Roma, Lateran University Press, 2014, pp. 188, euro 20, ISBN 978-88-465-0924-6.
L’originalità di Wittgenstein, l’eccentricità del suo stile, le sue personali vicende biografiche e il lento incedere della pubblicazione dei suoi scritti, con le connesse scelte editoriali dei suoi curatori testamentari, sono tutti elementi che hanno influenzato la ricezione del pensatore austriaco nella storia della filosofia del Novecento, senza però alcuna garanzia che ciò avvenisse a prescindere da letture di parte, quando non addirittura ideologiche. L’interpretazione del pensiero wittgensteiniano ha conosciuto alti e bassi, tanto che questo
filosofo può essere annoverato nella schiera di coloro che sono più citati che compresi.
A fronte di questa situazione, ogni studio che si propone di approfondire la sua filosofia, specie a partire da precisi riferimenti testuali opportunamente contestualizzati, è tanto raro, quanto benvenuto. Con questo spirito va accolto il saggio di Rossi, nonostante il suo autore lo presenti con tono talvolta provocatorio; riferendosi alla funzione della sua opera, afferma, infatti, che non è quella di esaurire pensiero wittgensteiniano nella sua interezza, ma di sdoganare la figura e l’opera del Viennese dalle precomprensioni che lo tengono ancora in una terra di nessuno e di sensibilizzare il mondo cattolico alla profonda religiosità di questo originale filosofo-scienziato. Facendo appello al pubblico italiano e ricorrendo a contrapposizioni “politicamente scorrette”, Rossi incalza: «la ormai evidente insostenibilità dell’adesione wittgensteiniana alla filosofia analitica e al positivismo logico lo fa allontanare dalla cultura laicista, che lo vede ormai in odor di sospetta inclinazione metafisica, mentre il mondo cattolico, ancora fermo al “vecchio Wittgenstein” lo rigetta ancora come metafisico. E così, in un palleggiarsi l’equivoco da una parte all’altra, il pensatore viennese è senza patria, isolato, spesso dimenticato, in ogni caso tradito» (p. 15). L’obiettivo di Rossi, quale si palesa nel corso del suo accurato studio, non è comunque quello di schierare Wittgenstein da una parte o dall’altra, quanto piuttosto quello di proporre una chiave ermeneutica che non ne tradisca il pensiero: questo il principale valore di un’opera che ha grandi meriti, qualche limite e alcune criticità.
Tra i meriti va anzitutto segnalato l’uso puntuale dei testi di Wittgenstein, sempre citati per supportare le diverse tesi interpretative. La prima di esse consiste nel sostenere la continuità della speculazione wittgensteiniana, rifiutando la netta distinzione tra primo e secondo Wittgenstein introdotta da Russell e divenuta canonica. Per Rossi, infatti, tra la prima e la seconda fase della riflessione wittgensteiniana non c’è iato, ma continuità argomentativa. Una seconda scelta consiste nel considerare la biografia di Wittgenstein una condizione necessaria ad una corretta esegesi del suo pensiero.
Rispetto a queste due puntualizzazioni, ancor più inedita è la scelta del contesto all’interno del quale Rossi suggerisce di cogliere la specificità di Wittgenstein. Tale contesto è duplice: in senso più ampio, esso è costituito dallo scientismo della prima metà del Novecento, in senso più stretto, è definito attraverso i rapporti di Wittgenstein con i Circolisti. Leggere Wittgenstein all’interno della storia della filosofia della scienza costituisce l’impegno prevalente di tutto il primo capitolo. Il secondo consiste invece nel valorizzare l’originalità di Wittgenstein nei confronti del Circolo di Vienna e dei suoi colleghi di Cambridge, in particolare Russell e Moore, a partire da alcune sollecitazioni di Ayer. Ripercorrendo la storia del Circolo di Vienna e presentando i rapporti dei suoi principali esponenti con il filosofo austriaco, Rossi raggiunge un duplice scopo: coglierne le peculiarità e individuare le ragioni per cui Wittgenstein è stato iscritto tra le fila dei neopositivisti logici, ragioni del tutto insufficienti e fuorvianti: «questo regno incontrastato della scienza fondato dall’analisi meticolosa operata nell’opera di Wittgenstein chiarisce con altrettanta evidenza (la stessa che sorregge le speculazioni pro-scienza) quanto povero sia, alla fine, il nostro sapere scientifico. Il dicibile che è anche il pensabile e viceversa, neanche sfiora i problemi più importanti e lascia con un pugno di mosche tutti coloro che hanno affidato alle analisi del Tractatus il compito di rifondare una metodologia scientifica» (p. 67-8).
Dopo aver imputato a Russell la principale responsabilità storica del fraintendimento del pensiero di Wittgenstein, rimprovero che Wittgenstein stesso aveva esplicitamente rivolto al suo mentore, tanto da aver interrotto con lui ogni rapporto di amicizia (pp. 113-5), l’autore apre l’ultimo capitolo offrendo la sua interpretazione del ruolo che il silenzio riveste nella filosofia di Wittgenstein: «nessuno, tuttavia, può pretendere di esaurire quell’ineffabile che, anche se oggi taciuto, è possibile ancora indicare come verità. Questa appartiene all’indicibile e questo indicibile non significa inconoscibile. Significa, invece, che non può appartenere al sapere della ragione, ma al silenzio dell’intelligenza che sa comprendere ed intelligere» (p. 121). Dalla proposta di definire Wittgenstein «non tanto il filosofo del linguaggio logico-positivista, quanto invece il filosofo del silenzio» (p. 123), segue il tentativo di affrontare la tematica religiosa di questo autore e le sue suggestioni su come affrontare la questione del senso della vita. Emerge qui «l’inquietudine drammatica di Wittgenstein» (p. 153) che lo rende autore sempre attuale e, in particolare, vicino alla nostra sensibilità, oltreché capace di aiutare ciascuno nel raggiungere la felicità. Anche in questo caso Rossi non avanza alcuna tesi che non possa essere supportata dai testi dello stesso Wittgenstein, attingendo, in questo caso, ai Diari segreti stesi durante la permanenza al fronte dopo essersi arruolato come volontario nell’esercito austriaco in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale. Rossi usa tali testi con la necessaria prudenza. Considerato il confluire di tale materiale nella stesura del Tractatus emerge con chiarezza una nuova via nell’interpretazione dell’unica opera pubblicata da Wittgenstein in vita: «nella misura in cui il Tracatus enuncia i requisiti di significanza del linguaggio, esso demarca anche ciò che oltrepassa tali limiti. Spingendosi infatti a formulare asserzioni sulle condizioni che rendono significante il linguaggio, il testo trascende al tempo stesso il confine della raffigurazione logica della realtà. L’impensabile, l’indicibile di cui parla Wittgenstein in questo contesto, è la condizione della raffigurazione logica e linguistica, condizione immanente e quindi irrapresentabile» (p. 151).
Dunque, «ciò che Wittgenstein ha capito fin dall’inizio è che la scienza non ha alcuna possibilità di conoscenza e che le nostre certezze non possono superare la struttura tautologica della logica» (p. 143). Per dirla con due metafore e con un proverbio, richiamati dallo stesso Rossi, i testi di Wittgenstein vanno letti alla luce della complementarietà, in quanto sono come negativi fotografici (p. 140) o come sforzi di aprire una porta spingendola verso l’esterno, quando invece è costruita per essere aperta con il gesto opposto (p. 141); in maniera ancora più spicciola, Wittgenstein “parla a nuora perché suocera intenda” (p. 158).
I limiti del lavoro di Rossi consistono nell’usare il linguaggio filosofico all’interno del quale l’autore si è formato, per discutere la posizione di Wittgenstein. Il rischio è quello di essere fraintesi, come quando fa riferimento all’esistenza di un mondo al di là del dicibile (p. 122) o quando ripetutamente parla di un senso fondante (pp. 5; 36; 60; 68; 151; 158). Rossi non sempre riesce ad evitare qualche scivolone, ma, per rendere le sue argomentazioni perspicue a una parte del suo pubblico, accetta questo pericolo con lucida consapevolezza, riconoscendo che «la zona incolore non può definirsi il fondamento di quella colorata (anche se spesso così l’ho definita), in quanto ciò che si dice ed è possibile dire è solo su/di questo mondo del linguaggio, – la zona colorata –, l’altra è l’oltre. Se vado a definirla come fondamento, rientro nell’insensatezza del dire, in quanto la riporto al mondo “colorato” del dicibile. Wittgenstein è così rigoroso che non cade in questo errore metafilosofico e si limita a dire quel che c’è da dire, avvertendo, tuttavia, il lettore che alla fine, ciò che si è detto, di fatto, non conta nulla in ordine ai grandi problemi della vita e che “quella scala” che ha permesso di salire sin lì, può essere gettata via» (p. 114).
Le criticità del testo, quali stimoli per ulteriori studi, consistono nella scelta di ignorare alcune recenti letture del Tractatus che valorizzano la struttura a rete del testo, puntando sulla numerazione decimale delle singole proposizioni e di prescindere dal contributo offerto da Wittgenstein alla filosofia analitica della religione. Nel primo caso Rossi avrebbe trovato significative convergenze con la propria tesi, nel secondo avrebbe avuto l’occasione di confrontarsi con un dibattito acceso e vivace al quale la sua proposta può (e potrà) contribuire in modo determinante.
La lettura del testo di Rossi è favorita dal suo stile che ripetutamente esplicita la volontà di entrare in empatia con il fruitore, incalzandolo con domande, confessandogli il proprio punto di vista, anticipando possibili obiezioni e rassicurandolo, proponendogli una nuova esegesi dei testi di Wittgenstein ogni volta che ne viene contestata una assodata dalla tradizione manualistica. Felice risulta, inoltre, la scelta di insistere consapevolmente su alcune citazioni ritenute centrali, tratte prevalentemente dal Tractatus, dalle Ricerche e dai Quaderni 1914-1916. Su di esse Rossi indugia spesso: «mi scuso con il lettore per questa ripetizione ed altre possibili, ma vale come regola astratta il fatto che un’affermazione, una volta proposta al lettore, debba restare lì e non essere ripetuta. Essa acquista nuovi e crescenti significati, se calata in contesti diversi e in momenti diversi della lettura. Il contenuto è il medesimo, ma la sua valenza semantica muta in relazione allo stato in cui versa il lettore: e ciò che il lettore aveva presente prima, non è il medesimo che ora lo accompagna di fronte alla stessa citazione» (p. 73). L’effetto ottenuto è quello di accompagnare il lettore passo passo e di sondare con lui la profondità degli scritti wittgensteiniani e di meditarne la ricchezza.
La proposta interpretativa di Rossi risulta fondata, plausibile e convincente, sia sotto il profilo testuale, sia sotto quello storiografico e per questo ha le carte in regola per raggiungere lo scopo che il suo autore si prefigge: eliminare alcuni pregiudizi che inficiano il contributo di Wittgenstein al pensiero contemporaneo. Essa, però, merita anche di raggiungere un fine più ambizioso, come quello di inaugurare a livello nazionale e internazionale una nuova fase nell’interpretazione del filosofo austriaco.
Indice
Premessa
Introduzione
Capitolo primo. I limiti del certo
1.1. Logica e linguaggio
1.2. Scoperta scientifica e giustificazione epistemologica
1.3. Pensare il dicibile
1.4. Oltre la logica
Capitolo secondo. I testimoni
2.1. Il Wiener Kreis
2.2. I colleghi del Weiner Kreis
2.3. Moore e Russell
Capitolo terzo. Il silenzio del linguaggio
3.1. Valenza semantica del silenzio
3.2. Dire l’impensabile: il ruolo dei Diari
3.3. Fondazione metafisica: il senso presupposto
3.4. Evitati i rischi dell’irrazionalismo
Conclusione
Bibliografia
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