mercoledì 24 giugno 2015

Cooper, Melinda, Waldby, Catherine, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera

[Ed. originale: Clinical Labor. Tissue Donors and Research Subjects in the Global Bioeconomy, Durham (NC), Duke University Press, 2014]
Trad. it. di Angela Balzano, Roma, DeriveApprodi, 2015 pp. 254, euro 18, ISBN 978-88-6548-112-7

Recensione di Silvia Baglini - 12/04/2015

Chi cercasse in questo nuovo lavoro di Melinda Cooper e Catherine Waldby una riflessione sul ruolo dei corpi nel sistema globale di divisione del lavoro che chiami in causa le implicazioni etiche delle bioscienze e delle biotecnologie più moderne, resterà probabilmente spiazzato dalla costruzione e dai temi del presente volume.  
Le autrici si tengono consapevolmente distanti dalle argomentazioni di stampo bioetico, per seguire invece una linea tutta interna alla tradizione del pensiero

politico-economico moderno, richiamando – come sottolinea nella prefazione Angela Balzano, che dell’edizione italiana è traduttrice e curatrice – la nozione foucaultiana di  “biopolitica” nonché, in misura anche maggiore, la filosofia di Marx e gli sviluppi recenti del marxismo (in particolare, ma non solo, nell’ambito della teoria femminista). 
Quella di  “biopotere” è una nozione entrata a pieno titolo nella storia del pensiero occidentale a partire dai lavori di Michel Foucault e della quale lo stesso filosofo francese ha indicato il significato non univoco: biopotere è sia quello che esercita la sua azione disciplinante sui corpi, sia il potenziale dei corpi stessi in quanto fonti di valore e di valorizzazione, in un’epoca che vede il progressivo smantellamento delle strutture fordiste del lavoro, della produzione e della società (Prefazione, p. 6). Se per ovvi motivi biografici l’analisi foucaultiana si è dovuta arrestare alle soglie epocali del post-fordismo, Cooper e Waldby ci dicono oggi che i tempi sono maturi per una ricerca che sviluppi il secondo lato del significato di biopotere e che si presenti come una critica dell’economia politica nel nuovo Millennio.
Veniamo così all’altro riferimento teorico ampiamente citato dalle autrici, Marx e il marxismo. I soggetti presi nelle maglie del  “biolavoro globale” rappresentano la forza-lavoro del XXI secolo e su di essi è necessario misurare la validità della critica più radicale che sia stata mossa, nel mondo occidentale, al capitalismo. Cooper e Waldby ritornano al testo di Marx (con riferimento anche a contributi di studiosi tra i più interessanti della contemporaneità, come Isaak Rubin e Moishe Postone) per interrogare alcuni punti chiave, come la teoria del valore-lavoro (pp. 35-40) o quella dell’alienazione del lavoro e del lavoratore all’interno dei processi di produzione (pp. 134-8). La domanda che ne emerge non è tanto se queste teorie siano “corrette” (tutto sommato, pur con le precisazioni che vedremo, le autrici non sembrano volersene disfare), quanto piuttosto se siano sufficienti a consentire la comprensione del modo di produzione capitalistico globale basato sul lavoro bio-economico dei corpi. 
Che cosa accade nel momento in cui i soggetti entrano in catene di relazioni transnazionali che impiegano i loro corpi, con le loro potenzialità biologiche, come mezzo di produzione e oggetto di scambio, come parte di un processo di sviluppo e ricerca che è al cuore del progresso della conoscenza scientifica in corso? Perché i soggetti possano cedere parte dei loro diritti sui propri corpi occorre che si compia una trasformazione: il corpo deve divenire mezzo di produzione in senso economico-capitalistico (mobilitando in questo senso le capacità riproduttive di cui è dotato) e al tempo stesso proprietà alienabile del suo “possessore”. Si obietterà che le potenze fisiche e intellettuali del corpo sono cedute da sempre (o almeno, da quando il modo di produzione capitalistico si è instaurato come dominante) dal lavoratore al datore di lavoro, come forza-lavoro in cambio di una retribuzione economica. Ma se in questo vi è una continuità, vi sono però anche delle specificità: 1) il tipo di contratto che entra in gioco negli scambi bio-economici non è generalmente di lavoro, ma è un contratto che regola la fornitura di servizi e la cessione di prodotti (pp. 89 e ss.); 2) la valorizzazione avviene fuori dal processo lavorativo in sé, come cura e valorizzazione di sé cui i soggetti sono chiamati, senza confini spazio-temporali definiti (pp. 70-74). 
In questo senso i soggetti impiegati nel biolavoro globale cui le autrici si riferiscono più specificamente – donatori di sperma e donatrici di oociti, madri surrogate, donatrici di cellule staminali, cavie di sperimentazioni cliniche o consumatori/trici che socializzano la propria esperienza medica a vantaggio della ricerca – vengono a rappresentare non solo un comparto particolare per quanto vasto della forza-lavoro globale odierna: essi diventano l’incarnazione (nel senso letterale) delle condizioni precipue del capitalismo del XXI secolo e delle nuove forme che il lavoro sta assumendo a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
Le autrici portano così in luce alcuni dei caratteri salienti di quello che possiamo ancora chiamare un  “modo di produzione”, analizzandone gli aspetti sul piano economico, politico, sociale, scientifico, con particolare attenzione alle linee tracciate dalla globalizzazione e al persistere di rapporti post-coloniali e post-imperialisti che si rivelano strutturalmente correlati al modello economico mondiale attuale. Il biolavoro globale mostra così la sua connessione a doppio filo con la destrutturazione industriale tipica del post-fordismo e con il passaggio a forme di lavoro  “informale” diffuse in strati sempre più ampi della popolazione, con livelli diversi di trattamento economico, di protezione sociale, di formazione intellettuale. Nel passaggio dal capitale industriale al  “capitale umano” (che è tanto quello delle madri surrogate quanto quello dei ricercatori universitari) si attua una trasformazione dei rapporti di lavoro al cui interno la prestazione “occasionale” assume un profilo giuridico nuovo, estraneo ai tradizionali contratti collettivi o sindacalmente tutelati. Entro questo quadro può formarsi un esercito di lavoratori della bioeconomia che si muovono sui confini (sia quelli nazionali che quelli dello statuto giuridico e politico) grazie alla fluidità estrema delle nuove categorie. Al tempo stesso, alla destrutturazione industriale hanno corrisposto i processi di smantellamento del welfare, di privatizzazione della copertura sanitaria e assicurativa, di monetarizzazione dell’assistenza che hanno creato l’offerta di lavoro biologico: la maggior parte dei soggetti che partecipano all’economia del biolavoro “scambia” la propria salute con prestazioni di servizi e prodotti senza un inquadramento in un sistema sanitario centralizzato, anzi spesso proprio per assicurarsi, tramite denaro o coperture specifiche, quelle tutele e quelle cure di cui sarebbe altrimenti priva. Accanto a questi processi, le trasformazioni della struttura familiare che soprattutto il mondo occidentale ha conosciuto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno creato le condizioni e gli spazi per molte forme del biolavoro attuale, separando il lavoro riproduttivo femminile da quello di cura, la riproduzione dal destino della coppia, le donne dal nucleo chiuso della famiglia sostenuta economicamente dal maschio lavoratore. La conquista di un ruolo – spesso comunque informale – nel mondo del lavoro ha consentito alle donne di separare il proprio corpo dallo spazio del privato, aprendo da un lato alle coppie committenti e alle madri surrogato, dall’altro alla necessità di monetizzare quelle prestazioni che precedentemente le donne svolgevano senza una retribuzione, in quanto compiti loro “naturali”. Accanto alle donne che prestano il loro corpo alla riproduzione nelle forme della bioeconomia globale vediamo dunque sorgere la schiera delle lavoratrici della cura, forza-lavoro transnazionale che svolge, a pagamento, quelle funzioni “femminili” tradizionalmente svolte nell’ambito familiare dalla moglie, soggetto “non economico” a differenza del capofamiglia uomo. 
Cooper e Waldby si astengono da qualsivoglia giudizio di carattere morale intorno a queste trasformazioni (sottolineando come anzi almeno una parte di esse sia frutto delle lotte di movimenti progressisti, come quelli femministi), analizzando invece in profondità il ruolo economico e la posizione dei soggetti che di queste relazioni transnazionali sono al tempo stesso l’asse portante e il materiale sperimentale. Pertanto non vi sono, nel libro, richiami generici a  “diritti umani” di cui essi (e esse) sarebbero portatori/portatrici (cfr. p. 173), ma riferimenti puntuali a vincoli contrattuali, tutele (o loro assenza), retribuzione e determinazione della retribuzione di questi uomini – e soprattutto di queste donne – il cui ruolo è evidentemente quello di una forza-lavoro il cui inquadramento è però quanto di più lontano rispetto al tradizionale inquadramento conosciuto dalla popolazione lavoratrice lungo gli ultimi duecento anni di sviluppo occidentale. Si potrebbe affermare, senza timore di cogliere troppo lontano dal segno, che Cooper e Waldby ridefiniscono un discorso di  “classe” in un sistema nel quale, con la nozione di  “capitale umano” che trasforma ciascuno in un  “imprenditore di se stesso”, la divisione di classe nella forma più nota sembra essere venuta meno. Non per questo però la divisione del potere sociale che quel concetto ottocentesco indicava ha cessato di esistere, ma si è venuta semmai a ridisegnare lungo linee nuove (come la divisione di classe tra le donne committenti e le fornitrici, le mogli/madri e le colf/badanti, cfr. p. 139) o solo apparentemente “rinnovate”: la distribuzione del biolavoro a livello globale ricalca le vecchie mappe del colonialismo e dell’imperialismo, la transnazionalità distingue pur sempre tra flussi di capitali, conoscenze e diritti e flussi di manodopera a basso costo priva di cittadinanza o tutele sulla propria persona, a partire da quella fisica. Con il biolavoro globale la struttura di capitale non sparisce, ma si trasforma: l’investimento si privatizza, nella figura dell’imprenditore di se stesso impegnato nella valorizzazione della sua persona (per cui l’impiego del tempo, la formazione, le esperienze, la cura fisica divengono elementi capitalizzabili); è la proprietà del brevetto, del lavoro intellettuale a garantire il ritorno del profitto, e la proprietà intellettuale nel XXI secolo, lungi dall’essere socializzata, è altamente esclusiva, speculativa, in continuo rinnovamento e apparentemente – ma solo apparentemente – distaccata dai caratteri fisici dei corpi e dell’ambiente (pp. 157-9). 
Ad emergere dal lavoro di Cooper e Waldby è un ordine simbolico e politico-economico, smontato nei suoi elementi chiave e quindi ricostruito come ingranaggio globale: l’ordine della salute, della bianchezza, della privacy e dei ruoli di genere in cui siamo immersi, all’interno del contesto democratico in cui noi occidentali abitiamo. La critica delle due autrici ne porta in rilievo le linee di forza, intese come le linee – anche fisicamente percepibili, in confini e barriere – lungo cui si articolano le dinamiche di potere entro le quali la democrazia si esercita. 
A differenza di un’economia della conoscenza, tema decisamente più frequentato dalla letteratura, qui viene tracciata un’economia dei corpi, elementi irriducibili con i quali anche il lavoro intellettuale più astratto, mediale, “virtualizzato” deve infine fare i conti. La potenza del biolavoro sta in una valorizzazione del biologico – valorizzazione che passa anche per l’iscrizione di segni puramente simbolici su corpi mai fino in fondo “naturali”: là dove una bioetica rischia di naturalizzare proprio ciò che nel nostro mondo diviene elemento di gioco politico ed economico, la biopolitica ci richiama alla storicità del potenziale ri-produttivo e al modo in cui anche i corpi, anche le cellule, anche il DNA acquisiscono un significato diverso secondo il ruolo di classe dei loro possessori. Al tempo stesso le autrici sottolineano come queste corporeità chiamate in causa dal biolavoro siano irriducibili proprio perché sono quelle che consentono la valorizzazione dell’economia dei brevetti che di esse si serve: il potenziale biologico, e anche la sua imprevedibilità (legata alla singolarità degli individui) sono ciò che fa di un’ipotesi scientifica un capitale di investimento. La medicina e le altre produzioni che si vogliono sempre meno standardizzate e sempre più sensibili ai target specifici possono e debbono investire su questi corpi monitorandoli, piuttosto che disciplinandoli nel senso classico. Alla cooperazione e alla società di massa si viene a contrapporre la suggestione di un individualismo di nuovo stampo nel quale i rapporti di forza sono delocalizzati, frammentati, moltiplicati, ma di certo non superati (p. 185). È a partire da questa consapevolezza pungente ( “oggi la sperimentazione farmaceutica dipende dall’esistenza delle condizioni del lavoro precario”, p. 198) che le riflessioni bioetiche debbono dotarsi degli strumenti per contestare l’ideologia dominante. 


Indice 

Prefazione. Neoliberismo e nuove tecnologie, di Angela Balzano
Ringraziamenti

PARTE I. COS’È IL LAVORO CLINICO?
1. Una teoria del valore per il lavoro  “clinico”
2. Origini storiche del lavoro  “clinico”. Ordine industriale, capitale umano, esternalizzazione del rischio

PARTE II. DAL LAVORO RIPRODUTTIVO ALLA MANODOPERA RIGENERATRICE
3. Esternalizzare la fertilità. Contratto, rischio, tecnologie di fecondazione assistita
4. Arbitraggio riproduttivo. La compra-vendita della fertilità oltre i confini
5. Lavoro rigenerativo. Donne e industria delle cellule staminali

PARTE III. L’ESPERIMENTO A LAVORO: STUDI CLINICI E PRODUZIONE DEL RISCHIO
6. L’esperimento americano. Dal sistema industriale-carcerario-accademico alla clinica diffusa
7. Economie speculative, corpi precari. Sperimentazioni transnazionali in Cina e India
8. L’esperimento socializzato a lavoro. Quando i consumatori producono innovazioni farmaceutiche

Note
Bibliografia
Postfazione. Produrre la riproduzione, di Carlo Flamigni

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