Il Mulino, Bologna 2012, pp. 222,
euro 20, ISBN 9788815239495.
“Nessuno ha accesso diretto all’interiorità altrui […] nessuno
può darsi agli altri in modo immediato” (p. 1): la tesi espressa nella prima
pagina del libro di Barbara Carnevali ne rappresenta il nucleo. Ma si badi a
non fraintenderlo. Il suo punto decisivo è che l’accesso non è diretto e il darsi non è immediato.
Detto altrimenti, non si
tratta di (ri)proporre una filosofia dell’inesprimibile, dell’interiorità
sepolta, ma proprio al contrario di rivendicare da un lato le ragioni di ciò
che, talvolta ostentato e in certe circostanze accuratamente progettato,
costituisce comunque il solo materiale attraverso cui conosciamo e
interpretiamo gli altri; dall’altro, le ragioni di questo stesso progettare e
calcolare l’effetto sugli altri di ciò che si dice o che si indossa, come
strategie attraverso le quali si sceglie come darsi.
Da ciò segue necessariamente il leitmotiv polemico del libro. Se le cose
stanno così non ha alcun senso – almeno, alcun senso filosoficamente profondo,
mantenendo al massimo un valore occasionale e puntuale – la diffusa diatriba, di stampo approssimativamente
romantico, in favore del naturale e dell’autentico anche e soprattutto nelle
relazioni umane. Il fenomenismo delle
relazioni umane non “riposa su una perversione del giusto ordine della
comunicazione” (ibidem), ma al
contrario è esattamente la maniera in cui avviene fisiologicamente la
comunicazione; non si tratta di una corruzione di un ordine originario della
trasparenza, perché la trasparenza, semplicemente, è umanamente impossibile.
(Resta la questione della condizione prelapsaria, ove Adamo avrebbe posseduto
un linguaggio in cui res e verba aderivano; ma in ogni caso è
certo, almeno nell’ortodossia cristiana, che tale condizione è naturalmente
inattingibile).
Insomma, la rete del nostro mondo
sociale è totalmente costruita a partire da apparenze, o se il termine suona a
suo modo brutale, da relazioni sensibili. Esse sono la base tanto delle grandi
costruzioni di senso condiviso, a livello di rappresentazioni ideologiche o di
tendenze storiche, quanto delle relazioni personali e intime, basate in ultima
analisi su quanto (certamente, spesso con buone ragioni) crediamo di sapere e
capire dell’altro. In effetti, ciò non ha alcun significato disfattista
rispetto alla possibilità di ricavare nozioni corrette nel rapporto tra
persone, esattamente nella misura in cui è possibile inferire correttamente, a
partire da una serie di proposizioni, che chi parla con me ha sete, oppure non
crede alla metafisica di Aristotele. Ma appunto si tratta di inferenze a
partire da tracce lasciate apparire, non di impossibili prese dirette con l’interiorità
altrui.
E ciò è in più di un senso assolutamente
salutare. La estroversione di sé, costituita dall’ampio apparato di abiti,
mode, frasi, maschere sociali indossate, etc., consente a ciascuno di noi di
avere in ultima analisi uno spazio interiore irriducibile, e alla convivenza sociale
di mantenersi senza che le reciproche autenticità producano conflitti. In fin
dei conti tutto è superficiale, nel senso che le superfici che abbiamo a
disposizione significano e proteggono al tempo stesso. Ovvero: tutto è
interfaccia, in certo modo, perché lo strato delle apparenze esprime una certa
versione dell’interiore e contestualmente lo preserva. Il sistema della moda,
ad esempio, proietta una certa immagine di sé inevitabilmente calcolata e
necessariamente esposta allo sguardo altrui, e al tempo stesso scherma il sé,
sia dallo scrutare altrui che, più prosaicamente, dalle intemperie.
Non è un caso che Rousseau,
l’autore più avverso a tali prospettive, e che ha avuto un ruolo decisivo nel loro
diventare sostanzialmente inattuali dopo l’epoca d’oro del barocco, esprima
questa sua ostilità come un’ostilità nei confronti delle arti. Tutti questi
fenomeni di proiezione e competizione, di natura intensamente sociale e
impensabili fuori da dinamiche propriamente umane, sono infatti in diretto
contrasto con la sfera del naturale; o meglio, lo attraversano e intersecano in
modo tale da rendere impraticabile ogni polarizzazione semplice e manichea in
favore del naturale stesso. Il naturale umano, come molti hanno osservato, non
può essere pensato prima e sopra di questo costante lavorio delle arti. E la
società è il luogo della mediazione, del compromesso, dell’aggiustamento:
l’alternativa non può esserne che la solitudine dell’io che si pretende nudo di
fronte a se stesso, o la comunità perfettamente organica. Entrambe opzioni che
lasciano più di qualche dubbio sia sul piano della praticabilità, sia su quello
dell’auspicabilità. In qualche modo la stessa nostalgia per il mitico “valore
di scambio” originario, nasconde che proprio il perverso “valore d’uso” è il
valore effettivamente umano (p. 30, con riferimento critico a Debord).
Tutto ciò, insomma, dovrebbe
contribuire a far intendere che “sono le immagini stesse che ci fanno esistere
altrove” (p. 42), in una normale fisiologia dell’apparire che inerisce al
nostro essere sociale ben prima di qualsiasi alienazione. O, detto più
radicalmente, l’alienazione è una proprietà normale ed inaggirabile delle
immagini prima che una qualificazione morale da combattere, e pertanto è
assurdo rimproverare alle immagini di essere quello che sono. In qualche modo,
ciò ricorda anche l’inanità della pretesa di collocarsi nel mondo senza
giudicare: le persone si sottopongono l’un l’altra costantemente a un complesso
ed interminabile processo di valutazione, interpretazione, e giudizio.
Mi sembra molto acuta la
considerazione dell’autrice (p. 74) che la sfera pubblica di stampo habermasiano
o genericamente deliberativo, prima anche di poterlo diventare e anzi proprio
per poterlo diventare, è effettivamente una “dimensione estetica”, una sfera
dell’apparire in cui i soggetti si fanno reciprocamente presenti, proprio e
necessariamente, nell’apparire. Qualunque neutralizzazione si scontra
incessantemente con la propria stessa genesi, che è tutt’altro che neutrale in
quanto non è mai avalutativa. Ogni immagine è “stimata”, ossia carica di stime
sul suo valore, sul suo senso, etc. È lo stesso implicito che accompagna la
nostra esistenza sociale allorché ci interroghiamo sulle “figure” che man mano facciamo.
Talvolta in primo piano e acuto, più spesso solo accennato o in sottofondo, si
tratta comunque di un interrogativo che la dice lunga sulla nostra
consapevolezza di essere “esposti”, di proiettare apparenze che vengono
costantemente interpretate e giudicate.
È interessante che quest’analisi
implichi che le società del prestigio non siano affatto tramontate con l’Ancien Régime (ove certo i meccanismi in
questione si squadernano in maniera netta). Sulla scorta di Goffman, uno dei
riferimenti più forti dell’opera, Carnevali mostra come le dinamiche della
presentazione, dell’affermazione e del riconoscimento siano ubique e tutto sommato
piuttosto identificabili, una volta che si impari il loro codice simbolico. Possiamo
aggiungere che questo permette di comprendere la motivazione profonda dell’ostilità
contemporanea a quest’ordine di idee. Il fatto è che la stima e il prestigio
possono come tali distribuirsi solo in un’attività di tipo agonistico e
soprattutto in maniera gerarchica, perché sono concetti comparativi, inutili
senza differenze. Ciò, ripeto, non li fa meno presenti nelle società
democratiche, ma agisce come una nascosta e potente contraddizione performativa
al loro interno. E forse rappresenta il vero punto cieco delle democrazie e il
luogo ove esse trovano la propria antinomia.
Al di là di questo, un altro
corollario interessante è la priorità della sfera simbolica, che è ben lungi
dall’essere una dimensione solo sopravveniente su quella materiale. Anche se le
letture di stampo ingenuamente “marxista” sono disusate, la sottovalutazione
dell’estetica in favore della dimensione presuntamente materiale continua a
esercitare un condizionamento pervasivo, e non solo nelle interpretazioni naif. Invece, prendere sul serio la
natura simbolica degli esseri umani comporta che le questioni legate al
riconoscimento, il cui ambito d’azione è totalmente legato alle apparenze,
abbiano un primato decisivo che a ben vedere è confermato da tutto quello che accade
nelle dinamiche politiche e sociali contemporanee.
Il libro di Barbara Carnevali
offre una meditazione assai intelligente sui temi che ho cercato di riassumere.
A dir vero, ed è un ulteriore pregio, è in realtà uno dei pochi testi ad
analizzarli: il suo sforzo è dunque ancora più meritevole. A mio avviso avrebbe
forse potuto essere composto in maniera più organica: i capitoli, sempre dotati
di osservazioni acute e di spunti culturali variegati, sono piuttosto autonomi,
mentre avrebbero potuto succedersi in maniera più funzionale all’elaborazione e
sviluppo della tesi.
Indice
1. Apparire. La
società come spettacolo
“Vanity Fair”
2. Oltre la
maschera. Moralisti e romantici
Nostalgia per l’immediato
3. Figura.
L’immagine sociale
Immagini in esilio
4. Il gusto
degli altri. Fisiognomica sociale
Impressioni d’atmosfera
5. La mediazione
estetica e l’illusione romantica
Forma e società
6. “Sensorium
societatis”. Sfera pubblica e dimensione estetica
Il peso degli sguardi
7. Esposizione,
mondanità, pubblicità
Il mondano
8. L’immaterialismo
sociale e il prestigio
Potenza dell’aura
9. L’estetica
sociale. Un programma filosofico
Intersezioni
10. Due battesimi
e un divorzio. L’uomo economico e l’uomo estetico
Salvare le apparenze
11. Estetismo ed
estetizzazione. Patologia e fisiologia del sociale
Contro il valore estetico
12. “Social
design”
13. Il
manierismo snob. Mimesi, moda, bovarismo
14. Il fascino
discreto dell’aristocrazia. Proust e il corpo della nobiltà
Indice dei nomi
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