccio di Botti riguarda la cura con cui evita di presentare la
riflessione femminista come un blocco teorico omogeneo. Sin dal primo capitolo,
presentando un quadro sintetico sulle prime inversioni di rotta
all’impostazione radicalmente androcentrica, quando non misogina, propria della
storia della filosofia, Botti rintraccia due tendenze, cui attribuisce una
continuità rispetto ai filoni successivi del femminismo. Sono Mary
Wollstonecraft e Olympe de Gouges le autrici che Botti considera significative
nel caratterizzare le differenze tra il «femminismo emancipazionista», per
l’uguaglianza e la parità dei diritti tra i sessi, e il «femminismo radicale» o
della differenza (p. 27), inteso alla differenza tra i sessi. Sin dall’inizio
cioè il femminismo si è articolato, da un lato, in rivendicazioni di tipo
socio-economico, dall’altro, in istanze di ordine simbolico, caratterizzate dal
riconoscimento dell’importanza delle relazioni tra donne, «opposte
all’interlocuzione, anche critica, con il maschile» (p. 24).
Individuando queste due tendenze,
tuttavia, non si propone una visione semplicemente dicotomica del femminismo.
Per esempio, si osserva che, se inizialmente il femminismo radicale o della
differenza ha assunto il genere femminile come categoria indistinta, successivamente
si è articolato in modo da includere la pluralità delle identità finanche
nell’ambito dello stesso soggetto. Ulteriori specificazioni concorrono ad
arricchire il panorama della riflessione femminista moderna, fra l’altro in
relazione al concetto di differenza: secondo alcune conta la differenza di genere, intesa come dimensione sociale e
culturale, per altre è importante la differenza sessuale, ovvero «l’insieme inscindibile di biologico, immaginario
e simbolico» (pp. 33-34); vi è poi chi, come Judith Butler, sostiene la messa
in discussione di queste stesse opposizioni, per una radicale decostruzione
delle categorie sesso/genere in vista di una riflessione positiva. Ciascun
filone si è reso partecipe di un processo continuo di ridefinizione dei termini
della riflessione e della pratica femminista: «non esiste un pensiero femminista», si legge nella quarta di copertina.
Il femminismo emancipazionista ha
affrontato la questione dell’oppressione delle donne nei termini di una
“questione di giustizia” definita con criteri esterni e preesistenti al
femminismo stesso. Esso ritiene che applicando coerentemente i principi
rivendicati dalle teorie della giustizia, la discriminazione delle donne
sarebbe risolta (cfr. p. 37), nell’ambito di presupposti teorici che, secondo
Botti, avvicinano l’emancipazionismo alla morale liberale: entrambi, infatti,
postulano dei soggetti «identici, o comunque commensurabili, che identicamente
si rispettano, lasciando le differenze nella sfera del privato di ciascuno» (p.
39). La tesi contraria a questa impostazione sostiene, dunque, la necessità di
ridefinire l’apparato categoriale che resta sostanzialmente accettato dal
femminismo emancipazionista, vale a dire le idee di donna, uomo, soggetto e
moralità (cfr. p. 40). È quanto propone il femminismo della differenza, che
consente di criticare ogni caratterizzazione morale ispirata ai criteri di
universalità e imparzialità in virtù dell’assunto che «la morale è adeguata
solo se riesce a dar conto dei soggetti nella loro diversità» (p. 44). D’altro
canto vi è chi ritiene il concetto di differenza sessuale come a sua volta
potenzialmente oppressivo, da un lato perché ignora o sminuisce «altri assi di
differenziazione» (p. 49), dall’altro in quanto sembra avanzare la pretesa di
definire in modo esaustivo un individuo a partire dalle sue appartenenze o
identità (cfr. p. 50).
Vi è, inoltre, un’alternativa che
considera insufficiente la moralità universalista sulla base della sua «cecità
alla particolarità» (p. 53). È a questo proposito che l’autrice prende in
considerazione l’etica della cura di Carol Gilligan: benché presenti diversi
limiti, l’interesse che essa suscita consiste nell’aver ispirato «una diversa
comprensione dell’essere umano in generale, e della soggettività morale, come interdipendente
o relazionale» (p. 48). È questo l’approccio valorizzato e sviluppato da Botti,
sia pure arricchito di nuovi elementi in senso critico-normativo.
Un’alternativa «al nichilismo o al relativismo morale» (p. 54) deriva, allora,
da quelle concezioni che sviluppano un discorso normativo, come nel caso di
Judith Butler e Rosi Braidotti, le quali, in luogo di una morale intesa
tradizionalmente come giudizio o norma sul comportamento, propongono un’etica
della virtù capace di considerare, con l’etica della cura, anche una virtù
della «trasformazione di sé» (p. 56) che muova dalla fiducia negli altri.
Nell’indagare più direttamente il
rapporto tra la riflessione femminista e la bioetica, l’autrice osserva che
anche in questo ambito il femminismo tiene conto della differenza
sostanzialmente in due modi: o accettando le griglie categoriali tradizionali,
nell’ambito di una «richiesta di giustizia e eguaglianza» (p. 61), o
decostruendo queste stesse griglie, mettendo in discussione, fra l’altro, la
nozione stessa di soggettività, «di soggettività morale e quindi la stessa
concezione della morale». Nell’ambito del primo approccio, vi è un filone di
autrici che analizza le ingiustizie nella cura della salute e nelle pratiche
della biomedicina, con l’obiettivo di valutare la coerenza e la correttezza
dell’applicazione dei concetti di uguaglianza e giustizia in rapporto alle
esperienze delle donne, e non, sottolinea Botti, una critica di quegli stessi
concetti. Tale approccio critica per esempio il trattamento spesso
“paternalistico” che una donna subisce perché considerata «impaurita, instabile
o irrazionale» nel parto come nelle questioni di fine vita (cfr. p. 67).
Tuttavia, in primo luogo è discutibile rappresentare le donne come un’unica
entità omogenea; in secondo luogo, assumerne «la comune oppressione» (p. 71)
può rafforzare lo stereotipo del soggetto debole bisognoso di protezione; in
terzo luogo, classificando come oppressive determinate esperienze si rischia di
proporre una visione unilaterale di quanto è ritenuto tale (cfr. p. 71). Si
propongono, dunque, forme di riflessione morale incentrate sulla capacità
dell’agente «di riconoscere e prendere in carico i bisogni degli altri nella
loro particolarità, nei singoli contesti» (p. 72), ripensando la soggettività
come «incarnata, relazionale e differenziata» (p. 73), talora problematizzando
lo stesso concetto di identità.
Questo secondo tipo di contributo ha
riflettuto sul rapporto, asimmetrico, medico-paziente e sulle scelte
riproduttive in un «generale richiamo alla cura per la relazione» (p. 76).
Viene dunque riconosciuto un limite fondamentale nella discussione bioetica
relativa alle scelte riproduttive, la quale non deve esaurirsi nel paradigma
meramente contrappositivo fra l’autonomia della madre e i diritti del
nascituro: questo approccio presuppone un individuo atomistico, «compiuto in
sé» (p. 77), ignorando che «i soggetti si costituiscono e si mantengono nelle
relazioni» (p. 77). Ciò conduce a una «riconcettualizzazione della morale
stessa», che valorizzi l’attenzione e la responsabilità verso gli altri
considerati nella loro particolarità e concretezza. Botti propone dunque un
paradigma morale che sviluppi questi assunti recuperando l’etica della cura,
con debite correzioni scaturite dal confronto con le critiche femministe.
L’etica della cura è definita
dall’autrice come «quella concezione della morale in cui cruciale è la capacità
o la virtù di essere solleciti nei confronti dei concreti bisogni degli altri,
nella loro particolarità» (pp. 78-79). La critica a questo modello che Botti
ritiene più interessante ai fini dell’articolazione di un diverso paradigma
morale, consiste in quella «non trasparenza» degli individui con se stessi e
quindi con gli altri, che l’autrice definisce «istanza dell’opacità» (p. 84).
L’istanza della cura e quella dell’opacità possono così essere fruttuosamente
indirizzate verso l’articolazione di un modello morale alternativo tanto
all’intellettualismo quanto all’emotivismo, che attraverso l’immaginazione
universalizza il contenuto morale radicato – come voleva Hume – nei sentimenti.
Tale modello si rivela fra l’altro
interessante nella risposta ai problemi della bioetica che hanno coinvolto la
riflessione femminista, come la questione dell’aborto. Essa può essere
affrontata, in primo luogo, rifiutando l’ottica meramente oppositiva madre/feto
in favore di una concezione morale relazionale di esso; in secondo luogo,
riconoscendo che intorno alla questione si addensa un conflitto cruciale,
quello fra i sessi nell’asimmetria del controllo riproduttivo: poiché «è
proprio da questo maggiore potere femminile che dipendono, come ha affermato il
pensiero femminista, le istanze di controllo della sessualità e della vita
femminile che hanno caratterizzato il patriarcato» (p. 97). Botti osserva che
il desiderio di partecipare alla scelta riproduttiva ha preso sistematicamente
le forme di una delegittimazione morale della donna (cfr. p. 98): anche là dove
viene riconosciuta la legittimità dell’aborto, comunque non si intacca l’idea
di una «arbitrarietà o capricciosità» della scelta femminile, «sulla base della
sua irrilevanza morale o facendola rientrare nella sfera di privatezza delle
donne». Allora, occorre partire dalla consapevolezza dell’ineludibilità di
questo conflitto, in favore di «una riflessione sulla morale che consenta di
coniugare la libertà e l’autonomia femminile con la responsabilità e la
competenza morale (e non con l’arbitrio o il capriccio)» (p. 99).
Per uscire dall’impasse
contrappositiva – diritto alla vita dell’embrione o feto/libertà della donna,
«intesi come separati e separabili» (p. 99) – fatta propria anche da chi
argomenta a favore dell’aborto (per esempio i liberali), è dunque necessario
partire da «una considerazione relazionale della condizione umana» (p. 109). Si
tratta di concepire una nuova e diversa idea di autonomia, declinata nel senso
di una responsabilità relazionale, nell’ambito della quale la donna si
confronta con «i vincoli emotivi e sentimentali» in cui si trova nel momento
della scelta. Riconoscere alle donne la loro «competenza morale» significa
anche riconoscerne la «possibilità di scegliere più in generale del loro stesso
destino, in una parola, la loro soggettività morale» (p. 117).
Libertà e responsabilità, dunque, si
realizzano nell’idea di relazione. È questa la prospettiva che orienta
l’autrice nel tentativo – realizzato nella seconda parte del libro – di
dirimere anche le altre questioni bioetiche più attuali, nel costante confronto
col femminismo: la procreazione medicalmente assistita, la questione dei
neonati estremamente prematuri, il testamento biologico.
In conclusione, il testo si presenta
non solo come un’articolata risposta a ogni tentativo di riduzione del
femminismo a un’unica prospettiva – come suggerisce peraltro lo stesso plurale
del titolo –, ma anche come un vivace percorso filosofico all’interno delle sue
numerose sfumature teoriche e delle sue
possibilità. La riflessione femminista si rivela uno sguardo sul mondo e sul
pensiero di cui possono giovarsi anche la teoria morale e la bioetica, a patto
di mettere in discussione le proprie categorie di riferimento.
Indice
I Parte - Il pensiero femminista e
la filosofia morale
Capitolo 1 - La filosofia, le donne
e il femminismo
Capitolo 2 - Il contributo del
pensiero femminista in etica
Capitolo 3 - Il contributo del
pensiero femminista in bioetica
II Parte - Il pensiero femminista e
le questioni della bioetica
Capitolo 4 - L’aborto
Capitolo 5 - La procreazione
medicalmente assistita
Capitolo 6 - I neonati estremamente
prematuri
Capitolo 7 - La fine della vita e il
testamento biologico
Nota al testo
Bibliografia
Nessun commento:
Posta un commento