lunedì 2 maggio 2016

Losurdo, Domenico, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra

Roma, Carocci, 2014, pp. 303, euro 23, ISBN 978-88-430-7534-2 

Recensione di Maurizio Brignoli – 03/09/2015 

Il lavoro di Losurdo parte dalla constatazione che, di fronte a una crisi economica e politica, caratterizzata dallo svuotamento della democrazia e dall’affermazione di una “plutocrazia” sempre più dominante, in Occidente c’è una sinistra assolutamente incapace di produrre un’analisi di questa duplice crisi e di articolare un progetto di lotta e di trasformazione politica della realtà esistente.
Si riscontrano due processi fra di loro intrecciati: la “grande divergenza” fra l’Occidente e il resto del mondo (in particolare 


la Cina) tende a ridursi, mentre nei paesi capitalisticamente più avanzati si afferma la “grande divergenza” fra un’élite opulenta e il resto della popolazione. Di fronte a questa situazione l’Occidente capitalistico procede smantellando lo stato sociale e tenta contemporaneamente di ristabilire la propria supremazia internazionale attraverso il ricorso a guerre neocoloniali. L’ideologia dominante punta a giustificare lo smantellamento dello stato sociale come necessaria conseguenza della crisi economica, in realtà, mostra Losurdo, ciò che avviene ai nostri giorni è il frutto di «una lotta di classe che abbraccia oltre due secoli di storia» (p. 22). Ad esempio, alla fine della seconda guerra mondiale, Hayek sottolineava come il welfare state inglese costituisse una minaccia per le caratteristiche fondamentali della civiltà occidentale, mentre negli anni ‘70 definiva i “diritti sociali ed economici”, sanciti dall’Onu, frutto dell’influenza rovinosa della rivoluzione bolscevica. L’attacco a questi diritti non si origina quindi in riferimento alla crisi economica. 
Con la guerra fredda si è affermata un’ideologia secondo cui il mondo capitalista coinciderebbe con il “mondo libero”, ma proprio a causa del trionfo in questa guerra le condizioni all’interno dell’Occidente sono peggiorate: crisi, precarietà, licenziamenti, disoccupazione e riduzione delle libertà sindacali. La lotta secolare del movimento operaio, che era anche una lotta per la libertà volta a ridurre il potere esercitato dalla volontà altrui, oggi viene progressivamente ricacciata indietro. La diseguaglianza economica si traduce in diseguaglianza politica. Abbiamo quello che l’autore chiama “monopartitismo competitivo” (p. 52) in cui due partiti fanno riferimento a uno dei due gruppi di interessi in cui si articola la ristretta minoranza che controlla la ricchezza e la vita politica del paese; la conseguenza è che i movimenti di protesta sfociano in jacquerie urbane prive di sbocco politico e di riferimenti all’interno del parlamento, a riprova di come le masse popolari si trovino prive di rappresentanza in organismi che sono eletti sulla base di quella che di fatto è una discriminazione censitaria, o nel rafforzarsi dei partiti populisti. 
Il grande merito del liberalismo è stato quello di puntare a introdurre norme capaci di limitare il potere. Il potere assoluto di vita e di morte, esercitato da Washington anche su interi popoli, dovrebbe allora apparire come inaccettabile per l’Occidente liberale che invece si preoccupa soltanto quando questo potere viene messo in discussione da qualche resistenza inaspettata. D’altro canto i grandi teorici del liberalismo, come Acton, Mill, Tocqueville quando parlano di libertà si riferiscono esclusivamente alla comunità bianca e non hanno nessuna difficoltà a teorizzare il dispotismo dell’Occidente sulle razze “minorenni” e sulla stessa strada si porrà poi Popper. L’idea della “democrazia per il popolo dei signori” attraversa in profondità la storia dell’Occidente liberale, ma in modo analogo finisce per argomentare la sinistra che eredita tutti i limiti della tradizione liberale. 
La svolta avvenuta fra il 1989 e il 1991 non basta a spiegare la debolezza di cui continua a dar prova la sinistra occidentale. Il grande capitale si basa non soltanto sul monopolio della produzione, ma anche su quello delle idee e elle emozioni attraverso quello che Losurdo chiama “terrorismo dell’indignazione” (p. 76). Siamo di fronte a un “uso strategico del falso”, si punta, attraverso i media, a suscitare un’ondata di indignazione contro il nemico, così possente, da sancirne una sorta di scomunica dalla comunità internazionale e dal genere umano. Dal 1991 si può vedere come la società dello spettacolo svolga un duplice ruolo bellico: da un lato alimenta il terrorismo dell’indignazione e dall’altro fa apparire come un gioco sostanzialmente innocuo i bombardamenti che vengono scatenati contro il nemico. 
È all’opera una specie di sillogismo di guerra: ci sono valori universali, l’Occidente ne è il custode esclusivo e quindi ha il diritto di esportarli anche con la guerra. La pretesa dell’Occidente e degli Stati Uniti di porsi come campioni dei valori universali non è una novità e non da oggi questa pretesa è priva di qualsiasi credibilità: già nel 1809 il proprietario di schiavi Jefferson celebrava gli Stati Uniti come “impero per la libertà” (p. 163); Clinton parlerà dell’America come della “più antica democrazia del mondo” dotata di una “missione senza tempo” (p. 164), ma questa patente di democrazia attribuita agli Stati Uniti al momento della loro fondazione tace il genocidio delle popolazioni indigene e la schiavitù dei neri. La “democrazia”, sottolinea Losurdo, continua a essere celebrata in modo non universalistico facendo astrazione dalla sorte inflitta ai popoli coloniali. La pretesa di un singolo paese o di una singola civiltà di porsi come incarnazione dell’universalità è esattamente la negazione dell’universalismo: «ad agitare con zelo particolare la bandiera dell’universalismo è il paese che incarna l’etnocentrismo più esaltato» (p. 164). 
Siamo di fronte oggi a un “neocolonialismo economico-tecnologico-giudiziario” articolato in modo da poter garantire un controllo dell’economia dei paesi assoggettati o da assoggettare in modo da agevolare la loro sconfitta già con l’isolamento economico o con l’embargo, una superiorità tecnologico-militare in grado di ridurre all’impotenza l’avversario, una potenza di fuoco multimediale che presenta il nemico come un barbaro estraneo al genere umano e trasgressore dei diritti umani, una doppia giurisdizione che garantisce l’impunità all’aggressore. Sul piano internazionale gli Stati Uniti si comportano come i detentori del monopolio della violenza legittima riservando a se stessi lo jus ad bellum. D’altro canto la sinistra occidentale condivide tutto ciò pensando di dar prova di “internazionalismo” senza rendersi conto che lo “Stato mondiale” che appoggia non è altro che l’“Impero planetario” cui punta di volta in volta la potenza più ambiziosa e sciovinista. 
Secondo Losurdo a rappresentare ora la causa dell’anticolonialismo è la Cina, il paese cioè che ha sintetizzato la storia del movimento comunista e di quello anticolonialista. L’ottenimento dell’indipendenza non comporta il superamento della questione coloniale, visto che rimane da colmare il distacco economico e tecnologico dai paesi capitalisti più avanzati. Questa consapevolezza della necessità di una nuova tappa della rivoluzione anticoloniale è, per l’autore, il merito principale di Deng Xiaoping. Bisogna comprendere la lotta anticapitalistica a partire dalla centralità della lotta fra colonialismo e anticolonialismo; vi è la necessità di passare da una fase prevalentemente militare a una fase prevalentemente economica della rivoluzione anticoloniale. 
Losurdo contesta le posizioni di chi vede nella Cina un paese caratterizzato da un capitalismo autoritario di stampo neoliberista e sottolinea come la ricchezza prodotta da questa crescita economica eccezionale non possa essere interamente utilizzata per realizzare lo stato sociale visto che occorrono forti investimenti per sviluppare le forze produttive, condizione per mantenere lo stato sociale stesso. La guerra fredda sul piano ideologico si è combattuta anche in questo modo: se il campo socialista esibiva uno spazio senza precedenti garantito ai diritti economici e sociali, l’Occidente rispondeva introducendo uno stato sociale più o meno avanzato ed esibendo una società dei consumi decisamente più opulenta, ma se una società postcapitalistica non affronta adeguatamente la sfida rappresentata dalla società dei consumi non è in grado alla lunga di difendere lo stato sociale. 
La sinistra nel suo complesso non sa opporre una reale resistenza all’offensiva reazionaria, cerca anzi di distinguersi come uno dei suoi protagonisti più zelanti. Abbiamo quella che l’autore definisce una “sinistra imperiale”, il cui esponente più illustre è Bobbio, che condanna il comunismo per aver sacrificato la morale sull’altare della filosofia della storia e contemporaneamente ne trasfigura in chiave morale gli antagonisti procedendo a giustificare le guerre scatenate dall’Occidente. La sinistra imperiale non fa mai riferimento agli interessi materiali del quadro geopolitico rinviando soltanto ai grandi principi morali. 
Uno stato sociale non si realizza senza risorse finanziarie rese disponibili dall’imposizione fiscale progressiva bersaglio privilegiato del neoliberismo. Il filosofo tedesco Sloterdijk parla di “redistribuzione coatta” e di “sistema dominante di coercizione fiscale” contrapponendo un “incremento della beneficenza” e dell’“etica del dono” (p. 254), trasfigurando così gli evasori fiscali in campioni della resistenza contro la “coercizione” statale e i fautori dello stato sociale come nemici della libertà. Ma queste posizioni trovano rispondenza a sinistra con Žižek secondo il quale, dato il fondamentale egoismo degli esseri umani, è solo lo stato col suo apparato coercitivo che obbliga a contribuire al benessere comune, ma questo compito deve essere invece svolto da una “solidarietà” volontaria e spontanea. A partire da queste posizioni anarcoidi, conclude Losurdo, non è possibile difendere né i diritti sociali ed economici né la democrazia nella sua dimensione interna e internazionale. Anche in un altro autore di riferimento dell’odierna sinistra occidentale, Latouche, troviamo una delegittimazione dello stato sociale, infatti, secondo il teorico della “decrescita”, voler salvare l’occupazione a tutti i costi indica un attaccamento viscerale alla società lavorista. Paradossalmente la catastrofe non è la miseria di massa dell’immediato dopoguerra, ma il suo superamento. Con Latouche non si comprende poi che il Terzo mondo è in larga parte il risultato della deindustrializzazione e della decrescita che sono state imposte dall’aggressore imperialista. 
La sinistra occidentale, ormai indistinguibile dagli altri partiti borghesi, è parte integrante del monopartitismo competitivo che caratterizza i paesi capitalisticamente avanzati. Si stanno delineando pericoli di guerra su larga scala, ma tutto ciò non preoccupa la “sinistra imperiale” e questa spensieratezza è legittimata da una sinistra “radicale” secondo la quale vi è una borghesia unificata a livello planetario cui si contrappone una “moltitudine” altrettanto unificata dal superamento delle barriere statali e nazionali. 
Losurdo prosegue anche con questo interessante lavoro un’opera da tempo intrapresa nel tentativo di smascherare, in contrapposizione all’ideologia della “democrazia”, della “libertà”, dei “diritti umani” imposti spesso con le armi della Nato, la realtà dell’imperialismo dominante. Il lavoro è inoltre arricchito da puntuali riferimenti storici attraverso i quali l’autore procede a supportare le sue tesi. Ciò che convince meno è la difesa del carattere socialista della Cina. Losurdo contrappone alle tesi di Harvey, che sostiene la dimensione neoliberista dell’economia cinese, il fatto che in Cina vi siano politiche volte a favorire l’occupazione se mai definibili, come ammesso anche da Harvey, come keynesiane. Resta il fatto però che il keynesismo è un fenomeno interno al modo di produzione capitalistico e realizzabile in una fase di espansione economica. La questione dirimente da questo punto di vista rimane quella di stabilire quale sia il modo di produzione dominante nella Repubblica popolare cinese. Il “pivot to China” dell’imperialismo statunitense allora non è tanto volto a impedire un processo di lotta anticoloniale e comunista, ma fa parte di uno scontro intercapitalistico e ciò nulla toglie alla puntualità della ricostruzione della strategia anticinese che andrebbe però meglio inquadrata all’interno di una lotta fra capitalismi in competizione. 


Indice 

Premessa 
1. Attacco allo Stato sociale, barbarie neocoloniale, guerra. L’Occidente e la sinistra assente 
2. Il mondo capitalista-imperialista quale «mondo libero»? 
3. Società dello spettacolo, terrorismo dell’indignazione e guerra 
4. Da Truman al 1973 e dal 1989 giorni nostri. Due ondate di colpi di Stato 
5. La costruzione dell’universalismo imperiale 
6. Dal colonialismo al neocolonialismo: discontinuità e continuità 
7. Controrivoluzione neocoloniale e «pivot» anticinese 
8. Tra sinistra imperiale e sinistra populista e anarcoide. La situazione in Occidente 
Conclusione. Il nuovo quadro mondiale, i crescenti pericoli di guerra e la dispersa sinistra occidentale

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